di Nico Maccentelli

“Más temprano que tarde, de nuevo se abrirán las grandes alamedas por donde pase el hombre libre, para construir una sociedad mejor.”

(Salvador Allende)

Santiago del Cile, 25 ottobre 2019, davanti alla Biblioteca Nazionale migliaia di cileni con le chitarre cantano El derecho de vivir en Paz di Victor Jara. Sono i giorni della rivolta. Una protesta di massa iniziata per via delle misure del governo di estrema destra presieduto da Sebastian Piñera di aumento dei prezzi dei trasporti, dell’elettricità e del gas.

Per precisare il contesto va detto che proprio in Cile, con il colpo di stato dei militari guidati da Augusto Pinochet e diretto dalla CIA, che assassinò il legittimo presidente Salvador Allende nel palazzo presidenziale della Moneda e avviò una repressione sanguinaria contro le sinistre e i lavoratori, ha inizio come esperimento la politica neoliberista dei “Chicago boys” di Milton Friedman. Una politica che poi è stata diffusa in tutte le aree geoeconomiche egemonizzate dagli USA e dal blocco imperialista atlantico.

Le parole pronunciate da Allende attraverso le onde di Radio Magallanes l’11 settembre 1973 suonano come profetiche. Potrebbe essere la sceneggiatura di un film. Di quelli in cui un protagonista fa una promessa o un vaticinio che dà poi il via alla storia fino al suo epilogo. Ma in realtà non è così, ovviamente. Non c’è nulla di magico o di mistico. Ma c’era un presidente socialista che conosceva la storia: quella dell’umanità e del suo popolo e che pensava ed agiva secondo un paradigma teorico marxiano.

Quello che Allende sapeva bene senza conoscere il futuro come Calcante erano due cose: la prima che ogni oppressione presto o tardi avrà una risposta. La seconda, più profonda e più sottile, è che la storia non si misura in giorni, settimane o anni, ma in decenni e più. In un lasso di tempo più lungo prima che i giorni facciano fare balzi addirittura di secoli. E che le esperienze sociali e politiche delle genereazioni passate sono memoria storica, ossia un fiume carsico che può prorompere tumultuoso quando le condizioni economiche, politiche e sociali favoriscono il conflitto tra classi sociali nella sedimentazione di coscienza collettiva, di chiarezza del nemico e di sviluppo degli obiettivi dal particolare al generale.

Il popolo cileno ha risposto al golpe di Pinochet: lo ha fatto 46 anni dopo l’inizio della dittatura. Un paese che del resto anche dopo, con il ritorno della “democrazia”, ha mantenuto elementi costituzionali del regime fascista ed elementi di politica economica neoliberisti, di inesistenza di uno stato sociale, di liberismo sfrenato e diseguaglianze fortissime.

L’oblìo è una stasi, una parentesi, un elemento culturale dei rapporti di forza tra classi, ma nulla di più, alla faccia delle visioni junghiane o orwelliane sull’immaginario collettivo. Può interferire sulle coscienze in una fase in cui i mutamenti della composizione sociale della classe (es.: la destrutturazione dell’operaio massa a favore di una frammentazione della classe nei cicli di produzione e nei processi di lavoro capitalistico) unita alla potenza mediatica del pensiero unico dominante vanno a descrivere una narrazione che eternizza le relazioni sociali capitalistiche ed esalta l’ascensore sociale per “l’uomo che si fa da sé”. Parlo della falsa coscienza ben descritta da Marx.

 

Il proletariato ha una memoria prodigiosa…

Ogni popolo ha la sua storia. Quella italiana per esempio è legata alla Resistenza, alla guerra di Liberazione dal nazifascismo, secondo diverse angolature: patriottica, comunista soviettista, democratico-liberale, ma con il denominatore comune dell’antifascismo. Ma nell’imprintig del conflitto sociale italiano abbiamo l’esperienza storica del partito comunista più vasto dell’Occidente, le lotte per la terra, piazza statuto, l’autunno caldo, il ’68 e in minima parte le lotte antagoniste degli anni ’70. E non si tratta di validare o incensare un paradigma politico anziché un altro. Lasciamo Togliatti dove sta. Sulle modalità politiche, le diverse concezioni dei marxismi si tratta di porsi su un piano differente di confronto e battaglia politica. Qui si parla di immaginario collettivo e memoria storica della lotta di classe. Questo è l’imprinting non della sinistra in sé (che oggi in Italia è un cane morto) ma dell’esperienza complessiva del movimento operaio italiano e dei movimenti che hanno caratterizzato la lotta di classe in Italia dal bienno ’43-45 per il resto del Novecento.

Questo della memoria storica non è un capitolo chiuso dai nani e dalle ballerine berlusconiani, né dai mutamenti profondi della composizione di classe. Del resto, con l’esplosione della rete e la pletora di informazioni, stiamo assistendo a una messa in discussione della narrazione stessa di regime. Pertanto, non facciamo il regime dominante più forte di ciò che è. Gli apparati di stato e del capitale non possono controllare tutto e imporre una narrazione dominante. E questo avviene soprattutto quando la narrazione stride con la realtà dei fatti.

 

La falsa coscienza non è solo quella del mainstream

Pertanto, quando le contraddizioni sociali saltano, i riferimenti alle esperienze del passato sono pressoché immediate anche con salti generazionali. Sono i ceti politici e partitici a non rendersene conto. A sinistra non è la prima volta. Sin dalla rivoluzione russa del 1905 le masse stesse, autorganizzate hanno scavalcato l’opportunismo delle burocrazie socialdemocratiche e semmai la questione è se la forma partito oggi nel nostro contesto socio-econimico sia la forma più adeguata per un’avanguardia di classe.

Oggi in Italia abbiamo una sinistra completamente lobotomizzata sul piano della memoria storica: o azzerata persino sul piano valoriale nell’”umanesimo” di Bersani o nel renzismo, il PD e suoi derivati, oppure iper-ideologizzata, quasi a religione, con un insieme di icone mitologiche che non hanno più alcuna attinenza con la realtà (vedi i partitini m-l o comunque “isti” di varie parrocchie), tra baffoni e pizzetti. L’involucro senza la sostanza.

Abbiamo sinistre antagoniste che persino si riciclano in una sorta di patriottismo anacronistico, con paragoni col PCI nella Resistenza, quasi che l’Italia abbia truppe d’occupazione come nel ’43. Ma è semplice, la questione della sovranità nazionale esiste certamente in un quadro geopolitico di dominio classista degli apparati UE sul paese, ma dentro una questione ben più dirimente: la questione di classe.

Abbiamo sinistre euro-riformiste che si spacciano per conflittuali, ma il riformismo impossibile verso lo stato nazionale lo hanno trasferito (sempre impossibile) in una dimensione europea.

Poi ci sono sinistre ancora che si inventano nuovi immaginari per l’antagonismo sociale considerando quello del passato superato e giudicato con una chiave interpretativa ideologica, pensando così di introdurre visioni libertarie nel bastonare un cane ideologicamente già bell’e che affogato.

Ma l’immaginario c’è e non lo puoi cambiare a raglio, secondo la tua visione del conflitto o dell’abbandono di questo. C’è al di là di ogni pia intenzione ed evidentemente a tutti questi alchimisti del pensiero politico sfugge cosa sia la memoria storica, come viva nei sedimenti sociali lungo il tempo.

 

Memoria storica oltre il tempo, lo spazio geografico e le specifiche koiné

18 ottobre 2019, Baghdad. La rivolta sociale divampa in Irak, un paese che dopo due occupazioni imperialiste e un embargo che ha ucciso centinaia di migliaia di persone, non riesce più a rialzarsi. Negli scontri tra polizia e manifestanti sono oltre 200 i morti. I manifestanti nel fuoco della lotta cantano “Bella ciao”. Lo stesso canto che si ode a Santiago, a Valparaiso, nel Rojava tra le combattenti curde dell’YPG. Veniva cantato nel 2013 a piazza Taksim a Istanbul, dalla folla delle sinistre turche.

L’immaginario non è solo una memoria storica circoscrivibile a un singolo paese. Le esperienze di lotta si trasmettono e propagano da popolo a popolo, da paese a paese. Nel momento in cui la lotta divampa i riferimenti storici, politici nel villaggio globale diventano immediati. Mc Luhan è anche questo, non è solo mainstream.

“Sono solo canzonette”? Quel che è certo è che sono segnali indicativi di come culture del conflitto, pratiche, identità anticapitaliste e antimperialiste si riconoscono rispetto a un comune nemico.

La lotta di classe in Italia, dalla Resistenza e lungo quasi quattro decenni, ha rappresentato il portato politico antagonista più alto in Europa e uno dei più avanzati in Occidente. Movimento operaio e sue battaglie sociali e sul lavoro, femminismo, valore dell’antifascismo, tutto ciò si è fissato in una sorta di mitopoiesi rivoluzionaria nell’immaginario mondiale delle classi popolari, come parte di una visione comune fatta di archetipi rivoluzionari che emerge e proprompe nel momento in cui le contraddizioni sociali saltano e la ricerca diffusa di riferimenti ed evocazioni adeguate ai bisogni politici di sovversione iniziano a farsi strada.

A qualcuno piacerebbe rifondare qualcosa di nuovo, in quanto vede solo i risvolti politici e ideologici di esperienze fallimentari del socialismo storico e reale, confondendoli con l’immaginario collettivo e la memoria storica, ma è come cercare di fermare un fiume in piena con una paletta. Meccanicismo inadeguato e stolto.

 

E oggi?

Oggi che il capitalismo vive la sua crisi epocale a partire da quello atlantista d’occidente, a dominanza USA, con una crisi d’egemonia rispetto ad altri e ben potenti attori come Russia e Cina, vediamo che si aprono anche tutte le contraddizioni sociali date in decenni di macelleria neoliberale sia nel terzo mondo che nelle metropoli imperialiste.

Per quanto riguarda l’Italia, la questione del conflitto sociale che non si dispiega, nonostante il costante attacco alle condizioni di vita, di lavoro, ai salari, alle pensioni, ai servizi di un capitalismo neoliberale sposato anche e soprattutto dalla “sinistra” che non è più tale, come il PD, è perché a differenza dei paesi latino-americani, dove l’attacco capitalista ha tolto tutto, anche gli occhi per piangere, nel nostro paese le attuali nuove generazioni stanno sopravvivendo raschiando il fondo del barile dei risparmi di quelle precedenti. Ma è solo questione di tempo.

Ormai intanto sempre più le nuove generazioni comprendono che in questa costante erosione, che è anche erosione di posti di lavoro, di servizi alla persona sempre più messi a profitto nello smantellamnento dello stato sociale, non c’è futuro, ma solo gestione dell’esistente da parte di partiti burocrati che, destra o sinistra o 5Stelle è uguale, si limitano a fare i recupero crediti per la finanza e gli agenti facilitatori delle libertà per le sole multinazionali in un mercato globale che non è più nemmeno liberale, di libera concorrenza, ma terreno di profitti garantiti, addirittura blindati, da trattati come il CETA e da quelli europei da Maastricht a oggi, da sovvenzioni obbligatorie per i complessi militari industriali degli imperialismi egemoni come l’acquisto degli F35.

Da qui, la reazione immediata attinge da un immaginario coltivato dal mainstream in decenni di berlusconismo, la società dello spettacolo: una soluzione per sé, di campanile, fatta di xenofobia che sfocia nel razzismo, di attacco ai più deboli credendo di garantirsi le misere briciole di reddito e la posizione di rendita che ancora cadono dalle tavole imperialiste con logiche selettive, clientelari e corporativistiche. Un razzismo che non è solo discriminazione etnica, ma classista: a un afroamericano che giunge con un volo Panam da New York per alloggiare all’Hilton nessuno romperà mai il cazzo. E ho detto tutto.

Un classismo che dipinge il terrore dei ceti medi di proletarizzarsi, tra saracinesche abbassate e mense della Caritas, in un immaginario da incubo e in una ricerca soggettiva affannata della situazione precedente: quel bel patto sociale che portava in piazza a Torino 40 mila capetti per dire basta agli operai che lottavano, quella piccola e media impresa che faceva i dané con le svalutazioni competitive, tutte cose passate e distrutte dalle regole UE e dall’Euro. Ecco allora la falsa soluzione: bastonare i “negher” che affogano e votare i partiti dell’ordine, i Salvini che come Orban vogliono una rinascita nazionalista del paese, ma in realtà solo a parole, perché tutti ben allineati, futuri Piñera, con la repressione classista per affermare la solita ricetta neoliberale, ma  che mette nel paniere dei profitti anche una fetta per il capitalismo straccione e di piccolo cabotaggio che Salvini e le destre appunto rappresentano.

Ma fino a che punto questo controllo ideologico dei mass-media e dell’industria culturale potrà reggere di fornte alle contraddizioni sociali destinate ad acuirsi?

E allova va detto che non è finita qua. Quando le classi popolari italiane risponderanno a questo scempio sociale, a questo teatrino dei pupi? La risposta è quando nella ricerca di un’identità collettiva e di una solidarietà sociale, nella spinta a ricercarsi e a unirsi, si tornerà a rievocare le stagioni di lotta del passato, i riferimenti culturali, le pratiche. E si guarderà al resto del mondo che si sta muovendo e che dal Cile all’Irak, dalla Catalunya al Rojava, dal Libano ad Haiti, non è un universo fatto di realtà spezzettate, ma un insieme di vasi comunicanti che si influenzano reciprocamente con il collante dell’identità sociale e del nemico comune, che è sempre più chiaro e definito.

 

In definitiva…

… cosa è possibile fare? Stare nelle lotte, costruire gramscianamente una rinnovata egemonia di classe nel corso del conflitto sociale, fare propaganda, costruire luoghi di aggregazione che sperimentino il mutualismo, l’autogestione e nell’andamento di queste attività costruire unità e organizzazione di massa.

L’immaginario collettivo non è una terra colonizzata dal mainstream in eterno. E nei periodi di oblìo, quando sembra che la memoria storica delle lotte del passato si sia conclusa, in realtà non è finito un bel nulla.

L’esperienza cilena lo dimostra. Decine di migliaia di chitarre che suonano Victor Jara davanti alla Biblioteca Nazionale di Santiago non sono un caso. C’è un immaginario collettivo che esiste e resiste nel tempo. Un tempo che non può essere misurato in mesi o anni, ma in decenni e più.

Il popolo cileno ha risposto alla dittatura di Pinochet: lo ha fatto 46 anni dopo il golpe e con i medesimi riferimenti culturali dell’epoca. 

Sono riferimenti culturali, pratiche di lotta, esperienze politiche che si ripropongono e rinnovano nel tempo, che s’innervano lungo vasi comunicanti da un paese all’altro, da un continente all’altro. La memoria storica è un fiume carsico che a un certo momento prorompe nelle pratiche sociali e nell’identità collettiva di una classe sociale.

Non può esistere una visione gramsciana dell’egemonia senza considerare le potenzialità sovversive della memoria storica e la dialettica che intercorre tra questa e l’andamento della lotta di classe nel divenire delle contraddizioni sociali.

Quando la sinistra è un cane morto occorre rivolgersi direttamente alla classe e ai suoi movimenti reali. Quando non sai come si fa, chiedi alla Resistenza, al ’68, al ’77. L’immaginario risponderà.

 

P.S.

Questo articolo è stato chiuso pochi giorni prima della crisi boliviana, con il colpo di stato fascista orchestrato dalla CIA e dalle destre dell’oligarchia nazionale. È indubbio che il grande errore sia di Salvador Allende che di Evo Morales, al di là di tutte le analisi politiche che si possono fare sugli specifici contesti, è ben descritto in questo video che riporto anche qui sotto. E la domanda è: perché in Bolivia il golpe è riuscito e in Venezuela no?