di Sandro Moiso

Pour Julien Coupat et tous les autres arrêtés

Poiché è inevitabile parlare di cifre, calma e gesso e iniziamo con un paragone.
Se i media e i giornali infeudati alle mafie politico-economiche delle grandi opere avessero utilizzato per la manifestazione contro il TAV di sabato 8 dicembre lo stesso metro utilizzato per quella del 10 novembre a favore del buco nero tra i monti, avrebbero dovuto parlare di un numero di manifestanti compreso tra i 250 e i 300mila. Quattro-cinque volte il numero reale che, comunque è stato altissimo.

La vecchia busiarda torinese ha parlato di “manifestazione oceanica” e la sua consorella Repubblica ha fatto ballare i numeri tra i 40, 50 e 70 mila. Detto dal nemico non è male, per cui ci si può ampiamente accontentare; senza dimenticare, però, che l’ecumenico telegiornale di Mentana sulla 7, domenica sera, ha avuto la faccia tosta di affermare che quella NOTav ha “pareggiato” la manifestazione delle madamine SìTav. Forse sarà per questo che lo scanzonato Enrico è sempre più presente in qualità di spalla, come il secondo dei fratelli De Rege, ai dibattiti pubblici col ministro degli interni e capo della Lega.

Ma, poiché i calcoli da partita doppia poco ci interessano, occorre qui subito parlare anche di quella sporca dozzina di associazioni imprenditoriali (non se ne abbia male per la citazione il genio cinematografico di Robert Aldrich) che, prima con il cappello in mano a Torino e poi con aria un po’ più tronfia a Roma, si sono rivolte al Governo per un’elemosina a suon di taglio delle tasse e di investimenti a fondo perduto .
Confermando la tendenza storica di una classe im/prenditoriale italiana sempre pronta a mungere la mammellona dello Stato (o dell’EU) e a scaricare i costi, le spese e i danni sulla comunità e sui cittadini. Profitti privati per alcuni (avere) e perdite e danni distribuiti tra tutti (gli altri – dare).1

Confermando anche, però, nell’incontro al Viminale con il solito Mister Muscolo domenica 9 dicembre, che l’innamoramento per il Fascismo e l’autoritarismo hanno sempre costituito il necessario corollario politico dell’interventismo keynnesiano-mussoliniano statale in favore delle grandi opere2 destinate a rilanciare i profitti di imprenditori paurosi e spilorci, rispetto ai quali i gestori dei traffici internazionali di droga della ‘ndrangheta attuale sembrano autentici geni della gestione aziendale, eroi del rischio di impresa e giganti dell’organizzazione della distribuzione delle merci a livello internazionale.

Delle madamine è inutile parlare, non solo perché si trae poca gloria dallo sparare bordate sugli incapaci e gli inconsapevoli, ma anche perché, in fin dei conti, sulla scia del governatore della regione Piemonte e il suo partito, continueranno a farsi sempre più male da sole, cinguettando in pubblico dalla Gruber oppure sui social e sui giornali. In un atteggiamento masochistico che avrebbe lasciato perplesso anche Leopold von Sacher-Masoch, convinto com’era che dall’infliggersi o dal farsi infliggere qualche forma di dolore si dovesse, almeno, trarre una qualche forma di piacere.

Così come è inutile parlare del Movimento 5 Stelle che, pur presente in piazza per ragioni elettorali, con il suo atteggiamento ondivago e incerto ha contribuito più a rafforzare le speranze del partito del PIL e a ridestare le sue richieste di trattativa per la realizzazione del tunnel mangia soldi e divora ambiente che non a mettere una decisa parola “fine” sulle grandi opere inutili e dannose, così come era richiesto da tutti i suoi elettori, oggi illusi e delusi allo stesso tempo.

E allora parliamo di questo movimento grande, forte, propositivo.
Di un movimento che, insieme a tutti gli altri che lottano per la difesa dell’ambiente, dei territori e delle comunità che li abitano, grandi o piccole che esse siano, rappresenta non solo il futuro, ma anche l’unico vero governo del cambiamento. Sia che questo avvenga a Torino, nel Salento oppure nelle strade di Parigi, Marsiglia e Bruxelles.
A dispetto di quanti vogliono infatti dipingere i valsusini, i salentini o i gilets jaunes come retrogradi e nemici del miglioramento delle condizioni di vita, tutti questi movimenti rappresentano già, nelle strade delle città o nelle valli montane e nelle zone costiere, l’unica forma di governance possibile per il futuro della specie umana.

Già da tempo infatti non hanno più alcun bisogno di far derivare la propria azione dai programmi di partiti già ammuffiti dal tempo o falsamente innovativi, perché, liberatisi dal fardello del paradigma politico novecentesco e dalle sue dialettiche rappresentative, sono gli unici ad avere una prospettiva che sia in grado di scavalcare e superare la palude del presente, in cui le sabbie mobili del produttivismo e di un ciclo di accumulazione giunto ormai in Occidente alla sua fine continuano a trascinare verso il suo fondo melmoso la ricchezza socialmente prodotta, i risparmi, la salute e le condizioni di vita di milioni di cittadini.

Un fondo melmoso che, come in un film di serie B degli anni ’50, non può che far emergere mostri e mostricciattoli dai tratti orribili e ridicoli allo stesso tempo.
Una melma nera e untuosa che si incolla alle suole degli stivali di chi vive della terra, che stringe le caviglie dei lavoratori e dei disoccupati e che cerca di trascinare nel suo profondo coloro che l’attraversano come un mare nazionalizzato e sovranizzato fa con i migranti, ma che, alla fine, vedrà depositarsi sul suo fondo soltanto le scorie e i funzionari di un modo di produzione che, tra qualche secolo, sarà ricordato come quello più imbecille e dannoso tra i tanti prodotti dalle società umane nel loro percorso lungo centinaia di migliaia di anni.

Un sistema di dominio e sfruttamento che nel giro di pochi secoli, superbi e sciocchi, ha cercato di ridisegnare e disintegrare i rapporto tra la specie e la natura di cui fa parte, tra uomo e uomo e uomo e donna, in nome del profitto, della proprietà privata dei suoli e dei mezzi di produzione e di un progresso che già il vecchio Jean-Jacques Rousseau, unico nel suo tempo, aveva individuato come un processo di involuzione piuttosto che evolutivo.

Signori di Confindustria, esponenti della Lega delle cooperative, parlamentari e rappresentanti di tutti i partiti egualmente responsabili del disastro sociale e ambientale, esponenti delle camarille politico-mafiose nazionali e internazionali, amministratori locali asserviti ad interessi che non sono certamente quelli dei cittadini rappresentati, dirigenti di Confcommercio, signori del cemento e delle armi, rappresentanti della finanza internazionale e dell’UE, le orecchie già vi fischiano, ma non volete ancora capire. La pressione interna sta salendo e i vostri cuori economici e politici, siano essi a Milano, Torino, Roma, Londra, Bruxelles o Parigi stanno per collassare o implodere. Il vostro pargoleggiar d’ingegni non convince più nessuno. Tanto meno i tecnici e gli scienziati: quelli veri, certo non quelli dei salotti televisivi.

Arresterete e denuncerete ancora, sparerete flashball e granate esplosive per mutilare i manifestanti oppure cercherete di soffocarli con il gas Cs; scatenerete ancora guerre sul suolo altrui e in casa vostra e chiuderete i confini oggi agli uomini e alle donne e domani alle merci nemiche. Userete il cemento, il feticcio denaro, la produzione e il trasporto di merci inutili e il lavoro coatto per soffocare ancora la Natura e tutte le specie che la abitano. Ma noi siamo la Natura e voi avete già perso.

Sarà forse, come per le madamin torinesi, una risata che vi seppellirà oppure, come già aveva profetizzato, alla metà del XVI secolo e agli albori del vostro momentaneo trionfo, Étienne de La Boétie, il consenso su cui si basa il vostro potere semplicemente crollerà poiché, ancor prima di ribellarsi, i protagonisti dei movimenti attuali hanno smesso di credere alle vostre miserabili promesse.3

Le strade di Torino, Parigi, Bruxelles e i movimenti in ogni angolo d’Europa e del mondo ve lo stanno gridando forse per l’ultima volta: guardatevi allo specchio e vedrete riflessi dei morti viventi. Noi siamo vivi e voi siete già tutti morti.
Macron è già malato. Gravemente. Ed è forse per questo che cercate di evitarlo come un appestato, ma il nostro virus si sta diffondendo rapidamente e sta arrivando anche per voi.

Noi siamo la malattia che più temete, per la quale non avete più anticorpi e allo stesso tempo, come portatori sani di una diversa prospettiva per il futuro, siamo la cura per salvare la specie e il suo habitat.
Voi avete governato questo pianeta per qualche miserabile tempo; noi, a fianco dei nostri antenati tutt’altro che pre/istorici e sicuramente più evoluti di voi, tutti uniti in social catena, possiamo invece affermare che c’eravamo, ci siamo e ci saremo. Sempre


  1. Un vizio comunque antico e diffuso non soltanto in Italia, visto che, a proposito della patria per eccellenza dei self-made men e dell’imprenditoria privata, un autore disincantato come Robert Hughes poteva scrivere, nel 1993: “E’ vero che la revisione della storia del West può mettere in crisi miti molto amati. Un esempio fra tanti: il West è il luogo archetipico della diffidenza verso la Mano Pubblica, la terra dell’uomo indipendente che ce la fa da solo. Eppure l’esistenza economica di gran parte del West – di uno Stato come l’Arizona, per esempio – è dipesa, non marginalmente o occasionalmente ma sempre e totalmente, dai fondi federali di Washington. Gli Stati del Sud-Ovest non avrebbero mai potuto raggiungere l’attuale densità di insediamento senza gli enormi stanziamenti per le opere idrauliche. Più che il John Wayne dello sviluppo americano, essi sono un modello di interventismo assistenziale.” Robert Hughes in La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano 1994, edizione 2003 pp. 151-152  

  2. Un paragone, azzeccato, che può essere fatto è con l’affermazione di John Maynard Keynes secondo cui, al fine del rilancio dell’economia, del ‘lavoro’ e degli investimenti, lo Stato potrebbe anche prendere la decisione di far scavare una gigantesca buca (un tunnel?) per poi tornare a farla riempire.  

  3. “Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi. Non vi chiedo di scacciare il tiranno, di buttarlo giù dal trono, ma soltanto di smettere di sostenerlo; allora lo vedreste crollare a terra e andare in frantumi per il suo stesso peso, come un colosso a cui sia stata tolta la base. [Poiché se] non si presta loro obbedienza […] rimangono nudi e sconfitti.” Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Liberilibri, Macerata 2004