di Valerio Evangelisti e Mauro Baldrati

[Per pura combinazione, due redattori di Carmilla hanno recensito nello stesso tempo il medesimo romanzo. Poiché le angolazioni sono diverse, pubblichiamo entrambe le recensioni.]

Alberto Cassani, L’uomo di Mosca, Baldini e Castoldi, 2018, pp. 338, € 18,00

Il romanzo del partito morente

di Valerio Evangelisti

Alberto Cassani è stato un brillante assessore di Ravenna, prima di passare di recente a incarichi nella regione Emilia-Romagna. Ha seguito da militante attivo tutta la parabola che ha portato dal PCI all’attuale PD. Il nonno Mario è stato una figura importante della Resistenza nel Ravennate, e nel dopoguerra sindaco di Alfonsine e tesoriere provinciale del Partito Comunista.

Questi sommari dati biografici sono essenziali per comprendere il significato de L’uomo di Mosca. E’ stato presentato come un thriller sulle orme di Frederick Forsyth o di John Le Carré, ma non è nulla del genere, a parte qualche colpo di scena negli ultimi capitoli. Non è nemmeno un thriller, a mio parere, sebbene possieda un intreccio.

Questo è molto facile da riassumere. Un avvocato riceve in legato dal nonno un fascicolo di carte che documentano i finanziamenti dell’Unione Sovietica al PCI, attraverso società marittime di comodo e spostamenti di capitale fra vari istituti bancari. Volendo vederci chiaro, l’avvocato compie diversi viaggi a Mosca, incontra alcuni personaggi sfuggenti e infine mette le mani su un’ingente somma di denaro e, quel che è peggio, su atti che comprometterebbero (ma non è accertato con sicurezza) l’uomo più importante della Russia odierna, all’epoca in cui era un funzionario dei servizi segreti.

Fin qui la trama, ma è del tutto secondaria rispetto alle conclusioni cui l’avvocato perviene nel corso delle sue peregrinazioni. “Vista da questo treno in corsa verso il nulla che è diventata la Storia, l’intera vicenda della sinistra assomiglia tristemente a un parco archeologico in stato d’abbandono”. Che cos’è decaduto? Essenzialmente la fibra morale. Se il nonno tesoriere si prestava a pasticci per sostenere la causa in cui credeva, senza tornaconto personale, oggi, caduta l’ideologia, resta una pura volontà di accaparramento, di potere fine a se stesso.

Ne è specchio la città di Ravenna, che Cassani osserva con occhi impietosi. “Una città in cui le stesse tracce del più recente solidarismo sono sempre più sbiadite e confuse. Una città in cui convivono industrie e spiagge, container e basiliche, patrimoni dell’umanità e vanità di provincia, aperture cosmopolite e localismi paesani.” Dove la Massoneria, che qui ha sempre avuto un peso abnorme quale espressione della borghesia locale, costeggia e contagia chi in passato ne era stato l’antitesi, fino a coagulare un informe, ambiguo, slavato blocco dominante.

Gli individui che l’avvocato incrocia sono per lo più ipocriti, opportunisti, vuoti, nel caso migliore insignificanti. Chi si professa amico ed è un ex compagno è il primo di cui bisogna diffidare. E lo stesso accade a Mosca. Nessuna reliquia di comunismo, socialismo o di semplice afflato umanitario. Caduta un’etica che era, bene o male, tessuto connettivo per generazioni di militanti, è crollato tutto il resto.

A quel punto poco importa, al lettore, che si ritrovi il bottino frutto di scambi illeciti tra partiti. E’ il simbolo monetario di una decadenza morale che suscita ancora avidità, ma solo quella. La scelta finale dell’avvocato sarà l’ultima manifestazione del perduto orgoglio comunista.

 

Un passato di nebbia e di fantasmi

di Mauro Baldrati

Dopo alcuni romanzi scritti dal “lato giusto”, come Guai a chi ci tocca di Francesco Lo Duca (pubblicato a puntate qui da Carmilla), o 1977 Insurrezione di Paolo Pozzi (Derive Approdi), esce un nuovo testo, con ambientazione speculare, come il negativo di una fotografia: un romanzo dove il narratore, i luoghi, le suggestioni, escono dalla macchina seriale del PCI, come i due citati lo erano del Movimento del ’77.

La parte sbagliata? Il nemico? No, sono classificazioni fuori centro. Il romanzo, per sua natura, può abbattere le barriere, può spingersi lontano; se non scende giù dove c’è luce, dove si ascolta, semplicemente non è tale.

Illusorio? Chissà. Ma non può essere interessante per un black block politicamente saldo ma curioso esplorare attraverso un racconto il retrosportello della cosiddetta sinistra riformista? Così per un militante/simpatizzante ex PCI non può rappresentare un’occasione ficcare il naso nel covo degli “untorelli”? Poi ognuno per la sua strada.

La parte di mondo dove è ambientato L’uomo di Mosca è il fulcro del vecchio territorio comunista, il Deserto Rosso dell’attuale, potente economia romagnola: Ravenna, città di innovazione tecnologica, di agricoltura intensiva, di petrolchimico, di fiorente attività portuale; città dove, durante la lunghissima Guerra Fredda, avvenivano scambi più o meno riservati tra i due partiti, il PCUS e il PCI attraverso una complessa rete di contatti commerciali.

E proprio da un intrigo, che risale agli anni ’70 e arriva, con la sua mano nera, fino ai giorni nostri, nasce il romanzo del ravennate Alberto Cassani. Ci sono di mezzo i soldi, naturalmente, finanziamenti del PCUS attraverso accordi tra imprese navali che venivano girati al PCI (dieci volte inferiori, si specifica, a quelli della CIA alla DC).

Il narratore, Andrea Cecconi, è un personaggio pubblico noto in città, ex assessore comunale, ora avvocato. Un uomo comune, inserito nel tessuto cittadino, ma deluso dalla politica, diventata semplice gestione della quotidianità, senza un vero progetto che non sia affabulazione e demagogia. Ormai solo osservatore del presente, avverte però gli echi di un passato in cui esistevano ancora la passione, la generosità, la fiducia in un ideale. Quel passato vive nella figura del nonno Mario, un ex dirigente del Partito ultranovantenne che un giorno decide di raccontargli una storia. E’ una vicenda che viene direttamente da quegli anni, che passa dalla transizione dal regime brezneviano alla Perestroika di Gorbaciov, fino all’apocalisse del cavaliere alcolico Eltsin, dove tutto esplode e diventa maledettamente pericoloso.

E’ una storia misteriosa, piena di segreti, con molti pezzi mancanti, che riguarda un transito di denaro gestito da un personaggio ambiguo, Gogor, forse un agente del Kgb, forse un faccendiere che fa il doppio gioco. Una parte dei versamenti, però, non è mai arrivata a destinazione. Dove sono finiti? Tutto è coperto di nebbia, tutto sprofonda nella reticenza. Il nonno gli consegna anche un fascio di documenti e di foto, un materiale iconografico che costituisce il racconto nel racconto, e fa rivivere quegli anni perduti, quel mondo sovietico che stimola la fantasia febbricitante del protagonista.

Decolla così il romanzo, nel quale un fattore fondamentale, come un personaggio di primo piano, è il tempo. Il tempo perduto e il tempo attuale, coi suoi personaggi, i suoi fantasmi, gli eventi, le architetture, le battaglie.

Con occhio acuto, a tratti spietato e dolente, Andrea trascorre le sue giornate a Ravenna, osservando il mondo col suo distacco da scettico ormai irrecuperabile. Frequenta un club esclusivo, tipo Rotary, ritrovo dei vip cittadini. Vi partecipa senza farne davvero parte, pervaso da un’autocoscienza fatalista e dolorosa: “La novità dei nostri tempi è che anche chi è sempre stato di destra, se conviene, può votare a sinistra senza troppi scrupoli. L’altra novità è che anche chi proviene da storie di sinistra, come il sottoscritto, può diventare socio del Club”.

Poi parte e riparte innumerevoli volte per Mosca, sempre in cerca di indizi, come spinto da un’ossessione, o da una missione: rintracciare quei versamenti, svelare il mistero.

Il thriller politico-finanziario si sviluppa, si distende come una ragnatela di misteri e di menzogne, governato dall’autore che non cerca l’eccesso né si preoccupa delle regole del genere, ma preferisce viaggiare in una specie di macchina del tempo politica che punta verso quegli anni mitici, l’Antico Regno dove ci sembra di essere a bordo delle Zigulì per le strade grigie e senza traffico di Mosca, tra palazzoni tetri e statue possenti e il Cremlino e il mausoleo di Lenin, per poi tornare a un presente che manda in crisi il narratore con la sua banalità, la sua miseria. Ma gli fa anche capire le sfaccettature del divenire e del divenuto, e trovare la fiducia in se stesso, senza tirarsi indietro di fronte alla sconfitta, e alla resa: “Penso alla mia, di sconfitta. Alle cose in cui ho creduto e che sono fallite o sono rimaste incompiute. Ma soprattutto penso al mondo in cui ho creduto, a come mi sono illuso, a come il destino, coi suoi colpi, mi ha addomesticato, insegnandomi la resa”.