di Armando Lancellotti

Paolo Pasi, Antifascisti senza patria, elèuthera editrice, Milano, 2018, pp.215, € 16.00

Sono storie di “sovversivi”, di rivoluzionari, di uomini e donne che combatterono per un ideale – forse un’utopia – che misero in gioco completamente le loro esistenze per lottare contro il fascismo, per resistere alla dittatura, per difendere l’idea libertaria e l’anarchia. Di questo, di loro parla e racconta il libro di Paolo Pasi, che segue le vicende dei confinati politici antifascisti di Ventotene e in particolare di quelli che subirono il trattamento peggiore e più discriminante: gli anarchici, che nei caotici e cruciali quarantacinque giorni che intercorsero tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 non vennero liberati dalle autorità badogliane che reggevano il Paese, ma furono trasferiti nel terribile Campo 97 di Renicci di Anghiari, presso Arezzo, uno dei “campi del Duce”, cioè uno dei tanti lager fascisti italiani, dei quali – al di là della ristretta cerchia dei ricercatori e degli specialisti – ancora troppo poco l’opinione pubblica è informata e consapevole.

E come già rilevato più volte su Carmilla [123], non si tratta certo di una ignoranza casuale, di una smemoratezza accidentale, bensì di un vuoto di memoria collettivo voluto, creato e consolidato nel corso dei decenni che ci separano da un passato – il ventennio fascista, la dittatura, le sue guerre, le sue persecuzioni, i suoi crimini – talvolta obliato, talaltra edulcorato. Alla ricostruzione e alla conservazione della memoria storica dà il suo contributo Antifascisti senza patria, che attraverso trentuno brevi capitoli rievoca le vite di lotta ed impegno politici dei tanti confinati anarchici di Ventotone, il secondo gruppo per consistenza numerica dopo i comunisti ed il più temuto dai fascisti prima e dai badogliani poi, ammesso che sia corretto, in questo caso, considerare come una cesura o una svolta il passaggio attraverso il 25 luglio.

In realtà proprio il trattamento riservato agli anarchici detenuti o confinati, che a differenza degli altri gruppi politici antifascisti e degli stessi comunisti vennero trattenuti al confino o deportati in campi di internamento anche dopo la prima caduta di Mussolini, mette in evidenza quale fosse nelle intenzioni del re e di Badoglio la linea politica da tenere per governare l’Italia. Quella – in buona sostanza – di un “fascismo senza Mussolini”, stretto attorno alla corona e all’esercito, che si espresse in un governo che sciolse il PNF e la Milizia, che abrogò il Tribunale speciale, ma che faticò a riconoscere le libertà politiche e a confrontarsi col Comitato delle opposizioni (poi CLN), che non abolì le infami Leggi razziali del ’38, che si affrettò il 26 luglio ad emanare la famigerata Circolare Roatta, per forma e contenuto un concentrato di fascismo, che ordinava a militari e forze dell’ordine di procedere in formazione di combattimento e di aprire il fuoco a distanza contro chiunque fosse considerato causa di perturbamento dell’ordine pubblico, come se si trattasse di truppe nemiche.

Una sostanziale continuità politica col recentissimo passato prossimo fascista, di cui il sovrano e Badoglio erano stati completamente corresponsabili e a cui poi si aggiunse la rinascita dalle proprie ceneri e in forma repubblicana del fascismo, dopo l’armistizio dell’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso il 12 dello stesso mese, che avviò il Paese verso quella guerra civile che si sarebbe conclusa solo nell’aprile di due anni dopo. Una situazione che rischiò di trasformarsi in una trappola mortale per gli antifascisti anarchici – ancora internati o confinati mentre i tedeschi prendevano possesso del territorio italiano e si costituiva la Repubblica di Salò – e per i prigionieri stranieri, che stavano subendo la stessa sorte, quella del diniego della doverosa liberazione immediata. Si trattava principalmente di slavi – sloveni, croati, serbi – ma anche greci, albanesi, macedoni, insomma i popoli che avevano conosciuto e subito l’aggressione, le violenze e la protervia conseguenti alle velleità di grandezza imperiale dell’Italia fascista.

È sullo sfondo di questi così cruciali e terribili momenti ed eventi della storia italiana dell’estate 1943 che Paolo Pasi racconta le storie dei tanti antifascisti italiani e stranieri di cui ha pazientemente raccolto informazioni, testimonianze, notizie, documenti d’archivio, resoconti, talvolta ricchi e copiosi e talvolta scarni o lacunosi, assumendo una posizione ed un punto di vista intermedi tra quelli dello storico e del narratore, del ricercatore e dello scrittore e adottando un genere di scrittura che si potrebbe definire “saggio romanzato”. Scelta di scrittura analoga a quella compiuta recentemente da Cecco Bellosi nel suo Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018 [su Carmilla].
Con la sistematicità rigorosa e l’attenzione per i documenti proprie dello storico, Pasi tratteggia il profilo e ricostruisce le biografie politiche dei suoi “personaggi” e con la prosa appassionata e coinvolgente del narratore mette in scena le loro storie; ne immagina i pensieri, le discussioni e i dialoghi; ne descrive gli stati emotivi, le speranze, le delusioni e gli scoramenti; ricostruisce e descrive il contesto del confino di Ventotene, della reclusione a Renicci o a Fraschette d’Alatri, presso Frosinone.

Nelle pagine di Antifascisti senza patria, prendono vita e si animano i volti, le idee e le passioni politiche dei tanti confinati di Ventotene, alcuni dei quali destinati a diventare protagonisti della vita politica Italiana degli anni successivi, come Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Umberto Terracini, Giuseppe di Vittorio. Altri invece, meno noti, non ricevettero analoghi riconoscimenti politici nella nuova Italia repubblicana, nonostante la non minore tenacia con cui si opposero alla dittatura e al fascismo. Ed è proprio a loro, a questi antifascisti per lo più disconosciuti e dimenticati dal loro Paese, che il lavoro di Pasi è dedicato: sono gli anarchici come il triestino Umberto Tommasini, il piacentino Emilio Canzi, il reggiano Enrico Zambonini, i romagnoli di Santarcangelo Mario, Carlo e Ferruccio Girolimetti, il siracusano Alfonso Failla, la napoletana Emilia Buonacosa e tanti altri, provenienti da ogni parte d’Italia, ma tutti accomunati dalla condivisione dell’ideale libertario, che li guidò nell’impegno politico, nelle lotte operaie e nell’opposizione allo Stato, alla dittatura e al fascismo, che li condusse in Spagna, in Catalogna, a combattere contro il franchismo e dove dovettero subire l’attacco «di un esercito che avrebbe dovuto combattere i fascisti e che invece ha spento il sogno libertario» (p. 50): gli stalinisti. Quei «comunisti “ortodossi” capaci perfino di isolare con spietata determinazione uno di loro, Terracini, colpevole di aver espresso un’opinione fuori linea» (pp. 50-51) e coi quali a Ventotene dovettero convivere, in quelle variegate galassie dell’antifascismo che furono i luoghi di confino, dove a stretto contatto si ritrovarono liberali, giellisti, socialisti, comunisti e anarchici.

Quando alla fine di settembre 1943 arrivò la notizia della caduta di Mussolini, l’isola di Ventotene e i suoi “ospiti forzati” furono scossi da entusiasmo, nuove speranze, inquietudine, ma al contempo da incertezza e timore per un futuro, un destino di cui i confinati non erano ancora padroni. Immediatamente ebbe inizio la negoziazione con le autorità militari dell’isola per ottenere migliori condizioni di trattamento, in attesa della più celere possibile liberazione di tutti i detenuti. Nel corso del successivo mese di agosto questo accadde per liberali, giellisti, socialisti ed infine per i comunisti, ma non per gli anarchici, non per gli stranieri. Il trasferimento a Renicci o in altri campi fece da preludio ad un altro momento storico decisivo tanto per l’Italia quanto per gli antifascisti ancora non rimessi in libertà dal governo Badoglio: l’armistizio, l’arrivo della Wehrmacht, la divisione del Paese in due Italie in lotta tra loro.

Nelle convulse giornate successive all’8 settembre, mentre il Paese, lasciato a se stesso dal governo e dal sovrano, sbandava e precipitava nel caos, gli anarchici di Renicci e di altri campi, con tempistiche e modalità differenti, furono finalmente rimessi in libertà. Alcuni intrapresero la via insicura del ritorno a casa, altri quella altrettanto pericolosa della aggregazione ai primi nuclei della Resistenza che andavano formandosi; tutti seguitarono la lotta politica contro il fascismo; moltissimi divennero partigiani; alcuni morirono ed altri sopravvissero alla guerra per continuare la militanza e l’impegno politici per anarchia in un’Italia molto diversa da quella che avevano immaginato, sperato e per la quale avevano combattuto.

Nel conclusivo trentunesimo capitolo – Titoli di coda – Pasi passa in rassegna le vicende politiche successive al 1943 e al 1945 di molti degli ex confinati anarchici di Ventotene e in una carrellata, emotivamente coinvolgente, chiama a raccolta dinanzi a sé e al lettore questi ribelli senza patria per portare a conclusione la narrazione delle loro vite sovversive, di cui qui si riportano alcuni esempi.

«Enrico Zambonini, arrestato ad Arezzo durante il trasferimento da Ventotene, uscì dal carcere nel dicembre del 1943 dopo un bombardamento sulla città. Tornato a casa dalla sorella Marianna, a Secchio di Villa Minozzo, prese subito contatti con la resistenza nell’Appennino reggiano, ma poche ore prima di unirsi ai partigiani venne fermato dai fascisti, portato a Reggio Emilia e fucilato insieme al parroco del paese, don Pasquino Borghi. Davanti al plotone d’esecuzione Zambonini gridò “viva l’anarchia” prima di soccombere ai proiettili. Le sue ossa vennero disperse, la sua memoria, pur viva, tramandata a fatica e quasi ignorata dalle istituzioni. Solo molti anni dopo la guerra, gli anarchici reggiani fecero affiggere a Villa Minozzo una lapide che ancora oggi ne ricorda la militanza antifascista e il prezzo pagato». (pp.202-203)

«Dopo l’uscita da Renicci, Failla aveva raggiunto i familiari a Lucca e si era in breve tempo unito alla resistenza in Toscana. Nel secondo dopoguerra divenne una delle figure di spicco dell’anarchismo italiano, attivo nella vita politica e sociale fino al 1972. Morì nel gennaio del 1986, lasciano il testimone della sua memoria alla moglie, alle due figlie e ai suoi compagni di Carrara». (p. 201)

«Umberto Tommasini seguì le sorti della guerra insieme alla sorella e al nipote sfollati sull’Appennino emiliano, fornendo appoggio e aiuti alla popolazione locale. Al termine del conflitto tornò a Trieste, dove proseguì il suo impegno di anarchico attraverso la fondazione del gruppo Germinal e la testimonianza attiva contro i totalitarismi, che lo rese popolare tra i giovani libertari negli della contestazione. Autore di un’autobiografia che ripercorre la sua vicenda umana e politica, raccontò anche i fatti di Ventotene e Renicci. Una militanza che durò fino al 1980, anno della sua morte». (pp. 201-201)