di Sandro Moiso

Quelli ridevano, lui no.
Quelli ballavano e cantavano mentre a lui toccavano i turni di guardia.
Quelli andavano in giro allegri, ragazzi e ragazze, giovani e vecchi tutti insieme.
Divertendosi, mentre lui doveva sorbirsi il brutto muso dell’agente La Russa e le cazzate sparate da tutti gli altri colleghi della sua squadra.

Soprattutto, quelli sembravano non aver capi, mentre lui di capi ne aveva più d’uno.
Dal diretto superiore lì nel cantiere bunkerizzato su su fino ai vertici del Ministero.
Da tutti, in caduta libera e continua, piovevano ordini, contrordini, disposizioni e minacce.
Di Gennaro esegua immediatamente altrimenti qui…
Di Gennaro faccia subito rispettare l’ordinanza altrimenti la…

Eccheccazzo…non si poteva mica vivere così!
E guai rivolgersi al sindacato degli agenti, sennò era anche peggio.
Quasi, quasi avrebbe preferito essere dall’altra parte…
Ma cosa diavolo stava pensando?
Stava forse impazzendo, come quella volta in cui aveva sognato di essere una pecora?

Eppure così non poteva più andare avanti. Aveva ormai perso il conto dei giorni trascorsi in quella valle. Più che altro in mezzo a quella polvere e a quello squallido cantiere…
La valle in sé, almeno quando erano arrivati, era sembrata bella. Incantevole.
Poi, via coi lacrimogeni, con i bulldozer, con il via vai di automezzi pesanti, ruspe, macchine di servizio, blindati, cellulari, jeep…

Poi, anche quella mostra di opere insignificanti dentro il tunnel.
A quaranta gradi e con le polveri causate dalla talpa.
E lui lì dentro, e anche fuori, a respirare tutto e a sudare come un cretino con addosso la divisa, il giubbotto anti-proiettile, il casco e tutto il resto.
La branda la sera dopo la partita a scopone, i litigi tra colleghi tra chi voleva vedere “Il grande fratello “ e chi “Amici”.

Bella vita del cazzo. Quarantacinque anni buttati via, altro che carriera.
Considerato soprattutto che il capo, in cantiere, sembrava ritenerlo responsabile di qualsiasi cosa accadesse. Ancora un po’ e gli avrebbe rinfacciato anche il terremoto estivo sugli Appennini.
Ma ormai aveva deciso. Gliela avrebbe fatta vedere lui.
Andandosene. Dignitosamente e irremovibilmente come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco.

Quel film l’aveva visto un sacco di volte. Sia in videocassetta che in dvd.
Gli piaceva quell’uomo solo che svolgeva il proprio dovere contro tutti e tutto, per poi andarsene lasciando così a rimpiangerlo coloro che non lo avevano aiutato.
Sì, avrebbe fatto così.
Me ne vado, comunicò laconicamente agli altri agenti della squadra.

Si avviò quindi verso il cancello di uscita, facendo segno agli alpini di guardia di aprirglielo.
Dopo qualche passo lasciò cadere il casco al suolo, facendo sollevare i primi sguardi di curiosità tra i presenti. Poi si slacciò il cinturone e, lentamente, lo lasciò scivolare a terra.
A pochi passi dal cancello frugò nella tasca della giubba, estrasse la tessera di riconoscimento e senza più guardarla la gettò nella polvere, come Cooper aveva fatto con la stella da sceriffo.

Stava varcando la soglia dell’uscita quando lo raggiunse la voce del capo.
Di Gennaro, brutto coglione, hai buttato via il bancomat!
Si arrestò, stordito.
Tornò sui suoi passi, raccolse le tessera di plastica appena buttata.
E, a capo chino, rientrò nei ranghi