di Alessandro Mantovani

Lo sciopero generale del 28 aprile e gli scontri di Brasilia del 24 maggio
Dopo un lungo sonno la stampa italiana – sempre avara di informazioni sul Brasile – ha riportato con rilievo, prima la cronaca dello sciopero generale che il 28 aprile ha interessato il gigante dell’America Latina, poi le notizie sugli scontri avvenuti a Brasilia tra le forze di sicurezza e i partecipanti alla manifestazione che, il 24 maggio, chiedeva il ritiro delle riforme neo-liberiste del governo (soprattutto la riforma del mercato del lavoro e delle pensioni), le dimissioni del Presidente Temer (coinvolto in un caso di pagamento di tangenti) ed elezioni anticipate.

Mentre lo sciopero era stato pacifico, a Brasilia una parte dei manifestanti – 30 mila per le fonti ufficiali, 100 mila secondo gli organizzatori – hanno (fatto senza precedenti) incendiato due ministeri, mentre la polizia ha sparato ad altezza d’uomo ferendo decine di manifestanti.1

Il Presidente Temer ha fatto intervenire l’esercito sulla base della Legge Complementare n°97 del 1999. Era già stata fatta valere durante i mondiali di calcio del 2014 dall’allora Presidentessa Dilma Roussef, ma nella critica situazione attuale ha riportato alla memoria dei Brasiliani gli anni della dittatura e – priva di consenso – è stata ritirata.

I commenti della stampa italiana
Come sempre male informati, i mezzi di comunicazione italiani hanno fornito una lettura superficiale dei fatti. Per quanto riguarda lo sciopero generale, il primo da 21 anni, con qualche eccezione i grandi mezzi di comunicazione hanno accreditato la valutazione che ne hanno dato gli organizzatori, in particolare le grandi confederazioni come la CUT, legata al PT di Lula, il quale prima di diventare Presidente del Brasile fu un dirigente sindacale.

Secondo questa vulgata lo sciopero sarebbe stato il maggiore nella storia del Brasile ed espressione di un movimento popolare dalle caratteristiche profondamente anti-liberiste. A farsi cassa di risonanza di questa interpretazione sono state in particolare le nostre testate di “sinistra moderata” , che non hanno mai cessato di prendere per buona la narrazione che vuole la presidenza di Lula (e della delfina Dilma che gli è succeduta) come una radicale cesura rispetto al Brasile non solo della dittatura militare, bensì anche delle élite tradizionali, sfrenatamente liberiste, dando inizio all’affrancamento dalla povertà di larghi strati della popolazione.

Una rappresentazione a cui pochi a sinistra hanno rinunciato anche dopo la crisi istituzionale che ha portato all’impeachment di Dilma Roussef, a causa di una serie di scandali e inchieste che avevano messo a nudo la spaventosa corruzione che aveva nella PETROBRAS e nelle altre holding statali il suo centro, e che ha lambito lo stesso Lula, il quale in realtà – benché finora in mancanza di prove giudiziarie – non può che essere il vero deus ex machina di tutto lo “schema” attraverso il quale il PT pagava sistematiche mazzette e autentiche rendite occulte (mensalão) per ottenere l’appoggio parlamentare di quegli stessi partiti che ora, defenestrandolo, gestiscono il potere.

Si sono distinti da questa vulgata alcuni gruppi di sinistra radicale, per lo più di ispirazione trotzkista, che vantano anche legami con i paralleli gruppi trotskisti brasiliani (nel gigante sudamericano le diverse organizzazioni trotzkiste sono sì minoritarie, ma hanno un certo peso politico ed una certa influenza). Alcuni di questi, critici verso il PT di Lula e Dilma, sostengono addirittura che la crisi del governo Temer – che sta a sua volta affondando in uno scandalo analogo a quello che ha portato alla caduta della Roussef – veda delinearsi la via di un rivolgimento rivoluzionario.

Ritengo la situazione alquanto più complessa e ambigua. Per tentare di capire quello che sta realmente accadendo si dovrebbe risalire alla storia della lotta contro la dittatura. Un simile sforzo richiederebbe tuttavia troppo spazio. Mi limiterò dunque a ricapitolare gli avvenimenti a partire dal grande movimento che, nel giugno 2013, metteva in crisi il sistema di potere petista.

Gli anni di Lula e Dilma
Negli anni della presidenza Lula (2003-2011), in effetti, una serie di circostanze interne ed internazionali determinarono il ridursi della povertà, e, secondo le classificazioni statistiche brasiliane, 50 milioni di persone passarono dalle classi più basse, D ed E, alla classe C12 Nel contempo aumentarono l’accesso all’istruzione e ai servizi di base, nonché il consumo di beni durevoli quali l’automobile, il frigorifero, la televisione, il telefono, il cellulare, il computer.
Da 8.270 dollari nel 2005 il PIL pro capite salì a 11.420 nel 2012. Tra il 2009 e il 2011 il reddito mensile dei lavoratori crebbe in termini reali dell’8%. La crescita maggiore coinvolse il 10% più povero della popolazione, con un aumento del 29%, riducendo la forbice della disuguaglianza (l’indice Gini, che misura da 0 a 1 il divario sociale, passava nello stesso periodo da 0,518 a 0,5).

Il boom brasiliano si basava però su elementi strutturalmente fragili: l’afflusso di capitali dall’estero da una parte, dall’altra l’alto prezzo delle materie prime, vero pivot dell’esportazione, vettore di uno sviluppo basato in realtà sul dilapidamento delle risorse del paese. Fattori che favorirono un’ondata speculativa in gran parte fittizia, la quale aveva fatto schizzare all’insù i prezzi delle abitazioni, comportando la dislocazione di quote crescenti di cittadini meno abbienti e lavoratori verso le zone periferiche urbane, con conseguente maggior acutizzazione dei problemi abitativo e del trasporto.

Mentre cercava di costruirsi una reputazione di lotta alla povertà con programmi come il “bolsa-família” (peraltro già iniziato prima di Lula dal Presidente Cardoso), il Brasile a guida PT proseguiva in realtà per molti aspetti la politica neo-liberista dei precedenti governi. Ad esempio riaprendo la questione delle concessioni di terre e riserve indigene al grande capitale (si pensi alla maxi diga di Belomonte), o procedendo a sua volta a privatizzazioni (come quella delle autostrade) e di appalto ad interessi privati e stranieri di importanti settori dell’economia, come nel caso strategico delle piattaforme petrolifere off shore, che nei programmi del governo avrebbero dovuto fare del Brasile uno dei maggiori produttori di greggio al mondo.

La natura socialdemocratica a parole, ma neoliberista nella sostanza del governo federale di quegli anni, risulta più evidente se consideriamo che la maggior parte dei tanto decantati posti di lavoro creati dal contraddittorio “boom” brasiliano erano in realtà lavori precari o comunque mal pagati. E che il contrasto tra la ricchezza dei pochi e la penosa povertà di molti, per quanto diminuita, rimane stridente. Non dimentichiamo poi che il maggior paese dell’America Meridionale è uno dei più cari del continente: i prezzi dei settori industriali nazionali – come l’automobile – sono tenuti artificialmente elevati attraverso varie misure protezionistiche, il che però comporta una bassa qualità dei prodotti.

La crisi mondiale iniziata nel 2008 non investì immediatamente l’economia brasiliana, che continuò a godere – anche per la febbre speculativa legata alla preparazione dei mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016 – di un notevole afflusso di capitali, il quale portò nel 2010 ad un cospicuo rafforzamento della moneta nazionale, il Real. E fin che lo “sviluppo”, tant bien que mal, fu in grado di distribuire le sue briciole anche agli strati popolari profondi della nazione, il consenso rimase alto.
Alla fine però la crisi giunse: con la diminuzione del prezzo delle materie prime, frutto della recessione mondiale, e col rallentamento dell’economia cinese, uno dei mercati principali delle commodities brasiliane, l’economia cominciò a frenare, gli investimenti esteri diminuirono, la moneta perse valore nei confronti delle altre valute e l’inflazione riprese a correre. La creazione di nuovo impiego stava rallentando, malgrado gli incentivi al consumo, che furono una delle cause del peggioramento del bilancio statale. Ciò si fece particolarmente sentire a partire dal 2014, anno del secondo mandato di Dilma, ma nel 2013, all’epoca del grande movimento del giugno, era già avvertibile.

Il grande movimento del giugno 2013
Cominciata come una protesta contro l’aumento del prezzo degli autobus urbani indetta dal MPL (Movimento Pass Livre), la mobilitazione assunse rapidamente un’enorme estensione ed una grande portata politica, con momenti di durissimi scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, assalti a sedi di governo locali, ecc. In che modo un tema apparentemente secondario poté scatenare un simile ciclone?

Innanzitutto il trasporto urbano – per i costi, la pessima qualità e i massacranti tempi di pendolarismo – costituisce una delle principali criticità del Brasile odierno. Il MPL, con tutte le sue particolarità locali, esprimeva dunque un malcontento tra i più sentiti. Per rendersene conto basti pensare che le classi più basse della classificazione statistica brasiliana, la D e la E, l’autobus per lo più non possono nemmeno permetterselo, mentre la “classe C”, quella che di fatto ha riempito le piazze, e che è quella che maggiormente affolla i trasporti pubblici urbani, deve sacrificarvi una parte notevole del suo reddito.

Il problema dei trasporti, aggravato da processi di privatizzazione che lo hanno nel corso degli anni peggiorato e reso sempre più caro, è al tempo stesso emblema della pessima qualità di tutti i servizi brasiliani (educazione e sanità in primo luogo, ma anche telefono, internet, e così via.

Gli slogan urlati nelle piazze, da nord a sud del paese, oltre alle carenze del trasporto pubblico, denunciavano l’aumento dei prezzi, lo spreco di denaro pubblico in opere i cui cantieri vedono lievitare i costi in corso d’opera e che non terminano mai, e perfino – nel paese della bola – le ingenti somme investite per la preparazione dei mondiali del 2014 e tolte, come affermavano i manifestanti, all’educazione e alla sanità. Dall’altra la corruzione dilagante in tutte le sfere dell’amministrazione dello stato e della politica, così come nei partiti al governo, PT in primis. Tematiche trasversali tanto ad un ampio ventaglio di strati sociali, dalle favela alle classi medie, quanto ad un altrettanto ampio spettro di forze politiche, dalla destra all’estrema sinistra.

Caratteristiche del movimento
Colpivano, nel gigantesco movimento di quei giorni, alcune caratteristiche.L’aspetto più impressionate fu la sua spontaneità. Più ancora che l’aumento di 20 centesimi del biglietto del trasporto urbano di San Paolo, furono la brutalità della repressione poliziesca e le menzogne della grande informazione (che tentò di far passare i manifestanti per “vandali”) a innescare una miccia che in pochi giorni dilagò inarrestabile per l’immenso paese.

Una spontaneità relativa, ben s’intende: il Movimento Passe Livre – in varie forme e modalità – aveva una storia alle spalle. I suoi primi passi risalgono al movimento studentesco che, nei primi anni 2000, si sviluppa a Florianopolis, capitale dello stato di Santa Catarina. Nel 2003 è già in grado di paralizzare per dieci giorni Salvador de Bahia (“Revolta do Buzú”); nel 2004 e 2005 una situazione analoga si verifica a Florianopolis (“Revolta de Catraca”). La fondazione ufficiale ha luogo al Forum Mondiale di Porto Alegre del 2005. Nel 2011 e 2012, diffusosi intanto in tutto il Brasile e articolatosi in forma federale libera, il MPL organizza nelle principali città brasiliane varie iniziative, molte delle quali vittoriose (particolarmente significativa la “Revolta do Busão”, a Natal.

Fino all’esplosione del giugno 2013, il MPL era tuttavia un’organizzazione labile e composta, ad esempio a San Paolo da poche decine di giovani sconosciuti d’ispirazione libertaria o democratica. Certo, esso aveva già agito di concerto con associazioni di abitanti delle favela, comitati di quartiere, gruppi di insegnanti organizzati, ecc., prefigurando in qualche modo quel che sarebbe poi avvenuto.

Un’altra caratteristica fondamentale delle manifestazioni del giugno 2013 fu la presenza massiccia e largamente maggioritaria della gioventù, tanto quella scolarizzata dei figli dell’aristocrazia operaia e delle classi medie, più composta e festante, quanto quella emarginata delle favela, più incazzata e incline allo scontro fisico con le forze dell’ordine. La maggioranza, secondo quanto mi è parso personalmente in quei giorni, apparteneva a quella che in Brasile viene definita “classe C”, quella dei figli dei lavoratori, che frequenta le disastrate scuole pubbliche, e che solo recentemente ha cominciato ad accedere all’istruzione universitaria e alla cultura, ma che continua a scontare un gap rispetto ai ceti superiori.

Un altro aspetto essenziale fu la netta rivendicazione d’indipendenza dai partiti, e questo, come il ruolo di internet e delle reti sociali, accomunava quel movimento a quello degli “Indignados” in Spagna e di “Occupy” negli Usa. La somiglianza era verificata anche dalla presenza di numerose maschere di anonymous. Ma l’analogia terminava qui: abbondavano le bandiere del Brasile, e si sentiva cantare l’inno nazionale brasiliano. Nei cartelli levati in alto dai manifestanti campeggiavano scritte come “scusate per il disturbo, stiamo cambiando il Brasile”, “Il gigante si è svegliato”. “Ordine e progresso”. I giovani, intervistati, rilasciavano dichiarazioni contro i politici e la corruzione, ma non contro il padronato o l’idea dello sviluppo capitalistico. Né si sentiva parlare di lavoratori. L’eroe era “o povo”, il popolo. Elementi di ambiguità che pesarono fortemente sul movimento.

Insomma, più che – come in Occidente – contro la crisi e la perdita del loro futuro, i giovani brasiliani stavano lottando con la speranza e la convinzione che esso potesse e dovesse essere consolidato e migliorato, e alla “decrescita felice” essi sembravano in quei giorni preferire una crescita riformata e resa più giusta, democratica e partecipativa.

Il ruolo della classe lavoratrice
Occorre sottolineare l’assenza, nel movimento, della classe salariata in quanto forza organizzata con propria autonomia. Eppure il paese era percorso da una grande serie di lunghi scioperi che investivano, oltre agli autisti dei trasporti, soprattutto i settori degli impiegati pubblici, federali e statali: medici, infermieri, insegnanti, funzionari doganali, agenti penitenziari, polizia, costringendo il governo – timoroso che l’ondata potesse coinvolgere anche l’”aristocrazia operaia” – a concessioni non indifferenti.

Cioè non erano – almeno fino al 2013 – legati a processi di crisi capitalistica, come invece avviene per gli odierni movimenti dei paesi capitalistici maturi, la cui classe lavoratrice subisce da anni un attacco pesante alle sue condizioni di vita e di lavoro, bensì alle concrete prospettive di miglioramento reso possibile dalla “crescita” dell’economia nazionale.

In tale senso gli scioperi che precedettero e immediatamente seguirono il movimento del 2013, avevano in comune con esso la rivendicazione di un miglioramento annunciato, promesso e non mantenuto, ma visto e vissuto come possibile e, in un certo qual modo, a portata di mano.Queste aspettative si scontravano tuttavia col fatto che la crisi mondiale stava lavorando pesantemente ai fianchi il “miracolo brasiliano” e smantellando dunque giorno dopo giorno le illusioni da esso alimentate.

La reazione del governo federale
Il governo federale brasiliano, sorpreso dalle oceaniche manifestazioni, dopo i primi giorni di smarrimento, cercò di riprendere l’iniziativa, che si svolse lungo due direttrici fondamentali.Da una parte, concessioni, il più possibile nominali, alle rivendicazioni della piazza, come la cancellazione della PEC 37 (progetto-legge di Brasilia che concentrava nella polizia federale i poteri di investigazione esautorando i pubblici ministeri e la magistratura locale e che i manifestanti avevano letto come tentativo di sviare le numerose inchieste per corruzione in corso); cancellazione del progetto di legge sulla cosiddetta “cura-gay”, che prevedeva la possibilità di “terapie” psicologiche e psichiatriche per gli omosessuali che volessero “guarire” dalla loro presunta malattia (un regalo che il Palazzo Planalto aveva elargito alle numerose e politicamente agguerrite comunità evangeliche, in cambio dell’appoggio parlamentare dei partiti che rappresentano le stesse); proposta del “passe livre” per gli studenti a livello nazionale; proposta di destinazione delle royalties petrolifere per il 75% all’educazione e per il 25% alla sanità; estensione della “ficha-limpa” (obbligo di fedina penale pulita), fin qui limitata ai politici, ai funzionari pubblici, per andare incontro all’acuto malcontento popolare contro la corruzione.

L’altra mossa fu la proposta di una riforma politica e costituzionale complessiva, volta ad introdurre regole elettorali e di finanziamento pubblico dei partiti che potessero sganciare almeno in parte il PT da quella regola non scritta della politica brasiliana, secondo cui il partito di maggioranza relativa ottiene appoggio parlamentare a suon di mazzette da capogiro, ricavate in nero dalla contabilità delle holding pubbliche.

Un assist a questa strategia venne dalle grandi confederazioni sindacali, come la CUT, cinghia di trasmissione del PT che, per l’11 luglio, uscendo dall’immobilismo, proclamò una “giornata di lotta nazionale”. Si noti, non uno sciopero generale, come quello che – non essendo oggi il PT al governo – hanno accettato di indire per il 28 aprile scorso. Avrebbe infatti avuto il sapore di una condanna del governo di cui erano uno dei principali pilastri. Le rivendicazioni della CUT erano quelle del movimento, ma cucinate alla salsa PT, ovvero con enfasi sulla necessità della riforma politica e istituzionale.

Il riflusso del movimento
I due fatti marcanti del 2013 – il “popolo giovane” del giugno e gli scioperi dei lavoratori – ebbero luogo uno accanto all’altro, ma una convergenza vera, che avrebbe potuto fare la differenza, non vi fu. Perso il controllo della piazza, il PT non mollò invece quello sui lavoratori.

Intanto, il movimento stava rapidamente rifluendo. Perché? Risposta non facile. A mio avviso ciò si dovette solo in minima parte alle concessioni dell’esecutivo federale e dei governi locali. Ritengo la vera ragione sia stata che, di fronte ad un successo così immenso ed inaspettato, coloro che lo avevano suscitato non furono in grado di conferirgli un’espressione politica ed organizzativa adeguata, sviluppandone l’enorme potenziale di radicalità.

Scendendo in piazza in modo così massiccio e diffuso, i brasiliani avevano dimostrato una richiesta sociale e politica complessiva a cui il MPL non fu in grado di rispondere. Il suo dichiarato “apartitismo” e la sua avversione al centralismo e al leaderismo (“não temos líderes”) in nome d’una organizzazione “orizzontale” – erano certo un involucro adeguato ai diffusi sentimenti di disaffezione della massa dalla politica tradizionale e dalle istituzioni, ma non hanno saputo e potuto andar oltre, proponendo un vero programma anticapitalista.

Ripiegando perciò su sentimenti e obiettivi generici, come quello della “lotta alla corruzione”, il movimento finì per essere capitalizzato dall’opposizione parlamentare al PT.

(Fine prima parte – la seconda parte sarà pubblicata giovedì prossimo 22 giugno)

* Ringrazio per le informazioni ed il materiale gentilmente fornito Serge Goulart (dirigente nazionale di Esquerda Marxista) e André Vitor Brandão Kfuri Borba, Master in Literatura e vida social della UNESP, e quest’ultimo per aver letto la prima stesura dell’articolo a dato opportuni consigli. Naturalmente la responsabilità del contenuto è interamente mia. (Alessandro Mantovani – Giugno 2017)


  1. Vari video documentano l’atteggiamento criminoso della “policia de choque”. In uno di essi si vedono dei poliziotti in tenuta antisommossa distruggere delle vetrate  

  2. La statistica ufficiale brasiliana, sulla base del censo e di numerosi altri indicatori come il livello d’istruzione e l’accesso a determinati consumi e servizi, divideva allora la popolazione del paese in otto “classi” socio-economiche, dove la A1, la più ricca, rappresentava l’1% della popolazione, la A2 Il 4% la B1 il 9%, la B2 il 15%, la C1 il 21%, la C2 il 22%, la D il 25%, e la E, più povera, il 3% (http://radiobrasile.blogspot.com/2010/11/ricchezza-e-classe-sociale.html). Dal 2015 le “classi” sono state ridotte a sei: A, B1, B2, C1, C2, DE. http://www.abep.org/criterio-brasil