di Mira Costanzo

gouldTom Wolfe lo considerava il signor “so tutto io”, Herbert von Karajan vedeva in lui un artista capace di mostrare la via del futuro e Thomas Bernhard lo ha raccontato come un pianista ineguagliabile che seminava soccombenti.
Il suo miglior amico era Sir Nickolson, un setter inglese che gli lasciava una generosa quantità di peli sui vestiti. Prima di suonare immergeva le braccia nell’acqua calda per venti minuti e, ogni tanto, spiazzava gli accademici con affermazioni provocatorie come questa: «Mozart è un compositore mediocre che è morto troppo tardi, più che troppo presto».
A soli trentadue anni abbandonò la carriera concertistica e si ritirò negli studi di registrazione come altri si ritirano in convento, per dedicarsi alla ricerca maniacale della perfezione grazie alle possibilità di analisi offerte dalla tecnologia. Il rifiuto del contatto diretto con il pubblico fu così ostinato che Norman Snider arrivò a chiedergli: «Ma lei ha un’esistenza corporea, o è soltanto un fantasma, uno spirito nei fili telefonici?».
Quando gli facevano notare che suonare in studio è più “facile” perché non comporta i rischi di un concerto, rispondeva: «Sono totalmente refrattario all’idea che la difficoltà sia di per sé qualcosa di onorevole e di buono».
Insomma, a voler capire chi fosse l’uomo che nel 1955 incise una versione rivoluzionaria delle Variazioni Goldberg di Bach − «L’interprete deve avere una sua fede, anche cieca, in ciò che fa; deve essere convinto di poter scoprire possibilità d’interpretazione che il compositore non avrebbe mai considerato», dichiarò in un’intervista −, si finisce in un labirinto di una vastità impressionante. Proprio per questo, quando ho saputo che in libreria sarebbe uscito un graphic novel dedicato a lui, mi sono chiesta: si può raccontare un musicista così complesso attraverso il disegno senza cadere nella semplificazione o, peggio ancora, nella banalizzazione? Ebbene, dopo aver letto Glenn Gould. Una vita fuori tempo di Sandrine Revel (Bao Publishing, pp. 128, € 23.00, traduzione di Roberto Lana), non solo ho scoperto che la risposta è sì, ma ho anche deciso di contattare l’autrice per parlarne direttamente con lei.

Il tuo graphic novel, frutto di tre anni di lavoro, ha vinto il Prix Artémisia 2016. Sono curiosa di sapere perché hai scelto proprio Glenn Gould.
È un’idea che risale a parecchi anni fa, quasi venti. Volevo fare un graphic novel sulla sua vita. Ho aspettato di essere pronta per affrontare questo gigante perché a venticinque anni non avevo la maturità necessaria. Sono sempre stata affascinata da lui e dal suo tocco pianistico, dal suo mondo interiore pieno di nevrosi e ossessioni, dai suoi capricci, dalla sua libertà, dal suo genio. Mi è venuta voglia di conoscerlo meglio, anzi, di più: mi è venuta voglia di incontrarlo.
Nel tuo racconto hai sovvertito l’ordine cronologico degli eventi e hai scelto un montaggio raffinato in cui la rappresentazione simbolica riveste un ruolo di primo piano. Come sei arrivata a questa soluzione?
Per decostruire, all’inizio ho dovuto costruire. Il processo creativo ha conosciuto diverse tappe: in un primo tempo ho pensato e scritto la scaletta rispettando la cronologia degli avvenimenti, ma quando ho cominciato a realizzare le prime tavole ho sentito che ero sulla strada sbagliata. Man mano che andavo avanti, perdevo l’anima di Glenn Gould. Non dovevo cedere alla semplicità di una narrazione lineare, rischiando di allontanarmi dal personaggio ma, al contrario, dovevo trovare il modo di avvicinarmi a lui, e così ho scelto una cronologia frammentata. Questo mi permette di comporre una musica interiore che rivela al meglio l’eccezionalità di Glenn Gould. È difficile esprimere un’arte come la musica attraverso un medium “muto” come il disegno. Ho concentrato la mia attenzione sulla gestualità del Maestro, sulla sua sensibilità esacerbata e sul rapporto estremamente analitico e preciso che fin da ragazzo ha avuto con la musica.
Ti sei spostata spesso su un piano onirico − simbolico, dicevo prima − utilizzando oggetti o situazioni che evocano con efficacia stati emotivi particolari. Penso ad esempio alla sequenza in cui Glenn Gould precipita su un palcoscenico, dopo che il suo Steinway è andato distrutto in un incidente, oppure a quella in cui i rami degli alberi, come tentacoli, invadono la sua casa/mente.
Con questo tipo di composizione volevo evitare di focalizzarmi sulla vita di Glenn Gould mantenendo solo i punti più importanti o almeno quelli più semplici da rendere visivamente. Il lettore accede al potente immaginario che spinge Gould a compiere le sue scelte artistiche e di vita. Poi metto in gioco anche la mia sensibilità. Cerco di restituire al meglio l’emozione che provo quando ascolto la sua musica e seguo le sue mani che scorrono sui tasti del pianoforte.
A predominare sono i toni del grigio, un colore che lui amava molto. Alla fine, infatti, hai voluto ricordare le sue parole: «Davo per scontato che tutti condividessero la mia passione per i cieli grigi. Sono rimasto sconvolto quando ho saputo che alcune persone preferivano il sole».
Il motivo è questo. Guarda caso anch’io preferisco il grigio ai colori vivaci. Il bianco e nero sarebbe stato troppo pesante, troppo grafico, mentre il grigio è un colore neutro, lascia fluire le emozioni. Il grigio può essere scuro o aereo… Il grigio è il fragile equilibrio tra bianco e nero, tra vuoto e pieno. Alcune parti sono colorate per mettere in risalto le emozioni, altre lasciano affiorare la texture della carta, liscia e leggera. Il contrasto dei colori evidenzia la grazia delle mani di Gould, cerca di esprimere la delicatezza e l’eleganza della sua musica.

Ormai la parola “genio” è così logora che bisognerebbe rottamarla – la usiamo in ogni contesto, quasi sempre a sproposito, felicemente deresponsabilizzati −, ma nel caso di Glenn Gould qualsiasi altra definizione risulterebbe sfocata.
Un genio non ha spirito competitivo e tende all’isolamento, sostiene qualcuno. Forse è un punto di vista un po’ estremo, eppure se ci immergiamo nelle pagine di Sandrine Revel, non possiamo fare a meno di pensare che la verità sia proprio questa.
L’arte è dedizione e «Glenn pulcino bagnato» − così firmava alcune lettere – si preoccupava della musica più che di se stesso.

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