di Gioacchino Toni

robocop_g8Sul finire degli anni Novanta, l’antropologo Marc Augé, iniziò a sostenere l’idea che alla realtà si stavano sostituendo le immagini e tale fenomeno di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà, secondo lo studioso, stava avvenendo soprattutto, ma non solo, a causa del mezzo televisivo. Insomma, secondo tale ipotesi, l’età contemporanea sembrerebbe essere contraddistinta da una realtà volta a riprodurre la finzione.
Gli anni Novanta sono sicuramente stati attraversati da un nutrito dibattito teorico circa il “problema della realtà” (quale/quali realtà?) e della progressiva scomparsa del reale nell’epoca dei simulacri (es. gli studi di Jean Baudrillard), numerosi sono stati anche i film che proprio a partire dallo scadere del Millennio hanno affrontato la difficoltà di discernere il reale dal finzionale ed a proposito di tale produzione cinematografica esiste un’ampia letteratura soprattutto anglosassone.

Quel fenomeno di “messa in finzione della realtà” di cui tratta Marc Augé, nel suo La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction (ed. orig. 1997, prima ed. it. 1998), rieditato da Elèuthera nel 2011, ha inciso anche sul documentario audiovisivo tanto che, da qualche tempo, questo sembra palesare sempre più un cortocircuito determinato dalla sempre più evidente trasformazione dell’immagine in un surrogato di realtà e la realtà, a sua volta, in un surrogato dell’immagine. Risulta difficile realizzare una documentazione audiovisiva in un’epoca in cui la realtà che si intende documentare attraverso le immagini sembra essersi sempre più spesso piegata ad esse, ove il reale sembra ormai votato a duplicare il finzionale, dando luogo così ad un groviglio inestricabile.

Secondo l’antropologo francese «è il nuovo regime di finzione ad affliggere oggi la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da farci dubitare di essa, della sua realtà, del suo senso e delle categorie (l’identità, l’alterità) che la costituiscono e la definiscono» (pp. 8-9). Non si tratta soltanto dell’immagine, ma anche delle «condizioni di circolazione fra l’immaginario individuale (ad esempio il sogno), l’immaginario collettivo (ad esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no) che sono cambiate. È appunto perché le condizioni di circolazione fra questi diversi poli sono cambiate che noi possiamo interrogarci sullo statuto attuale dell’immaginario. Possiamo infatti affrontare la questione della minaccia che pesa sull’immaginario a causa della “finzionalizzazione” sistematica di cui il mondo è oggetto, dove questa stessa “messa in finzione” dipende da un rapporto di forze molto concreto» (p. 12).

Tra le cause principali che, secondo l’antropologo, hanno concorso a modificare il rapporto tra esseri umani e reale, si possono annoverare tanto le modalità di rappresentazione associate alle tecnologie ed ai relativi processi produttivi, quanto quel processo di planetarizzazione che ha sradicato processi culturali di simbolizzazione costruiti nel tempo.
Se la finzione può essere definita come un regime di percezione socialmente regolato, allora, secondo il francese, «essa non ha solo un’esistenza storica che si traduce in istituzioni, tecniche e pratiche, ma (…) costituisce anche un fatto socioculturale che mette in gioco relazioni di alterità, rapporti di vario tipo con gli altri» (p. 99). Risulta importante domandarsi quanto lo sviluppo tecnologico, piegato a precise logiche economico-politiche, sia responsabile di una forma fuorviata di immaginario, detta “finzionalizzazione”, ove la realtà viene trasformata in finzione.

augé sogniAugé ricorda come storicamente i vari paesi coloniali, pur nell’essere tra di loro rivali, riconoscevano l’alterità radicale nelle popolazioni soggiogate, tanto che si può affermare che il colonialismo nel suo insieme determinava una presa di coscienza identitaria. Dal punto di vista etnologico, «ogni rituale produce identità attraverso il riconoscimento di alterità (…) l’attività rituale crea l’identità e non ne è soltanto la traduzione. (…) Il legame sociale creato dal rito deve essere pensabile (simbolizzato) e gestibile (istituito); in questo senso il rito è mediatore, creatore di mediazioni simboliche e istituzionali che permettono agli attori sociali di identificarsi ad altri e di distinguersene, insomma di stabilire mutualmente dei legami di senso (di senso sociale). (…) Quando si viene a creare un blocco rituale, un deficit simbolico, un indebolimento delle mediazioni (…) cioè un’interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità, appaiono i segni della violenza» (pp. 17-20). Le nuove modalità comunicative ed il nuovo statuto delle immagini contribuiscono a rendere sempre più astratto il rapporto con l’altro.

Prendendo come esempio il ruolo delle immagini nella colonizzazione gesuita, l’autore insiste nel sottolineare come cambiamento culturale ed affermazione identitaria siano entrambi dei processi che ridefiniscono, reciprocamente, le identità e le culture; gli indios non si sono limitati ad accogliere le immagini cattoliche ma le hanno adattate in un processo di creazione e ri-creazione attraverso pratiche pittoriche e scultoree.
«Nella misura in cui ognuno è direttamente interpellato dall’informazione e dall’immagine, nella misura in cui i media di sostituiscono alle mediazioni, i riferimenti si individualizzano o si singolarizzano: a ognuno la sua cosmologia ma, anche, a ognuno la sua solitudine» (p. 17). Tale movimento, definito dall’autore “surmoderno”, rende sempre più astratta la figura dell’altro e provoca reazioni totalizzanti, escludenti ed alienanti; «fino a quando la dialettica identità/alterità funziona, un’affermazione di appartenenza a una collettività non può essere concepita né come esclusiva di altre appartenenze né come esclusiva dell’affermazione di identità individuale. Ma questa dialettica può incepparsi tanto per gli effetti di dissoluzione imputabili alle tecnologie surmoderne quanto per gli effetti di indurimento e di glaciazione indotti dal ripiegamento sulle appartenenze esclusive» (p. 29).

Augé analizza il rapporto tra morte, sogno, visioni e racconto a partire dal medioevo passando in rassegna gli studi di Jacques Le Goff, Jean-Claude Schmitt, Carlo Ginsburg e Serge Gruzinski. Da quest’ultimo l’antropologo francese riprende alcuni concetti relativi allo scontro tra immaginari nel Messico coloniale, approfonditi da Gruzinski nel suo La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner (orig. 1990, it. 1991). Augé riprende anche l’analisi psicanalitica proposta da Christian Metz a proposito dell’immagine e della finzione cinematografica, in particolare a proposito dello statuto del personaggio, del processo di identificazione e del confronto tra stato filmico e stato onirico.
Se nel teatro lo spettatore tende a dirigere l’attenzione sull’attore (priorità al rappresentante), al cinema lo spettatore la dirige invece, solitamente, sul personaggio (priorità al rappresentato) ed anche quando, al cinema, lo spettatore si identifica con l’attore lo fa in quanto attore-star, dunque , nuovamente, come personaggio di finzione. La visione cinematografica strutturerebbe un meccanismo che porta il pubblico ad avere la percezione di conoscere gli individui in quanto riconosce i personaggi e ciò, secondo Augé, avvicina il cinema la mito.
Il ruolo cinematografico risulta inscindibile dal suo interprete perché la sua rappresentazione interessa il riflesso dell’attore e non l’attore stesso e tale riflesso, essendo registrato, risulta impossibilitato al mutamento. È per questo motivo che l’industria hollywoodiana pone molta attenzione al legame tra ruolo cinematografico e suo interprete. A tal proposito Augé si sofferma sulla pratica statunitense di realizzare versioni americane di film europei mettendo in luce come non si tratti di modificare la sceneggiatura, solitamente mantenuta aderente all’originale, quanto piuttosto di ricorrere ad ambientazioni ed attori americani al fine di immergere il tutto in una “tintura americana”, quasi che il pubblico statunitense fosse ritenuto «allergico a ogni colore locale troppo deciso (…) come se non si dovesse lasciare supporre agli americani che esistono altre mitologie, altre storie, altri sguardi diversi dai loro, come se, al di là della molteplicità delle culture-finzioni, non potesse esserci che un solo vero immaginario collettivo» (pp. 94-95). Ed, in una sorta di ripicca imperialista, una volta realizzate, tali versioni americane, queste finiscono per essere inviate alla conquista del pubblico europeo, colpevole di aver osato prodursi in proprio storie ed immaginari immersi nel “colore locale”.
Tale pratica americana di girare da capo film stranieri non deve essere scambiata con il classico remake; spesso quest’ultimo resta nell’ambito della medesima cultura dell’originale anche se la sceneggiatura subisce variazioni più o meno importanti. Il remake, secondo l’autore, può piuttosto essere interpretato come un «rimedio contro la nostalgia (che) rifonda i miti, fa scivolare in avanti la mitologia» (p. 96).

Sono diversi gli studi che hanno indagato il ruolo dello spettatore al cinema ed in particolare il suo “tornare bambino”. Metz, ad esempio, ha indagato circa la pertinenza dell’accostamento tra rapporto individuo/schermo e lo “stadio dello specchio” giungendo alla conclusione che mentre il bambino vede nello specchio la propria immagine, nel cinema tradizionale di certo non si riflette l’immagine dello spettatore sullo schermo. Mentre nello specchio l’identificazione si costruisce intorno ad un soggetto-oggetto, nel cinema si costituisce attorno ad un “soggetto puro”. La passività dello spettatore al cinema, inoltre, accentua l’identificazione con lo sguardo della macchina da presa e con il proiettore. A risultare importante non è tanto l’identificazione col personaggio ma, piuttosto, l’identificazione con “l’istanza della visione” che è il film stesso come discorso.
Secondo l’autore anche le serie televisive avrebbero una “struttura mitica”, tanto che il successo di molte grandi serie americane sembrerebbe dipendere dal carattere di prevedibilità e dalla presenza costante degli eroi che finiscono così per essere percepiti dal pubblico come familiari.

Se è pur vero che il piacere provato dallo spettatore davanti allo spettacolo cinematografico passa per una abbassamento delle difese dell’io, da una sorta di isolamento narcisistico, allo stesso tempo la percezione filmica consente un’apertura all’altro: «il percepente riconosce l’esistenza di un Altro (l’autore) analogo a se stesso, analogo all’Io soggettivo della percezione» (p. 100).
Lo spettacolo cinematografico il più delle volte “si accontenta” di far identificare lo spettatore con il dispositivo filmico e con i personaggi, ma quando riesce a creare affinità tra le immagini filmiche ed il “fantasma” (inteso come realizzazione di desiderio) dello spettatore, si determina un caso di «rottura provvisoria di una comune solitudine» che determina la gioia da parte dello spettatore di ricevere dall’esterno (dallo schermo) immagini solitamente interiori.
«La finzione può dunque essere per l’immaginazione e la memoria dell’individuo l’occasione di provare l’esistenza di altre immaginazioni e di altri immaginari. Ma questa esperienza riposa allo stesso tempo sull’esistenza di una finzione riconosciuta come tale (…) e sull’esistenza di una autore riconosciuto come tale, con i suoi caratteri specifici, che quindi istituisce con ciascuno di quelli che costituiscono il suo pubblico un legame virtuale di socializzazione» (p. 103)

tv-6La televisione ha nella vita contemporanea un ruolo che va ben oltre ai contenuti trasmessi visto che, per certi versi sostituendosi ai campanili del passato, struttura e scandisce il tempo quotidiano domestico; ad ore prefissate compaiono gli stessi volti di personaggi che diventano delle star senza essere attori e gli eroi di alcune serie televisive di successo divengono talmente presenti nelle giornate degli spettatori da far sì che il personaggio assorba in sé l’attore. In generale, chi si manifesta regolarmente in televisione, sottolinea Augé, ottiene uno statuto di personaggio finzionale simile a quello degli attori cinematografici. Essendo però lo statuto della finzione televisiva meno evidente rispetto al cinema, lo scarto tra finzione e realtà risulta decisamente meno palese.

La televisione è lo strumento di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà, per eccellenza; «non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che riproduce la finzione» (p. 110). Chiunque accetti di entrare a far parte, anche solo per ottenere un momento di celebrità, del mondo televisivo, contribuisce alla cancellazione del reale in funzione di una sua rappresentazione finzionale. In televisione gli eventi vengono livellati e le immagini scorrono senza soluzione di continuità: «Siamo presi a testimoni, divisi fra una dubbia innocenza (quella del bombardamento che sgancia bombe dal cielo) e una vaga colpevolezza, quella sensazione di un debito verso le vittime di catastrofi o di epidemie che ci spinge a versare il nostro obolo al telethon o a un altro dispositivo caritativo, forse per scongiurare la minaccia della disgrazia» (p. 111).
La televisione stessa tende a prendersi per oggetto raccontando la sua storia come fosse la storia di chi è di fronte allo schermo e per certi versi è così nella misura in cui lo spettatore ha «vissuto per e attraverso l’immagine» (p. 112).
Le trasmissioni televisive provocano una sorta di livellamento non solo tra le situazioni ma anche relativamente alle persone ed ai personaggi e ciò è, in buona parte, imputabile alle immagini stesse. La «guerra del Golfo ha assunto l’aspetto di un videogioco a tema guerriero che dimostrava il carattere “pulito” dell’azione occidentale» (p. 113). La distinzione tra realtà e finzione risulta sempre meno netta e l’autore risulta sempre più assente dalla coscienza dello spettatore.

Grazie ai nuovi media ed alle tecnologie digitali sono sempre di più coloro che, oltre a percepire immagini, le producono soprattutto al fine di realizzare testimonianze della loro presenza in luoghi che hanno attraversato, il più delle volte, velocemente e visionato con l’occhio dello strumento di registrazione utilizzato. Il mondo sempre più spesso è attraversato da individui con lo sguardo fisso sull’apparecchiatura di registrazione, sia essa una macchina da presa o un semplice smartphone. Si tratta di individui del tutto disinteressati della “realtà” che hanno di fronte; ciò che interessa loro è immagazzinare immagini per poi poterle si e no guardare prima di condividerle sui social network con persone di cui conoscono l’autorappresentazione veicolata dal media. Servono ulteriori testimoni al fine di sentirsi rassicurati dal fatto che “veramente” si è stati presenti agli eventi immortalati. «Si completa allora il movimento al temine del quale la verità di ciò che il soggetto ha vissuto (o non ha vissuto) e del soggetto stesso (perché alcuni artifici o la cortesia di un vicino gli permettono di figurare sulla diapositiva o sul film) si trova trasportata nell’immagine e nello schermo che le serve da supporto» (p. 114).
Effettivamente il mondo contemporaneo sembra sempre più essere organizzato per essere filmato, più ancora che visitato. I parchi di divertimento, i club vacanze, le aree residenziali protette, le catene alberghiere, i centri commerciali che riproducono sempre il medesimo ambiente, possono, secondo Augé, essere interpretati come “bolle d’immanenza”, ossia come il corrispettivo finzionale delle cosmologie: «sono costituite da una serie di riferimenti (…) che permettono di riconoscervisi, disegnano e marcano una frontiera al di là della quale non rispondono più di niente» (p. 115).

«In definitiva ci si può domandare se tutte le relazioni che si stabiliscono attraverso i media, qualunque sia la loro eventuale originalità, non dipendano prima di tutto da un deficit simbolico, da una difficoltà a creare del legame sociale in situ. L’io finzionale, colmo di una fascinazione che spunta in ogni relazione esclusiva con l’immagine, è un io senza relazioni e allo stesso tempo senza supporto identitario, suscettibile di assorbimento da parte del mondo delle immagini in cui crede di potersi ritrovare e riconoscere» (p. 119)