di Francisco Soriano

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Introduzione di Giulio Guidorizzi
Con una conversazione tra Carlo Ginzburg e Giulia Boringhieri, Biblioteca Adelphi, 2021, pp. 226 € 18,00

Il re dei Lapiti, Issione, era un personaggio audace e noto per essere stato protagonista di gesta che destavano risentimenti e reazioni abbastanza decise anche fra gli invincibili dell’Olimpo. Nella narrazione mitologica che ne fa Cesare Pavese all’interno del suo inimitabile Dialoghi con Leucò, nel racconto d’esordio all’intero libro, La nube, Issione sembra incarnare le resistenze di un uomo insofferente alle regole e per niente disponibile a porsi argini nel soddisfare i desideri del suo corpo. Nefele, la Nube, in dialogo con lo stesso Issione, avverte il recalcitrante re di adeguarsi alle leggi, di ubbidire, soprattutto perché risulta che una mano più forte che prima non c’era ora ha il potere di determinare il destino. Con l’avvento degli dèi il mondo è cambiato definitivamente, così le sue leggi e le sue consuetudini.

Prima di tutto questo, Issione si era reso protagonista di eventi censurabili: aveva tradito la promessa fatta al suocero, che gli aveva concesso di sposare la figlia e ricevere in donazione splendidi cavalli a titolo di dote, lanciandolo fra i tizzoni ardenti di un pozzo. Il tradimento costò a Issione follia e punizioni inflittegli da tutti i sovrani dei luoghi limitrofi al suo regno. Condannato al vagabondaggio e prostrato, si guadagnò per pietà il perdono di Zeus, deus ex machina di tutta la schiera di figure mitologiche e dèi che la Grecia fino ad allora aveva riconosciuto.

Il gesto di Zeus probabilmente aveva però un disegno più profondo, e comunque non bastò a insinuare in Issione il cambiamento augurato: quello che avrebbe determinato finalmente in lui la dimensione di un uomo migliore in un mondo
mutato. Infatti, proprio durante una festa organizzata da Zeus in suo onore che avrebbe rappresentato il trapasso redentivo al futuro, egli tradì ancora una volta il perdono concessogli non resistendo al fascino della moglie del dio e proponendosi come suo amante con un certo vigore. Le varie ipotesi e versioni esternate sulla vendetta orchestrata nei confronti di Issione per l’insanabile infedeltà e la sua patologica irriconoscenza non incidono particolarmente sugli effetti e le modalità che determinarono la somministrazione nei suoi confronti di una punizione esemplare. Zeus o forse la stessa moglie, Era, trasformarono una nuvola in immagine femminile modellata sulla figura della dea, spingendo Issione all’irresistibile amplesso, che senza alcun freno inibitore egli si apprestò a magnificare, generando in certe versioni centauri o mostri affini.

Prima edizione Einaudi dei Dialoghi con Leucò (1947)

La punizione non si fece attendere. Nella raffigurazione che ci viene trasmessa dai cantori della penisola ellenica, Issione venne immobilizzato con dei serpenti a guisa di potenti funi sui raggi di un’enorme ruota e fu costretto così a vagare fra i deliri di un fuoco eterno dopo essere stato massacrato di botte su ordine di Zeus da Ermes. Una versione credibile che può essere accettata: egli fu ripagato con il male procurato, avvinghiato fra morsi di serpenti e lingue incandescenti in un
eterno vagare. La ruota ben delinea la dimensione di un tempo eterno e circolare che, quasi per forza di inerzia, mai più si arresterà.

Pavese con questo mirabile testo, davvero unico per intensità e originalità nella storia della letteratura italiana di ogni tempo, incarna la passione per una visione classicista di aspetti valoriali indissolubili nell’esistenza degli uomini: il mito rappresenta ancora oggi con il racconto degli eventi una condizione umana realistica e una ricerca infinita sull’origine delle cose eternamente attuale.

Dunque nel dialogo la Nube avverte Issione di un definitivo cambiamento nel quotidiano esistere degli uomini. Egli però puntualmente tergiversa, innamorato del piacere e del temporaneo, della vita. Issatosi su un dirupo in attesa del giorno
chiaro, dove si alternano senza alcuna legge, a suo dire, anche il nevaio, la bufera, la tenebra, egli resiste al domani e alla mano che tutto dirige. Come non simpatizzare per un simile personaggio, fermamente convinto della sua vita vissuta come rimedio a ogni vuoto? In attesa delle nuvole, entità eteree che si evolvono con immediate trasformazioni, mai simili a se stesse, Issione si inerpica sulla rupe sperando nel loro avvicinarsi e avvicendarsi, sussurrando che in quel luogo ameno e senza regole, la mano non arriva. Nulla muta per il re dei Lapiti: quando il cielo si oscura e urla il vento, che importa la mano che ci sbatte come gocciole? E Issione si sente lui stesso nuvola.

Occhiali e penna appartenuti a Pavese (Santo Stefano Belbo)

Anche gli esseri titanici che continuano a spadroneggiare sui monti, che il buon Issione aveva pensato fossero zona franca, cominciano a temere. Ma di quale legge si parla, incalza il sovrano spodestato dagli dèi e dagli uomini, di quale novità si tratta? È la sorte, il destino, ecco, il limite, l’impossibilità del mescolarsi, attraversarsi, possedersi, farsi l’amore a piacimento e senza regole:

la Nube glielo ripete a chiare lettere. Il destino è definitivamente mutato. Nefele, nonostante la consapevolezza della sua impossibilità al dolore, teme per gli uomini e per quei mostri. Così anche i centauri, figli del vento e dell’acqua, si nascondono nelle forre. Il mondo trascende dal caos alla dimensione apollinea dell’equilibrio e della costanza, guarda caso come avviene profeticamente nei testi sacri delle grandi religioni che si susseguiranno nella storia di questo mondo, sempre malconcio e falcidiato dal dolore, dall’ingiustizia e dalle guerre.

Quanto i Greci lo abbiano percepito in anticipo, immergendosi nei sentierilabirintici del Nulla e del mistero che risiede nella contraddizione e nella negazione al proprio esistere, ce lo fa capire Pavese in queste meravigliose
poesie in prosa, le uniche che possano affascinare alla stregua di una musicalità che solo il poetare conosce.
Gli dèi rappresentano un mondo nuovo alle porte, un uscio dal quale una luce tutta rinnovata fuoriesce accecante. All’orizzonte lo spettro della morte incombe, falcia indistintamente ma non è questo. La condanna che Issione rischia va infatti oltre la morte, tanto che la Nube riferisce cautamente al sovrano spodestato di aver visto uomini ed esseri più audaci di lui precipitare dalla rupe e non morire. La morte, che rappresentava il coraggio per gli uomini del suo tempo ormai alle spalle ha cambiato essenza, forma, funzione: ora viene tolta come un bene. La Nube ricorda che per quelli come Issione, segnato dalla sorte di un tempo che non è più, la morte è una cosa che accade come il giorno e la notte. Egli non vuol capire, e come potrebbe, lui che è tutto nel gesto che compie, che questo è invece per gli immortali qualcosa che si prolunga nel tempo e non conosce fine. La loro punizione è una morte che consiste in un amaro sapore che dura e si sente: essi trasformano i mortali in ombre, condannate a rivolere la vita e a non morire mai più. Issione racconta di aver visto nei sogni dèi per nulla terribili, talvolta affabili, sorridenti, talvolta sfuggenti come quel giovane che a piedi nudi attraversava la foresta e poi scompariva. La loro sostanza è addirittura quella di Nefele: Issione irride i timori della Nube ormai convinta che una sorte ineluttabile e funesta lo colpirà senza scampo. E come dubitare se nel sogno Issione dice di aver conquistato la montagna insieme al figlio concepito dalla dea, quel non-dove che appartiene ormai al passato e mai più sarà come prima. Il re immerso nel disordine del suo tempo ha una sorte segnata, ha sollevato impunemente gli occhi a una dea, ha infranto ogni regola, ha amato il suo corpo e gli altri senza la paura che si prova nei confronti del divino, dell’imperscrutabile, del supremo.

Irrisolto rimane il dilemma, l’oracolo è in silenzio, la vita segna il suo percorso nell’idea di un destino che gli uomini vorrebbero scritto. Ma nulla si sa, in fondo, tutto si dissolve: noi chi siamo, ombre, nuvole, fantasmi accecati da una sostanza fluorescente o, forse, neppure questo?

 

 

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