di Francesca De Luca

Studentesse

Una ragazzina si lancia dal secondo piano dell’istituto scolastico nel quale si reca ogni mattina.

“Si è gettata a causa di una delusione d’amore”, “si è lanciata perché vittima di bullismo”, “colpa degli ex compagni delle medie”; quello che a mio avviso è il peggior giornalismo, in questi giorni si è scatenato. C’è chi pubblica la classe della ragazza in questione, chi titola “i motivi del gesto”, chi pubblica interviste anonime ad una compagna (o compagno) che incolpa altri ragazzini. Si dice, si smentisce, si fa finta di nulla. Non critico il diritto di cronaca che, anche in questo caso, è stato esercitato al meglio da diverse testate. Critico l’approssimazione di chi vuole “essere sul pezzo” a qualsiasi costo, a discapito della verità o della tutela degli interessati. Quando in ballo ci sono le vite delle persone non ci si può sbagliare. Il peggior bullismo è stato fatto da alcuni giornalisti con poca coscienza e forse anche con scarsa conoscenza della Carta di Treviso. Perché? La causa, purtroppo, sono anche i lettori. Troppo spesso i giornali devono solo vendere, o guadagnare click, anche a costo di assumere un comportamento poco ortodosso; si decide di soddisfare la morbosa curiosità dei lettori. Italia, paese del pettegolezzo, del maniacale interesse per ciò che avviene nella vita degli altri, meglio ancora se i dettagli sono scabrosi. Cosa c’è di meglio che la gogna pubblica in uno dei pochi (forse l’unico) paesi europei in cui il giornalismo giudiziario fa quasi da padrone?

Così ci si trova a parlare di persone senza conoscerle, ad immaginare la vita di questa ragazzina, a voler giustizia per i bruti che l’hanno spinta a tale gesto;  la verità dei fatti, alla fine, diviene un dettaglio poco interessante.

Varrebbe invece la pena di dilungarsi su ciò che questi tragici eventi ci dicono. Questi gesti, al di là delle motivazioni prettamente personali sulle quali, a mio avviso, sarebbe buon gusto tacere (a maggior ragione dal momento che ci sono in ballo dei minorenni), ci raccontano dell’inaridimento sociale, della probabile difficoltà dei giovani a dialogare con degli adulti in grado di consigliarli, di appoggiarli, di sostenerli. Ci parlano di un sistema scolastico inadeguato in cui spesso i professori sono troppo anziani o troppo precari per riuscire ad investire sui loro allievi.

Invece di interrogarci su questo caso specifico, di porre una lente di ingrandimento sulla tragedia di una ragazza e di chi le sta intorno, credo possa essere più utile partire dall’accaduto per introdurre qualche considerazione di carattere generale sulla genitorialità, sull’adolescenza, sulla scuola, cercando di evitare i commenti da sociologi autodidatti.

Vale la pena di interrogarsi sulle colpe della società? Partiamo dall’istituzione scolastica e dal rapporto tra adulti ed adolescenti. Ritengo che limitarsi al “è causa degli insegnanti”, “dov’era l’insegnante mentre succedeva?” sia riduttivo e sbagliato. Come riduttivo è parlare di bullismo. Questa tendenza a cercare il colpevole al di fuori di noi (siano gli insegnanti o i ragazzi) è sintomo dell’incapacità di autoanalisi di cui larga parte dei cittadini italiani (chi più, chi meno) soffre; la sottoscritta non ritiene di esserne esente. Però quando avvengono fatti simili il silenzio e la riflessione si impongono. Incolpare i coetanei è solo un modo per “pulirsi la coscienza” per affermare, seppur velatamente, che sono cosa da ragazzi, che gli adulti non hanno colpa, in fondo (a meno che non siano i docenti). Ma è davvero così? Di vero c’è che in questa società i genitori hanno sempre meno tempo per fare i genitori e che la scuola non è assolutamente percepita come luogo di crescita e di aggregazione (come invece avviene in altri paesi).

Perché di questo non si parla? Perché non si ha il coraggio di dire che oggi In Italia (e non solo) i genitori sono troppo spesso costretti agli straordinari, impiegati in lavori precari, con un mutuo sulle spalle? Si può azzardare l’ipotesi che una coppia di genitori piegata sotto il peso di una società sempre più veloce, spesso non hanno la serenità necessaria per guardare i figli adolescenti negli occhi e per capire cosa succede loro in un momento così delicato della loro crescita? E, nel caso in cui questo avvenga, possiamo incolpare con leggerezza i genitori? Credo che farlo ci renda colpevoli quantomeno di superficialità.

La scuola, inoltre,  probabilmente non è più considerata il luogo della sicurezza, del confronto, della crescita personale e collettiva. I ragazzi di oggi, invasi dalle informazioni e dalla comunicazione veloce, sono in realtà molto soli. Forse fanno maggior fatica, rispetto alla generazione che li precede, a comprendere la distinzione tra un rapporto reale ed un rapporto virtuale; ed è proprio qui che la scuola acquisisce un’importanza capitale.

Uno dei problemi che troppi sottovalutano è che i docenti che insegnano alle medie e alle superiori spesso non hanno alcuna formazione da “educatori”. Sono probabilmente ferratissimi nelle loro materie ma hanno, in molti casi, scarse nozioni in merito alla pedagogia, per esempio. Non per una loro mancanza, ma perché il sistema universitario è strutturato in questo modo; ma se lo Stato chiede, giustamente, ad un insegnante di ergersi ad educatore deve fornire a quest’ultimo gli strumenti per poterlo fare al meglio. “È sempre stato così” mi si potrà contestare. Certo, è sempre stato così. Ma fino a qualche tempo fa l’insegnante era riconosciuto nel suo ruolo di educatore; i genitori avevano maggior consapevolezza dell’importanza dell’insegnante nell’educazione del proprio figlio. Anni fa l’insegnante non era costretto a cambiar scuola di mese in mese, aveva una stabilità che consentiva di istaurare un rapporto di fiducia con i propri allievi e con chi se ne aveva la tutela. Oggi molti giovani docenti precari cambiano istituto, spesso città, più volte l’anno. Come si può pensare che riescano a divenire un punto di riferimento? Bisognerebbe partire da qui. Forse bisognerebbe pensare che quella ragazzina potrebbe essere chiunque, che saremmo potuti essere anche noi, qualche anno fa, e che i dettagli in fondo non sono così rilevanti.

Dunque, rimanendo al contesto generale e continuando a lasciare il caso specifico sullo sfondo, se questi fatti accadono, di chi è la colpa? Non è colpa degli insegnanti, non è colpa dei ragazzi, non è colpa dei genitori. Nessun colpevole? Non è così. Credo si possa ipotizzare che la colpa sia un po’ di chiunque. Di chi premia un sistema alienante, che ci costringe a vivere per lavorare, che taglia i servizi sociali, che non investe nella scuola pubblica. Di chi crede che basti comprare un i-phone per essere un buon genitore e per colmare le lacune affettive. Dell’insegnante che non si cura di accrescere le proprie mancanze, cercando di auto-formarsi anche solo un po’, fino a che non sarà l’università a farlo. Di chi cerca lo scoop a tutti i costi.

Se nessuno è colpevole, siamo tutti colpevoli.