di Dziga Cacace

Eiacula precocemente l’impero, ritorna il circolo dei combattenti
Gli stati servi si inchinano a quella scimmia di presidente

Ermeneutica, Franco Battiato

ddv3201.jpg360 — Gravemente insufficiente, altro che Da zero a dieci, di Luciano Ligabue, Italia 2001

Ma tu pensa: proprio ora viene fuori che gli iracheni avrebbero tentato di comprare dell’uranio impoverito nigeriano, in Niger… (se è del Niger si dirà “nigeriano”, no? E se fosse della Nigeria come si direbbe? “Nigeriano della Nigeria”? Vabbeh). In questo inverno del nostro scontento, anno domini 2003, pavesato di orgogliose e inutili bandiere arcobaleno, sto vivendo in diretta uno di quei sempre più lunghi e dolorosi momenti di caduta delle difese immunitarie cerebrali del mondo occidentale e, stanco di lottare, mi rifugio in un film, l’ennesimo. Letale, peggio delle introvabili armi di distruzione di massa che gli ispettori ONU avrebbero cercato invano a Baghdad e dintorni (forse perché non esistono… ma non voglio fare sempre il bastian contrario, dài: vedrai che frugando bene…). Comunque, nonostante la solenne promessa di Il mio nome è mai più, Ligabue c’è cascato di nuovo. Purtroppo. In Radiofreccia convivevano ingenuità diverse e una recitazione allo stato brado, ma c’era anche dell’energia sincera e il film, per me, funzionava eccome. In questo Da zero a dieci c’è una scrittura più ambiziosa, ma per niente matura, anzi. E quello che in Radiofreccia si poteva perdonare a un esordiente che sbagliava per irruenza, qui respinge e basta, in un mescolone che aspira all’epica ma risolve nello strapaese. Oh, vado giù duro perché accuso il tradimento: Liga, da buon selvaggio (nell’accezione migliore dei termini), qui aspira a fare l’autore, con frasi sentenziose e considerazioni sul mondo messe in bocca a personaggi punto carismatici. E tutto il film risulta sbalestrato, come il montaggio ostentato e fuori luogo: Da zero a dieci è farraginoso, viscoso, poco spontaneo: è pensato e siccome non è pensato granché bene, fa paura. Barbara rantolava sul divano, continuando a guardarmi interrogativa – gli occhi pallati come un manzo che va al macello – come se potessi giustificare io questo disastro. E io mi chiedevo cosa fosse saltato in testa a Ligabue: vendi dischi a palate, vinci premi letterari, hai una marea di chitarre vintage che ti invidio e, dimmi tu, ma perché ti butti in questo film imbarazzante?


Non mi convincono per niente la mitologia romagnola e le conclusioni spicciole a cui si arriva nel mezzo del cammin di nostra vita. E poi — nella megalomane voglia di accumulare argomenti e di dire la propria su tutto — ci sono anche la strage di Bologna, la follia estiva della Riviera, la malinconia dei trentenni abbondanti che rifiutano di crescere e pure il blues, nella convinzione (errata) che la gente lo percepisca come una musica noiosa (ma Luciano… e i Blues Brothers?!). E del resto, lo stesso motore narrativo è poco plausibile: come fanno i quattro protagonisti a tornare a vivere un week-end con quattro ragazze che non vedono da vent’anni e che avevano brevemente conosciuto allora? Per onorare la memoria di un amico morto e fare i conti? Mah. La lagna adolescenziale è piagata anche dalla mania di tirare le somme e trarre conclusioni, valutando i risultati, con l’ossessione del voto finale. Oh, se il gioco piace a Ligabue, Da zero a dieci merita un tre secco e mi dispiace, ma se Tutti vogliono viaggiare in prima, tu devi dare l’esempio. Detto questo, ero nervosetto e — siccome adesso è di moda spalare letame su uno che fa dischi, film e libri — a me Ligabue, il primo album di Luciano del 1990 continua a piacere. E anche qualcos’altro dopo. Capito? (Vhs da Tele+; 21/2/03)

ddv3203.jpg362 — The Ring dell’agghiacciante Gore Verbinsky, USA 2002

Torno al cinema dopo un’astinenza clamorosa abitata da incubi ricorrenti, di cui l’ultimatum consegnato oggi all’Iraq da USA e colonie (GB e Spagna) sembra il sigillo definitivo. Lascio la scelta alle due cugine Barbara e Alessandra che sponsorizzano a gran voce questo The Ring, ben accolto dalla stampa specializzata. Abbiamo voglia di brividi a buon mercato e incrocio le dita. Dunque: Rachel è una giornalista d’assalto con figlio a carico. Una sua lontana cugggina muore inspiegabilmente e così altri tre adolescenti — in posti diversi, ma tutti alla stessa ora — che insieme a lei avevano visto una videocassetta sette giorni prima. La faccenda sa di leggenda metropolitana, ma la coincidenza intriga Rachel che sente puzza di scoop, tipo coccodrillo bianco nelle fogne di New York. Trova il nastro e non resiste: se lo vede. È una sequenza di immagini decisamente inquietante (che a me ricorda il Buñuel de L’age d’or), ma il peggio avviene a visione ultimata: Rachel riceve una bella telefonata che le annuncia — con voce infantile e spettrale — che tra sette giorni morirà. A questo punto la giornalista non crede più a una leggenda e si dà da fare per capire da dove vengano e cosa significhino quelle immagini. In sette giorni, con l’aiuto dell’ex, padre di suo figlio, viene a galla la storia di Samara, bimba adottatain illo tempore da una coppia di allevatori di cavalli. Ma Samara era cattiva come l’aglio e mammà — non senza motivo — l’aveva lasciata crepare in un pozzo. E da allora la pargoletta dura a schiattare si vendica col nastro mortifero. Come il nastro sia stato realizzato e poi fatto pervenire a noi rimane un mistero, ma voler trovare una logica razionale in un horror di tal fatta è come auspicare un intervento intelligente di Giovanardi. Allo scadere dei sette giorni Rachel si salva, credendo di aver dato requie al fantasma, ma non è così perché il suo ex ci rimane secco ben bene. Allora Rachel capisce e io ho capito che avrei dovuto capire, ma mi hanno soccorso le due cugine tremende. E ora attenzione alla madre di tutti gli spoiler, e ringraziate che vi avverto prima: ci si salva dalla iettatura di quella stronza di Samara solo riproducendo una copia del nastro, cioè amplificando la maledizione pur di non rimanerne vittima. Una morale per nulla consolatoria: per sottrarsi alla vendetta del fantasma bisogna perpetuare il malaugurio. Poi saranno cazzi amarissimi di chi trova la cassetta. Regia pulita (con due o tre guizzi niente male, specie nelle scene de’ paura) e colta (nelle eleganti citazioni surrealiste), fotografia freddissima (la livida Seattle), recitazione funzionale che non scade mai nel grottesco. Personalmente ho fatto due salti da primatista olimpionico, trovandomi poi a celiare con una vicina sconosciuta, facendo quello che “ah, ah, ci siamo cascati, in questo tranello ordito da quel mattacchione del regista… che poi, come si fa a credere a un film come questo, eh? Ah, ah!”. Il film vuole spaventarti e ci riesce magistralmente (anche se con una cadenza rarefatta); il ritmo è teso e crescente e il doppio finale è intelligente quanto azzeccato nei modi della messa in scena. Insomma: un buon film di genere tratto da un originale giapponese che mai vedrò. Soddisfatti andiamo a mangiarci una pizza invece infame. Film visto in una sala oceanica, zeppa di adolescenti urlettanti e poco attenti che con me al potere rischierebbero una deportazione di massa nel Caucaso. Dubito che la Vhs del film The Ring, comunque, possa avere una qualche successo. Magari duplicandola… (Cinema Odeon, Milano; 7/3/03)

ddv3204.jpg363 — Butch Cassidy dell’elegiaco George Roy Hill, USA 1969

Onoro la memoria del da poco scomparso Hill e rivedo volentieri questo adorabile Butch Cassidy. La vicenda è nota: un inno alla fuga con protagonisti due splendidi amici: Butch, l’amabile spaccone, e Sundance, il disincantato, abilissimo con la pistola. E mentre il genere western diventava crepuscolare e revisionistico, qui si faceva fiaba, raccontando la fine di un’epoca attraverso due eroi fuori tempo, scavalcati dal progresso (leggi Capitale), tanto da scappare in Bolivia alla ricerca di una terra dove non fosse già arrivata la terribile modernità. Il Far West stava perdendo la sua libertà: arrivavano i mezzi di comunicazione, i confini, le leggi dell’uomo bianco e la terra non era più di tutti. E presto si sarebbe sostituito anche il cavallo con una bici. Un western sessantottino, dove i protagonisti, due teneri dandy, condividono l’amore di una donna (Katharine Ross, dio, che incanto!), un quadrupede e un sogno; dove i soldi son gestiti senza egoismo, alla faccia dell’odiosa autorità costituita, rifiutando il lavoro e la moralità corrente. Il film è bastevolmente ruffiano, ma non dà fastidio. Era il momento in cui a Hollywood andava la contestazione e questi erano due eroi perfetti, giovani e belli, simpatici, ribelli e clamorosamente eleganti (Butch con la giacchetta in pelle, Sundance con quella scamosciata; tutti e due con jeans aderenti: sembrano usciti da Zabriskie Point). Condito da una fotografia della natura notevole, il film vive di un ritmo non teso ma costante. I tempi sono molto dilatati su una struttura a inseguimento arricchita da scene costruite per rimanere nella memoria (Newman in bici con la Ross, il tuffo nel canyon, l’ultima rapina) e condita da dialoghi e battute fulminanti. Una storia, come annuncia la didascalia iniziale, “quasi tutta vera”, per cui probabilmente quasi tutta falsa. Rivisto dopo anni, lo ricordavo poco. Soprattutto ero rimasto traumatizzato dalla pessima copia de L’Unità, un atroce “schermo pieno” che negava il glorioso cinemascope goduto stasera. Veltroni avrà salvato il quotidiano dal fallimento, ma ha cresciuto una generazione di caproni davanti al video, piuttosto che mandarli al cinema. Pagheremo tutto, pagheremo caro. (Vhs da Tele+; 14/3/03)

ddv3205.jpg364 — Soldato Jane del fascistizzato Ridley Scott, USA 1997

Dunque scoppierà la guerra. L’uomo che non è stato eletto dagli americani (cioè dalla metà di quelli che votano, più o meno il 22 per cento) ci sta regalando un altro bel conflitto. Operazione chirurgica e bla bla. Cioè morti, tanti. Ed è venuto il momento della terribile maledizione del Cacace: che gli ritorni tutto dolorosamente in quel posto a questo assassino, in termini colossali, nodosi e irti di chiodi. Voilà, alla faccia dell’antiamericanismo, trovata retorica per rifiutare la logica e accusare chi non è d’accordo con l’insensato massacro cui stiamo andando incontro. Sulle varie reti si susseguono dibattiti assurdi con nanetti politici che sponsorizzano le tesi dei loro partitini, litigando di fronte alla tragedia. Anche a loro auguro l’inaugurabile e parlo di: Capezzone, Giovanardi, Bertinotti, Bonino, Schifani, Tajani e Rutelli, tutti assieme appassionatamente. Ma siccome sono uomo di mondo, dopo lo sfogo de panza che è il mio massimo sforzo di analisi politica, non posso resistere al film che La7 propone dopo un confronto a Otto e mezzo meno becero di quello in onda sulla Rai. Con singolare scelta di palinsesto c’è infatti l’immondo Soldato Jane, robustissima cazzata destrorsa mascherata da manifesto del neo-femminismo e in realtà ributtante assunto maschilista. Demi Moore (che fa letteralmente schifo al cazzo: ha la testa piccola, il mento sfuggente, gli occhi vicini, è alta un metro e un’aspirina, ha le tette di silicone e le cosce di Rummenigge) è una placida tenente che si occupa di logistica. Ma a Washington, nei palazzi del potere, si trama e una senatrice capisce che potrà ricattare la Marina statunitense accusandola di essere maschilista. La Marina. Non chi ha realizzato questa porcata. Vabbeh. Comunque la politicante lancia la sua sfida: vi darò una recluta donna per i Navy Seals (corpo speciale al cui confronto quelli della Folgore sono boy scout), e vedrete se non sarà capace di sopportare l’estenuante preparazione al combattimento. Viene ovviamente scelta la nostra Jane che non vedeva l’ora di scendere in campo sul serio. Comincia la sarabanda di esercitazioni crudelissime: prima Jane fatica, piagnucola, invoca clemenza, poi spopola e viene addirittura acclamata dai compagni quando griderà all’istruttore di “succhiargli il cazzo”, frase che rivela pienamente quale sia la donna ideale per chi ha concepito questo abisso di turpitudine: appunto una donna col pistolino, cioè un uomo (o un trans, ma non voglio divagare). Altro momento cult quando la nostra si libera della fastidiosa e inutile lunga chioma, radendosi a zero. Ma la sagra delle castronerie non è finita, infatti i politici culi posati sono pure infidi e Jane viene spesa dalla senatrice per suoi motivi elettorali. Ma Jane non ci sta e gliela fa vedere lei a quella carogna in tailleur (Ann Bancroft, brava ma sempre ridotta a ruoli parodistici). Finisce bene? Meglio non potrebbe! Infatti c’è da fare una bella missioncina in Libia, tanto quelli lì sono arabi puzzoni, fanatici e cretini e dargli una scoppola non fa mai danno. Missione compiuta e soldato Jane più che mai arruolata. Beh, a Ridley Scott avrà dato di volta il cervello. In certi momenti ho provato a scorgere un’ironia, un colpo di coda, una ribellione a questo script talmente insulso da possedere quasi valore. Invece Soldato Jane è proprio così, gnucco e fascista dall’inizio alla fine, stupido e immarcescibile come la sua protagonista. Va tuttavia detto che il film ha ritmo e accumula scene madri con sicurezza e mestiere: è un film comico all’insaputa del regista e del presidente Bush, ma questa è un’altra storia. A domani, nella realtà, in guerra. (Diretta tv su La7; 18/3/03)

ddv3206.jpg365 — Chicago del danzereccio Rob Marshall, USA 2002

E il 20 marzo, molesti come può esserlo una sveglia a quell’ora, son cominciati i bombardamenti. Son talmente annichilito dalla notizia che mi faccio trascinare come corpo morto al cinema dalle cugine Barbara e Alessandra. Vogliono vedere questo Chicago, le regine del mondo. Sono malmostoso e stravolto dalla stanchezza e blatero che non mi piacciono i musical. Che è forse vero, ma che ne so io? E Jesus Christ Superstar come lo consideriamo? Perché allora sì che mi piacciono, i musical. Come il Rocky Horror, del resto… Vabbeh: mi piacciono solo quelli rock, capito? E poi avrei voglia e bisogno di dormire, di farmi compatire e di piagnucolare un po’: e infatti per il primo quarto d’ora del film ronfo senza ritegno alcuno. Poi mi sveglio contemporaneamente all’entrata in scena di Richard Gere (azzimatissimo, con la pelle tirata da buddha dopo il lifting) e comincio a prenderci gusto. E a fine visione confesso d’essermi divertito. Nella nebbia semi-onirica Chicago m’è parso discreto: ha una storia decente (una variazione carceraria di Eva contro Eva, con un imprevedibile pigmalione di mezzo) ricca di agganci al presente (le vicende processuali come forma d’intrattenimento) ed è soprattutto un bell’oggetto da vedere, tecnicamente riuscito, dove rimani abbagliato continuamente da montaggio, costumi, interpretazioni, musiche e scenografie. E dentro alla bella confezione c’è anche qualche idea. Mi rifiuto di fare l’ovvio paragone con Moulin Rouge perché sono stanco morto e perché è una cazzata dover paragonare due musical solo perché sono due musical, ma in ogni caso do parere positivo al film. E poi la Zellweger e la Zeta-Jones se la cavano egregiamente ballando, cantando e recitando come da noi sanno fare solo le sanremesi Gerini e la Autieri. Scherzo. Nella nottata è avvenuta la consegna degli Oscar. Michael Moore ha vinto con Bowling a Columbine il premio per il miglior documentario e dal palco ha fatto una cazziata da pescivendolo contro il mentecatto con gli occhi appiccicati, Bush jr., nell’imbarazzo ingessato della platea (ma Scorsese e Harrison — tra quelli che ho riconosciuto al volo – godevano). Chicago s’è preso sei statuette, miglior film, tutti i premi tecnici e anche un Oscar per la miglior attrice non protagonista a Catherine Zeta-Jones (in effetti meritato). Grande soddisfazione per Polanski miglior regia e Adrian Brody miglior attore protagonista, con Il pianista. Oscar femminile alla Kidman, nasuta Virginia Woolf, che ha pianto come un vitello: adesso Barbara mi costringerà a vedere ‘sto benedetto The Hours. Che palle: forza e coraggio. (Cinema Colosseo, Milano; 23/3/03)

ddv3207.jpg366 — Young Frankenstein dell’ancora young Mel Brooks, USA 1974

Aaah, masterpiece! Questo, ogni volta che lo vedo, mi commuove e mi diverte. Stavolta in versione originale, apprezzando le voci degli interpreti; e non è neanche Natale e non siamo su Italia Uno. Salta subito agli occhi che — una volta tanto, nella versione italiana — è stato fatto un grande lavoro di doppiaggio e traduzione che riscalda le freddure linguistiche di Brooks e Wilder (per esempio lo schwanstuck che diventa tormentone o altri giochi di parole). È una traduzione che non va sul raffinato, è evidente, ma il copione non perde in qualità. Ritrovo poi il ritmo pacato, le trovate geniali, le interpretazioni perfette (la migliore è Madeline Kahn, prima fidanzata del mad scientist e poi sposa del mostro, ma non scherza neanche Cloris Leachman, frau Blücher); le grevità assortite sono gestite con imperturbabile faccia tosta a fianco di citazioni del cinema horror classico senza alcuna pedanteria; inoltre il film è scenografato (si dirà così? Mah!) e fotografato splendidamente (e il formato originale in 16/9 rende giustizia). Così l’avevo visto solo nel 1978, con mia sorella, al fu cinema San Martino di Genova, portati da mia madre che evidentemente aveva voglia di vedersi il film perché a noi bambini la pellicola aveva lasciato piuttosto basiti. Ad ogni modo stasera abbiamo ritrovato un piccolo capolavoro, cosa che sapevamo già ma che fa sempre piacere ricordare. Nel Dvd ci sono trailer e spot promozionali, tante scene tagliate (abbastanza ragionevolmente: avrebbero appesantito), alcune interviste dell’epoca, una marea di errori (esilaranti e che rivelano sia la libertà di improvvisazione e interpretazione sia, in alcune scene, i tentativi registici in campo e controcampo poi risolti con più economici totali) e una interessante intervista a Gene Wilder che sembra il fulcro di tutta l’operazione, dalla concezione sino alla messa in scena. Per conto mio Mel Brooks non ha mai avuto la mano così felice. Blücher! (Dvd; 25/3/03)

ddv3208.jpg367 — Essere e avere del paraculo Nicolas Philibert, Francia 2002

Caso clamoroso in Francia, accolto da critiche esagerate qui da noi, il documentario Essere e avere — chiarisco subito — c’è sembrato caruccio, ma sinceramente niente di speciale. Attraverso il passare delle stagioni vediamo il paziente lavoro di un maestro in una scuola elementare della profonda campagna francese. Il maestro è bonario ma severo, in certi casi anche un po’ nazi. Insegna a una classe mista, con bambini di diverse età. L’occhio indiscreto della cinepresa raccoglie relazioni, liti e simpatie, elevando a protagonisti alcuni splendidi frugoletti. Ci sono tanti sottotesti molto esili (la vita del maestro, le famiglie, l’ironia sullo studio in senso puramente pragmatico — vedi il futuro allevatore che impara a contare), ma viene fuori soprattutto la fatica sia dell’insegnamento che dell’apprendimento. Un omaggio all’innocenza degli scolari e al lavoro — troppo spesso sottovalutato — di chi deve insegnar loro. Poi il film, va detto, si gode anche per altre cose. Riprendere dei bambini è — matematico — una delle cose più divertenti che esistano: i protagonisti non hanno filtri, paure, ipocrisie, dicono quello che pensano. Ed Essere e avere funziona bene sinché i protagonisti sono piccoli, tanto da dimenticarsi la presenza della cinepresa. Quelli più grandi sono in imbarazzo e almeno tre volte — quando piangono — ho provato imbarazzo per la gogna cui erano sottoposti. Oppure reagiscono con furbizia, giocando con l’obbiettivo (è il caso del bimbo panzone). Mi hanno un po’ infastidito alcune lungaggini poeticizzanti (i colori della natura che si alternano per far vedere il tempo che passa) o le scene completamente artificiose (la bambina che si perde nei campi): i “rifacimenti” (cioè scene recitate dai protagonisti come se fossero spontanee) ci sono e sono pure evidenti. Ora, per il gusto di provocare: lavoro in tivù e non è per difendere la categoria di colleghi con cui litigo già tutti i giorni, ma spiare i bambini — anche se su pellicola — non è comunque una variazione intellettualistica e un po’ ipocrita dei tanto esecrati reality? Lo ha fatto Bonolis e s’è gridato allo scandalo. Perché Essere e avere è accettato senza invocare privacy e rispetto della spontaneità infantile? O basta il medium differente e tutto diventa lecito, anche quello che in tivù è merda? Quante domande ficcanti tengo qui, dentro mio culo, eh? (Cinema Nuova Orchidea, Milano; 28/3/03)

ddv3209.jpg368 — La frusta e il corpo dell’esagerato Mario Bava, Italia 1963

A Natale la cugina Alessandra mi ha regalato un cofanetto americano con tre storici film di Mario Bava in Dvd, introvabili in Italia. Finalmente troviamo il tempo per una visione comune e ci scoppiamo il primo, La frusta e il corpo, film strambo a dir poco, ricco di implicazioni oniriche e sadomasochistiche, sicuramente sconcertanti per l’epoca in cui venne girato. D’altro canto la trama è mica così geniale, anzi: trasuda melò e l’intreccio è insistito, noiosetto e ripetitivo. Ma ci sono le frustate (stchaak!), l’estasi sadica (brrrr!) e l’amore folle (aaaaah!): un mix allora probabilmente molto osé e che oggi fa sorridere. Cinema come eccesso (di colore, di passione e di follia); scenografie esagerate, musica svenevole di Carlo Rustichelli e recitazione — per contrasto — quasi immota, con Christophe Lee ieratico ed eburneo e la a me sconosciuta Daliah Lavi totalmente marmorea e con gli occhioni sgranati. Melodramma e horror in un mix affascinante: visto! (Dvd; 29/3/03)

ddv3210.jpg369 — La regola del sospetto dell’inspiegabile Roger Donaldson, USA 2002

La domenica sera, sfasciato dal lavoro tivù che mi tocca, mi bevo qualunque cosa e così, anche per onorare un concilio familiare (lato Barbara), mi scoppio questa schifezza insostenibile. James (la faccia da schiaffi Colin Farrell) è un super laureato al Mit — che fa il barista?! — e viene assoldato nella Cia dal veterano Walter Burke (un Pacino meno gigione del solito). Reclutamento, addestramento e prima missione con la fondamentale regola da rispettare: non fidarsi mai di nessuno. Fiacco come un tubolare sgonfio, il film vorrebbe intrattenerti con ripetuti colpi di scena (ogni volta rovesciando la tua aspettativa su chi sia buono e chi cattivo). Ma l’unica cosa che avrebbe dato un senso al film (e cioè che il protagonista fosse una spia nemica di cui sospettare anche noi) non passa manco per scherzo nella testa degli sceneggiatori che ci regalano una pellicola fascista, pro Cia, con l’inscalfibile motivazione che noi siamo i buoni e loro i cattivi. Punto. E per “loro” s’intendono tutti quelli che non sono d’accordo con la politica USA. Aberrante ideologicamente, ‘sto film è una deflagrazione diarroica licenziata dal regista che ci aveva regalato il tosto Senza via di scampo (ma anche l’imbevibile Cocktail con Tom Cruise). Qui niente tensione o ritmo. Semmai prolisso, involuto, per nulla interessante, con due o tre inquadrature storte per far credere di essere dei registi creativi e la musica pompata a volume bestiale per rafforzare i colpi di scena che non ci sono. Intanto nella realtà, gli iracheni non ci stanno per niente a farsi brasare dagli yankee e la guerra lampo potrebbe tornare in quel posto a chi l’ha dichiarata, trasformandosi in guerra sporca, lunga qualche annetto, vedrai. Sarebbe il peggio del peggio, ma mi mangio il cappello se non ho ragione, quack! (Cinema Orfeo, Milano; 30/3/03)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 32)