di Danilo Arona

DeFeoIsola.jpg1) Storie in circolo sul Mare Nostrum. Isole fantasma, isole sognate. Le raccontano marinai e pescatori quando le imbarcazioni sostano in rada. Le raccontano (e le sognano) quando cala il buio.
Quelli che il mare lo conoscono e lo conoscono lo sanno che il mare può diventare maligno. Negli ultimi anni lo è ancor di più per effetto delle migliaia di migranti, trasformatisi in spettri dei fondali, giù, tra l’Africa e Lampedusa. Nel mare maligno a pochi eletti si mostrano i Luoghi di Potere, le isole inesistenti.
E’ il gotico mediterraneo, un pianeta affascinante che da tempo immemore anni pochi scrittori riescono a delineare. Cogliendone una delle essenze — in parte riferentesi al gotico tradizionale -, ovvero quella del luogo chiuso. Perché il Mediterraneo è un mare chiuso. E l’isola è un luogo chiuso. E i sogni, come gli incubi, sono non-luoghi chiusi e confinati dai quali non si può uscire se non con un salto dimensionale.

Per secoli le isole fantasma dei mari aperti hanno rappresentato gli spauracchi degli uomini di mare che si sono lanciati, oltre Gibilterra, a esplorare il mondo. Ma dopo secoli si ritorna. E si ritorna dentro il mare chiuso con l’anima offuscata, terrorizzata, dalle dicerie sulle isole fantasma.
Così che ancora oggi può capitare che qualcuno sogni di un’isola fantasma. Che non c’è.
Il gotico mediterraneo si nutre anche di questo particolare tipo di spettro: la voce — la sirena — che diviene leggenda, di bocca in bocca. E’ il vero Genius Loci della distesa acquea — perché, attenti, oggi nel 2011, l’elemento primario più adirato con l’umano genere è proprio l’Acqua. Mezze storie oscure e sinistre, deframmentate e nascoste nei diari di viaggio. Il pagano che ritorna, spesso in forma di deità sommersa — imbestiando nella Luce Oscura — per contrapporsi all’abbagliante nitore dell’Illuminismo. L’Antico riemerge perché l’Acqua è antica, primordiale, madre e assassina. Come scrisse Stefano Moretti a proposito di un’esemplare raccolta antologica curata da Massimo Scotti, nei testi scelti dal curatore – Spiriti elementari di Heinrich Heine, La Venere d’Ille di Prosper Mérimée, Arria Marcella di Théophile Gautier, L’ultimo dei Valerii di Henry James e Dionea di Vernon Lee, pubblicati tra il 1837 e il 1890 -, leggibili nel loro insieme come apologhi sul confine e sulla “breccia” che vi si può aprire, si staglia con evidenza il mito di Pigmalione e della sua statua Galatea.
«In questa presenza ossessiva — scrive Moretti – Scotti legge il sintomo di un trauma antico: la rimozione cristiana del paganesimo e delle sue divinità femminili. Il ritrovamento e il disseppellimento di un idolo, esordio della Venere d’Ille di Mérimée ed episodio centrale di quasi tutti i testi analizzati, corrisponde quindi a una freudiana “emersione del rimosso”; i viaggiatori del nord Europa, “discendenti dei barbari”, trovano nei loro viaggi mediterranei un paesaggio non menzionato dai Baedeker: una “mitologia modificata dal passaggio del cristianesimo e le tradizioni locali” che si rianima nelle sembianze spaventose e affascinanti di Veneri e Giunoni vendicatrici, di statue che si rianimano per uccidere. Il motivo pigmalionico è scelto a campione da Scotti, in questo pregevole e curatissimo saggio, perché porta in sé tutti i caratteri del gotico mediterraneo: la femminilità perturbante, la corporeità, la repressione e la sostituzione degli antichi culti operata dal cattolicesimo, di cui resta traccia nei ruderi o nelle chiese italiane. Esso è però solo la spia di una più ampia nostalgia delle origini che anima i romantici e decadenti “turisti” dell’Ottocento; nel desiderio di un impossibile ritorno all’età dell’oro, utopia di un mondo libero dalle restrizioni della morale cattolica, James vede riflessa la condizione del personaggio letterario alle soglie del modernismo: Marco Valerio, protagonista del suo racconto, non riconoscendosi “nel ruolo che gli concede la fiction a lui contemporanea” si ostina a credersi “ultimo dei Valerii” e al tempo stesso attuale, classico e moderno.»

2) Giovanni De Feo, scrittore (e non solo) nonché sognatore di un’isola-Neverland che si definisce “dei Liombruni” (più in là vi diremo chi sono…), attira splendidamente su di sé e la sua seconda opera (la prima è l’ottimo Il mangianomi, edito da Salani) tutte le tracce sino a oggi abbandonate — sul mare – dei nocchieri del gotico mediterraneo.

«Un mondo mitico”, ha scritto De Feo, “può essere riconoscibile. Per me questo luogo-mito è il Mediterraneo, con i suoi profumi accecanti, i suoi sapori splendenti, le sue dolci asprezze. Perché L’isola dei Liombruni è una storia fantastica ma si svolge sotto un solleone che scandisce amicizie e amori come li abbiamo conosciuti nel nostro quotidiano estivo. In questo contesto prende vita un’ideale di purezza adolescenziale: non scendere a compromessi con nulla che possa uccidere i propri sogni. Anche qui si tratta di sogni “alla lettera”, non metaforici. L’isola del romanzo è infatti letteralmente sognata da migliaia di bambini che ogni vent’anni, all’unisono, dormono e vivono nel sonno una storia atroce, amorale perché innocente come può esserlo solo il sogno di un bambino: l’eccidio di tutti gli adulti dell’isola.
È la Carnara, il rito di una feroce spensieratezza che non vuole arrendersi alla fine dell’adolescenza, di un’estate che si vuole perenne. Né questo è il solo “rito” sull’isola: ci sono le battaglie campali tra i Baroni e le gare di abilità, i “certami” – mortali duelli tra rivali — e lo “struscio” serale e il corteggiamento cantato dai balconi, un andirivieni incessante attraverso una topografia fantastica con le sue grotte di morti, gli antri dove profetizzano sibille bambine, scale con leoni di pietra animati e feroci, una vera mappa mitica con i suoi sentieri e le sue tappe obbligate.
Il romanzo è costruito dunque su diversi livelli: c’è quello reale di un’isola estiva e vacanziera nella quale si innesta la rivalità d’amore dei due protagonisti, Smiccio e Zenzero; c’è il mondo spietato delle battaglie tra i ragazzi più grandi, i Baroni, che si stanno spartendo l’isola e rischiano di distruggersi a vicenda; c’è la guerra perpetua tra adulti e ragazzi, nemici come fossero due specie diverse, entrambi sognatori di quel mondo; c’è infine “Il Sogno” collettivo cui appartengono Scalzi e Sibille, gli dei-bambini che portano l’isola al suo ragnarok: la caduta degli dei e la fine del tempo. Queste erano le suggestioni che mi interessava evocare: meraviglia e terrore; emozioni legate alle due pulsioni fondanti della fiaba, desidero e paura.
Nel romanzo, molte di tali pulsioni hanno a che vedere con la conoscenza dell’altro sesso. È infatti a causa dell’amore che i due ragazzi protagonisti sono costretti a superare le proprie rivalità e oltrepassare -sempre alla lettera- i confini dell’isola e del sogno collettivo. Sono emozioni, queste, che ci parlano dalle radici del sangue, le radici della tradizione favolistica che nella nostra lingua non sono mai diventate epos nazionale, come l’Edda o il Kalevala, i grandi poemi della tradizione germanica e finnica, ma che pure hanno percorso tutto il nostro immaginario. (…) È strano pensare come l’invenzione del gotico passi attraverso un esotismo che ha come sfondo privilegiato proprio il nostro Sud. Non a caso il primo romanzo gotico si chiama Il castello di Otranto; perché nell’Italia mediterranea e medievale gli scrittori inglesi del XVIII secolo vedevano il teatro ideale di quelle passioni dirompenti che erano inconcepibili su uno sfondo inglese. Per questo autori come la Ortese o Landolfi, quando si concedono al fantastico, si rifanno ad autori della tradizione romantica, perché il gotico e il fantastico scritti in Italia presuppongono uno straniamento. Bisogna, in altre parole, vedersi come una terra straniera, vedersi daccapo, come non ci si è mai visti, per scrivere “fantastico italiano”. (…) Ne L’isola dei Liombruni questo straniamento avviene attraverso il punto di vista di un’adolescenza che non nega ai suoi terrori di camminare vivi sotto il sole, che non vieta alla sua meraviglia di prendere carne e ombra, che non rifiuta la ferocia di chi si sa destinato a non durare, che sfida il mondo degli adulti con tutta la passione di chi si sente sentire per la prima volta, e all’eternità di quel primo sentire non vuole rinunciare.»

3) L’Isola (che non c’è) è un genere, anzi un affascinante sottofilone parassitario che vaga tra i generi pop, tanto in libreria quanto al cinema, da quel bel dì. Se n’è accorto persino George Romero che ha ambientato il suo ultimo capitolo dell’esalogia sugli zombie sull’isola (che c’è) di Plum Island, un contenitore suggestivo in grado di tenere in piedi il più strampalato dei plot. Ma, a monte delle isole più “classiche” che ci hanno movimentato l’infanzia (L’isola misteriosa, L’isola del tesoro, L’isola del dottor Moreau, alle quali aggiungerei per purissimo gusto personale l’Isola del Teschio di King Kong), da molti anni l’immaginario fantastico non poche volte ama dispiegarsi in funzionali set che sono certamente delle “Isole” da un punto di vista descrittivo, ma sono in primo luogo dei luoghi della mente, quando dei “non luoghi” oniricamente condivisi.
Qualche titolo fra piccolo e grande schermo, esulando dai gusti e dall’oggettiva qualità: Lost e Harper’s Island, The Beach di Danny Boyle, The Island di Michael Bay, Island of the Damned di Elizabeth Dimon, Shutter Island di Michael Scorsese, e, in tempi più antichi, The Wicker Man di Robin Hardy, Nothing But the Night di Peter Sasdy e American Gothic di Hohn Hough. Per non dimenticare qualche stupenda incursione letteraria, non solo di genere (L’isola di Arturo di Elsa Morante, Lucarelli con L’isola dell’angelo caduto, Saramago con Il racconto dell’isola sconosciuta, Michael Houellebeck con La possibilità di un’isola, Dennis Lehane con L’isola della paura che ha ispirato il succitato film di Scorsese…). E fra i nostrani nocchieri dentro il genere: Prigioniero del buio di Paolo Di Orazio, Uomini senza vento di Simone Perotti, L’isola degli uomini superflui di Stephano Giacobini, Isola nera di Piergiorgio Cara. E il – da poco ritrovato – romanzo di Morgan Perdinka Malapunta, in cui il sogno condiviso dell’Isola Inesistente porta il mondo all’Apocalisse.
Su tante “isole nella corrente”, perlomeno quelle di ambito moderno, è lecito pensare che si stagli un poderoso faro illuminante e ispirativo siglato William Golding, Il Signore delle Mosche scritto nel ’52 e vampirizzato da Stephen King come sottotesto significante della sua narrativa — Castle Rock, la zona proibita del libro che nei libri del Re diventa il nome del suo “villaggio del male” — e del quale non dovrei ricordare nulla, se non l’inossidabile ombra archetipica che ne fa la Prima Sede delle rivolte dell’infanzia che verranno (dopo il ’52). Castle Rock, riproposto nelle prime traduzioni italiane come “Il Castello”, indica il luogo di potere, un traslato in piccolo della stesso tòpos dell’Isola. Per la precisione: “il punto della spiaggia dove si affrontano nel penultimo capitolo del libro — intitolato appunto, Castle Rock — il gruppo dei ragazzi ‘civili’ e la banda dei ‘selvaggi’ in uno scontro che porterà alla distruzione della bianca conchiglia magica, simbolo dell’autorità ‘legale’ e alla tragica morte del disgraziato Piggy, già derubato dei suoi occhiali.
Un’ulteriore conferma di come il romanzo di Golding sia ben presente come Ombra nell’immaginario fantastico e di come sia comunque centrale nella formazione dell’ideologia kinghiana è rintracciabile non tanto, in forma esplicita, nel saggio Danse Macabre dove il nostro segnala al lettore anche il romanzo di Golding tra le sue letture particolarmente importanti, quanto nel romanzo Misery. In questa sorta di grottesco e amaro apologo sulla condizione dello scrittore, nel quale King si è impegnato a scrivere un metaromanzo mentre ci racconta la nota vicenda dell’infermiera assassina e psicopatica, si trova un ricordo d’infanzia che lascia con evidenza trasparire un momento autobiografico. Lo scrittore Paul Sheldon, ennesima proiezione cartacea di King medesimo, racconta di avere concluso, dodicenne, la lettura de Il Signore delle Mosche in un torrido pomeriggio d’estate e di essere stato colto, immediatamente dopo, da un violento malessere cui era seguito un vomito irrefrenabile.
Si potrebbe obiettare che tutto questo non sia poi così pertinente al romanzo di Giovanni De Feo L’isola dei Liombruni, un poderoso lavoro fantastico ambientato, appunto, in un’isola del Mediterraneo, dove i bambini hanno fatto “Carnara” degli “Alti” (gli adulti), ovvero li hanno proprio fatti fuori e a quei pochi che si sono salvati viene riservato il privilegio della Caccia. Ma altri dirimpettai potrebbero argomentare che proprio nel Mediterraneo, a metà degli anni Settanta, c’era di già stata un’isola di nome Almanzora dove i bambini locali avevano effettuato analoga matanza (Ma come si può uccidere un bambino? di Narciso Ibaņez Serrador) che ancora King aveva “citato”, o forse qualcosa di più, per il suo metafilmico racconto Children of the Corn.
In verità, dopo essermi fatto scrutatore per altrui conto dei materiali che di sicuro convivono nel profondo del magazzino produttivo (un’operazione che uno scrittore dovrebbe evitare, quando può — ma in questo caso forse non lo si può fare proprio per motivazioni che suonano come lode per De Feo), me ne fuggo per farmi avvolgere dal vento, oscuro e violento, respirandolo a pieni polmoni, dell’Isola senza nome dove il Mito e il Sogno accumulano con chirurgica ferocia la morte dell’infanzia, l’accecante e infinita estate mediterranea, i giochi crudeli che prolungano l’iniziazione all’infinito e il sangue dell’orgia primordiale.
De Feo, saggiamente, evita il confronto con i generi pop. Anzi, immerge i suoi materiali nel Genere che, per definizione, li contiene tutti, la Fiaba che vede sì dei bambini protagonisti, ma che tutto sommato non è a loro destinata. Il risultato di questo Sogno Collettivo e Condiviso sul quale pesa l’ineludibile confronto con la realtà che avanza e che incrina l’oneiros, è un libro appassionante e spietato che ci ricorda, all’unisono con una cronaca dalla quale non siamo quasi più in grado di trarre auspici, che l’infanzia può essere al contempo — e senza contraddirsi — un pianeta al contempo tenero e spaventoso. Perché, citando l’amica Ombretta Romei, questi ragazzi “non vogliono incagliarsi nell’adultità della veglia, in quella nostalgia che, impietosa, li attende quando l’estate è finita davvero”.
A questo punto giunto, non commetterò il peccato mortale di raccontarne la trama. Ma mi limiterò a segnalarne alcune strepitose invenzioni, in parte già anticipate da De Feo, che non scoprono nulla, ma “buttano dentro”, come si dice in gergo editoriale. Intanto, i Liombruni del titolo che sono animali ibridati fra un gatto e una donnola, con dei grandi occhi d’oro risplendenti nel buio, e che sono sacri e intoccabili in virtù di un certo patto segreto (il nome proviene da una fiaba lucana riportata da Italo Calvino in una celebre raccolta ); quindi il Dio sommerso che vive nelle profondità marine, l’Antico primordiale, che spinge i ragazzi a compiere la Carnara, il bagno di sangue in cui hanno trovato la morte quasi tutti gli adulti; la Notte come tempo innaturale che può protrarsi per giorni e giorni; la Breccia, al tempo stesso confine dell’isola e del sogno e, come denuncia lo stesso nome, non così invalicabile: il verbo “imbestiare”- di cui abbiamo amichevolmente usufruito all’inizio — che De Feo applica alla modificazione che avviene nei bambini quando s’identificano con uno dei tanti aspetti dell’isola, con la pelle e gli occhi che cambiano colore e i piedi si trasformano in vetro…
Insomma, gotico mediterraneo. Noi ci crediamo. E puntiamo su De Feo e sul “genere” (che forse non è tale perché la Breccia lo delimita come un sogno). Lo facciamo perché da quell’acqua (maligna) siamo circondati. E dovremmo sul serio cominciare a temerla. Così come dovremmo prestare attenzione alle Isole Inesistenti. E orecchio alle Sirene.

PS. Esiste un sito dedicato al romanzo, qui.