di Baptiste

Misurata.jpg[Discutere di Libia non è tanto facile. Chi a sinistra sostiene i ribelli rischia di sembrare favorevole all’intervento militare della Nato. Chi appoggia Gheddafi trascura gli ultimi dieci anni del dittatore, il liberismo spinto, i migranti sottoposti a mille vessazioni, l’amicizia poi tradita con Berlusconi e Sarkozy. Eppure l’editoriale di Serge Halimi su Le Monde Diplomatique di aprile avrebbe dovuto fare chiarezza. E, sul piano politico, la presa di posizione di Le Monde Libertaire è sintetica e limpida. Quanto alle cronache, nessuna superava per qualità di informazione quelle scritte da Baptiste (omettiamo il cognome per motivi vari) e da altri compagni libertari per il sito En Route. Purtroppo Baptiste è stato gravemente ferito a Misurata. Sperando con forza che sopravviva, riportiamo i suoi ultimi reportage dal campo di battaglia. Demoliscono ogni luogo comune.] (V.E.)

Lo stato dei combattimenti lungo Tripoli Street (12 aprile 2011)

Oggi martedì 12 aprile, a Misurata, dopo un mese di combattimenti attorno a Tripoli street, gli shebab hanno lanciato un’offensiva contro il Tamina building. Passo dopo passo gli insorti riprendono il controllo del centro città. RPG o bottiglie molotov contro carri armati e blindati, accanimento e conquista quotidiana degli edifici tenuti dai cecchini, chiusura e strangolamento delle posizioni dei gheddafisti.

Per arginare stronzate blaterate da alcuni giornalisti recentemente sbarcati — tipo France 24 o AFP — è importante ricordare che le forze lealiste circondano la città da sei settimane, bloccando tutti gli accessi via terra, le truppe sono in una parte della città, Tripoli street, un’arteria che collega l’asse Tripoli-Bengasi al centro di Misurata. Una posizione che stanno perdendo. Tutto il resto della città è dei ribelli: la centrale elettrica, la fabbrica di desalinizzazione da dove partono i camion di approvvigionamento acqua, il porto e i magazzini. Certo vive grazie alla sue riserve, ma Misurata vive. Ha l’odore della polvere, quella di una città che resiste. Le esplosioni delle bombe danno un ritmo alle notti, ma le grida degli insorti riempiono i vicoli. E’ una guerra asimmetrica, ma una cosa è chiara, in ogni quartiere e in ogni testa: qui non vogliono truppe straniere, vogliono armi. Non sono miseri, gli shebab, sono fieri e hanno una forza invincibile perché non hanno paura della morte: i 42 anni passati ricordano loro il senso della loro battaglia. Libereranno Misurata, oppure ci moriranno.

All’inizio delle sollevazioni di Misurata, i partigiani della rivoluzione si ritrovavano in una piazza del centro che ormai è deserta: di fatto è resa invivibile per la sua vicinanza al principio di Tripoli street, dove i mercenari tengono la loro posizione principale.
Un mese fa una colonna di settecento uomini ha tentato di prendere Misurata. Il contrattacco della popolazione ha circoscritto l’occupazione a questa via. In seguito la devastazione da parte dei carri armati e l’efficacia dei cecchini hanno trasformato la via in un paesaggio apocalittico.
Il 21 marzo, cinquemila persone marciavano, disarmate, sul viale per recuperare i loro morti. Quel giorno, gli spari sulla folla hanno ucciso quaranta persone e ne hanno ferite altre duecentocinquanta. Questa marcia, questo gesto folle, era ancora un ingenuo tentativo di rompere il dispositivo militare impiegato. Di fatti un pugno di carri armati e dei cecchini imboscati riesce ancora — contro la totalità della popolazione — a fare di questa zona una posizione di forza.
L’urbanistica, che appare d’eredità allo stesso tempo haussmaniana e postmoderna, rivela tutta la sua efficacia. La larghezza dell’arteria si presta più facilmente al movimento dei blindati che alle barricate degli insorti. Offre una gigantesca linea retta per i carri armati, permette posizioni di sostegno alla ritirata dall’esterno della città fino al pieno centro. Sui due lati si dispiega il classico ambiente di tutti i centri città: spazi nudi e spogli sovrastati da edifici per lo più vetrati. Pochi nascondigli, pochi angoli ciechi: l’avanzata avviene allo scoperto. I cadaveri di chi ha preteso attraversare questi larghi spazi per accedere alla base di alcuni edifici ricordano crudelmente che tutto è disposto affinché non succeda nulla.
Però, da quest’arteria che attraversa la città, i lealisti non ottengono solo vantaggi. Dal punto di vista strategico, gli uomini di Gheddafi hanno tutte le condizioni materiali favorevoli all’utilizzo della forza e dell’organizzazione militare, rispetto all’inesperienza e alla confusione degli insorti. Nonostante questo iniziano a mostrare dei limiti. La mobilità offerta dalla via significa anche un’esposizione al logoramento quotidiano degli shebab. Ora che tutto ciò che c’era è stato distrutto e che il numero dei cecchini è ridotto della metà, la via costituisce un fronte limitato ed è piuttosto diventata un ostacolo per le forze lealiste. La distruzione dei dintorni disturba più la loro avanzata che quella dei ribelli e l’uso dei blindati e dell’artiglieria pesante diventa delicata nei vicoli che circondano la zona. Le forze di Gheddafi hanno tutto l’interesse a conservare una posizione di chiusura alle porte della città e a incrementare le offensive sulla zona del porto, come nei giorni precedenti.

Nei dintorni lo svolgimento dei combattimenti ha trasformato la zona in un groviera, in cui ogni piccolo nascondiglio appartiene ad uno o all’altro schieramento. Sono talmente vicini che talvolta solo un edificio o addirittura un solo muro separano i combattenti. Alcuni cecchini, con il favore della notte o di un carro armato, cambiano posizione sulla via per proteggersi o per sorprendere e mettere in difficoltà gli shebab. Quest’ultimi valutano quindi i cambiamenti di posizione del nemico in base ai colpi che subiscono. Dopo aver distrutto o danneggiato tutti gli edifici strategici della via, i mercenari cercano di aggiustare il tiro cercando di intuire le basi e le differenti posizioni nemiche della zona.
La conoscenza del territorio e il suo utilizzo da parte degli shebab mette in scacco la superiorità militare del nemico. L’architettura è sovvertita e messa al servizio degli spostamenti o delle offensive. I vecchi mercati coperti sono utilizzati per coprire gli spostamenti, infatti sono formati da un dedalo di corridoi — dove sono disposti allineati diversi negozi e accessi ai piani abitativi — collegati tra loro e che attraversano interi isolati. La disposizione forma una specie di labirinto all’interno del quale nessun nemico oserebbe avventurarsi. Il rivolgimento dello spazio genera nuove riconversioni. La vecchia distinzione tra interno ed esterno, luoghi pubblici o privati, non esiste più. Ogni edificio diventa un potenziale punto di controllo, protetto, su Tripoli Street.

Il box del vicino è diventato ormai il luogo dove si mangia insieme o dove si preparano il tè come le armi. In un altro, più nascosto, è stato allestito un piccolo ospedale di fortuna: tre letti, degli scaffali riempiti di medicinali di prima necessità. Le ambulanze permettono di portarci gli shebab feriti. La tromba delle scale diventa una camera dove dormire in una decina, quando non si fa la guardia nell’appartamento vicino. Le finestre e altre aperture originarie sono coperte od oscurate, mentre vengono aperti dei buchi nei muri per scrutare con il binocolo o infilare la canna delle armi. Vengono abbattute anche delle pareti per permettere la circolazione interna tra un’abitazione e l’altra.

Talvolta la sopravvivenza di un gruppo di shebab o la cattura di alcuni cecchini è stata più questione d’intuizione architettonica che di armamento: si è dovuto abbattere con le bombole del gas i primi piani di alcuni edifici, sia per proteggere le retrovie dalle incursioni notturne che per assediare una posizione nemica.
Nonostante i cecchini appostati sugli edifici, le forze di Gheddafi non hanno un controllo panoptico della zona. Le due fazioni sono costantemente in allerta, concentrate su ogni movimento; acquisire una posizione intelligente necessita un’attenzione costante. Bisogna scegliere rapidamente i passaggi allo scoperto: quali e per quanto tempo sono esposti. Come muoversi? Da che lato della strada avanzare, quale strada imboccare per restare coperti durante l’avvicinamento a un edificio? Sapere quando è il caso di correre oppure di avanzare in punta di piedi, senza gesti bruschi, da soli o in gruppo.

Gli shebab, se inizialmente si limitavano a incursioni nelle vie circostanti, ormai riescono a mettere in difficoltà le forze lealiste sulla stessa Tripoli street. In questi ultimi giorni, in più luoghi, è stato possibile piazzare di traverso sulla strada container o tir carichi di sabbia e rocce. I guidatori partono a tutta velocità da una via laterale e, all’ultimo momento, quando arrivano allo scoperto, saltano dal veicolo. Alcuni partono in imboscate nei dintorni, armati di molotov, fucili o RPG. Quando un tank si si avvicina ad una barricata per abbatterla, i panni e le coperte stesi al suolo e imbevuti di benzina si incendiano sotto i cingoli. Bastano poi le molotov per dare fuoco al veicolo. I primi colpi di RPG sono diretti sugli assi dei cingoli, in modo da immobilizzarlo.

Nonostante l’organizzazione, la superiorità della potenza di fuoco e la capacità di reclutamento, l’armata di Gheddafi ha una grande debolezza. E’ composta da numerosi autoctoni fedeli a Gheddafi ma anche da mercenari stranieri, attirati dal guadagno, oppure da individui — a volte molto giovani — arruolati a forza. In realtà, dunque, è un’esagerazione parlare di “armata lealista”: una parte delle sue truppe non è fedele al potere né sente la guerra come sua. Questo è evidente nella loro scarsa capacità d’iniziativa, una volta privati del comando o nella remissione nei momenti più critici.

Invece, la maggior parte degli insorti combatte nel quartiere dove è cresciuta, a fianco di un fratello, un vicino o un amico d’infanzia. Anche se molti dicono di combattere per un’idea di “libertà” talvolta abbastanza vaga, il prezzo pagato durante i primi giorni della rivolta ha segnato per sempre la determinazione con cui molti si impegnano in questa guerra. Molti abitanti sono fuggiti dalle zone vicine a Tripoli street. Quelli rimasti non sono tutti armati né partecipano agli scontri, però la loro presenza è già un gesto contro il tentativo di occupazione del centro di Misurata. Ci si vive sia per combattere che per rifiutare la sconfitta, riconoscendo inabitabile il quartiere. Il “non negozieremo il sangue dei nostri martiri” ha più senso in bocca a qualunque abitante di Misurata che in quella del nuovo governo. La forza degli insorti, però, non può essere ridotta a un insieme di rapporti di amicizia o ad una fede.

Esiste un luogo a Misurata che serve da coordinamento tra le diverse zone di combattimento. Giorno e notte, in questo quartier generale, un accampamento fatto di container, vivono degli uomini. In uno di questi container è installata una cucina di base: ridendo ce ne parlano come di un ristorante. In un altro, su dei materassi sfondati, si beve del tè, si discutono le notizie, si guarda Al-Jazeera. La “sala delle operazioni” di notte viene trasformata in camera da letto. Al primo sguardo questo luogo è lontano dall’idea che si può avere di un centro militare.
Quello che viene indicato come il capo si presenta come lo “lo sceicco di una grande famiglia”, quella degli insorti. Sono l’età e l’esperienza a conferire a lui, come ad altri, un autorità quando si parla di strategia. A prima vista c’è una gerarchia a determinare i rapporti, ma l’amicizia sembra essere in grado di neutralizzare la passione per il potere.

La sera le discussioni sono continuamente interrotte dalle notizie in arrivo. Gli uomini ritornano dalle diverse zone di battaglia. Per ovviare all’assenza di mezzi di comunicazione vengono disposti dei regolari spostamenti tra i posti di combattimento e il quartier generale, in questo modo ci si tiene aggiornati, si pensano nuovi attacchi e si risponde ai bisogni. Viveri e armamenti non sono lasciati al caso: partendo da qui degli uomini si occupano di acquistarli, convogliarli e distribuirli nelle diverse zone.

Nella notte tra sabato e domenica è stata pianificata un’operazione coordinata per tagliare Tripoli street che ha permesso di isolare il Tamina building dalle sue retrovie e di rendere innocui due carri armati, un autobus e due macchine di mercenari venuti in appoggio. Questo martedì sera, si volevano neutralizzare gli ultimi cecchini imboscati nello stabile circondato. Sul tetto la bandiera della “Libia libera” ha già sostituito quella verde che ci sventolava da più di un mese.

Misurata: incontro con un fruttivendolo e un armaiolo

Misurata è una città la cui attività economica si basa essenzialmente sul commercio e l’industria. E’ una città abbastanza ricca, senza un ruolo politico particolare, rimasta molto attaccata alle tradizioni. Non interviene direttamente nello sfruttamento né nella vendita del petrolio. La forza di Misurata proviene dal suo complesso siderurgico (il più grande dell’Africa settentrionale) e dalla sua attività commerciale. E’ il più grande porto del paese. Un porto aperto su un mercato interno molto florido, sostenuto dai soldi del petrolio.
La città si è sollevata diversi giorni dopo Bengasi, in risposta alla repressione durante le manifestazioni. Mentre la città ha sempre approfittato delle elargizioni del regime nel suo sviluppo economico, hanno anche partecipato alla rivolta quelli che approfittavano ampiamente del sistema, come i commercianti che importavano per conto di Gheddafi prodotti a buon mercato dal mondo intero, come i famosi pick-up cinesi della rivoluzione. Ormai, sono gli stessi commercianti che pagano gli spazzini, forniscono i telefoni satellitari e gli accessi a internet, più numerosi e più potenti di quelli di Bengasi.

Uno che venisse a Misurata avrebbe certamente l’impressione di assistere a uno spettacolo familiare, per averlo già visto alla televisione o sui giornali: una città disarmata, assediata da un esercito potente, bombardata dall’artiglieria e paralizzata dai cecchini. Su questa scena, dove ogni elemento si trova al suo posto, la NATO non riesce a far tacere l’artiglieria. Altri attori, come i cecchini serbi, chiamati da Gheddafi, conservano gelosamente i loro posti. Quello che era Sniper alley a Sarajevo si chiama Tripoli street a Misurata. Il tunnel sotto l’aeroporto si estende ormai fino al mare e permette di trasportare da Malta o da Bengasi tutto il necessario, sotto lo sguardo complice della NATO. A Misurata come nell’est, la guerra non ha fine e si aspetta la caduta di Gheddafi, che pare ogni giorno meno probabile. A Misurata, si dorme male. Quello che riesce ad addormentarsi nelle case sovrappopolate di cugini o di amici, o nelle scuole allestite a dormitori in fretta e furia sarà probabilmente svegliato verso le tre del mattino dai colpi di mortai o carri armati, sparati a caso sull’intera città. Nei campi profughi la situazione è molto più drammatica. Quello che riesce ad addormentarsi con la pancia vuota sarà svegliato dal freddo o dalla pioggia. Certe notti le esplosioni e le sparatorie non cessano. Sul fronte dell’est, una tale situazione farebbe fuggire chiunque verso una zona più sicura. Però qui non ci sono zone più sicure. Quando un amico mi spiega che questi echi provengono da Tripoli street mi sento rassicurato.

Se in alcuni quartieri si mangia bene e si è al sicuro, è dovuto all’ingegnosità e al coraggio quotidiano dei Libici e degli stranieri. Ecco due esempi di questo spirito di Misurata. Li ho scelti volontariamente tra i non-combattenti. Perché qui non ci sono “avanguardie” e “retroguardie”. I rischi, le sofferenze, il lavoro: tutto è condiviso.

L’esperto in armi

Il primo esempio è quello dell’esperto in armi. L’ho incontrato in una fabbrica di blindati. E’ un anziano, un po’ pazzo, ex-militare, che oggi fa il capo degli armaioli. Mi porta nella loro fabbrica di bombe. E’ una vecchia casa, costruita più di un secolo fa, rovinata qua e là, molto distante dalla città. Nessuno ci vive. Gli esplosivi sono spartiti il più possibile in varie stanze. All’inizio, dovevo visitare un’altra fabbrica, ma quest’ultima è ormai nella zona occupata dalle forze nemiche. In quella che sto visitando quattro uomini sono già morti a causa di esplosioni accidentali. L’anziano mi fa vedere le materie prime che usano: casse di dadi, munizioni di carri armati o di mortai. Nell’officina prende una lattina, aperta dall’alto, ci introduce tre dadi e poi spalma un esplosivo civile di fabbricazione turca. Chiude il dispositivo con un martello e vi introduce di forza una miccia con un detonatore civile. Ecco, in cinque minuti, una granata pronta all’uso.
Prende poi una grossa bombola d’ossigeno, e mi spiega che una volta riempita di bulloni e di esplosivi, ci si può mettere un detonatore elettrico e farne una mina efficacia. Davanti al suo lavoro mi confida con orgoglio che sulla sua testa è stata messa una taglia e che se voglio diventare ricco, basta ammazzarlo o consegnarlo a Gheddafi. Poi andiamo in un posto isolato in mezzo alle dune. Là, ancora più distanti dalla città, sono ammucchiate diverse munizioni: bombe di mortai non esplose, esplosivi di marina, granate ancora intatte. Dicono che la maggior parte è sotterrata. La gente della città va lì per deporre le munizioni che non servono o le cose che credono essere tali (filtri dell’aria di carri armati o cartucce di ricarica). Diverse munizioni sono state aperte per estrarne l’esplosivo, ma la maggior parte è ancora intatta. Torniamo poi con l’esperto alla fabbrica, dove il suo know-how risulta molto utile.

Il fruttivendolo egiziano

Il secondo esempio è un fruttivendolo egiziano: il commerciante, il piccolo-borghese per eccellenza, dedicato a una vita di lavoro e di stabilità. Ogni giorno, verso le 6 del mattino, prende il suo furgone e parte velocemente verso i campi, sfidando i colpi dei cecchini. Trenta minuti dopo arriva alla fattoria di un tizio che conosce. Il terreno non viene più annaffiato e la maggior parte delle verdure sono secche o rimpicciolite, però si trova sempre qualcosa con cui caricare il furgone. Comunque non si attarda molto, il lavoro deve essere concluso entro un’ora. Oggi ci sono delle carote e delle melanzane. I due centri importanti di questa raccolta ad alto rischio sono Dafnia a ovest — in direzione di Zlitan — e Taumina a est — in direzione di Tawarga. Da queste due località Taumina è la più pericolosa, però sia nell’una che nell’altra direzione, le forze di Gheddafi possono sparare sul veicolo o fermarlo. Questo è già successo più di una volta al nostro eroico fruttivendolo, perché le forze lealiste non tengono nessun posto di blocco permanente sulla strada. Da diverse settimane hanno abbandonato i veicoli militari e li hanno rimpiazzati con dei veicoli civili simili a quelli degli insorti. Tirando a sorte contro una macchina a caso, sbarrano la strada all’improvviso.

Fino ad ora il commerciante ce l’ha fatta fingendo di andare a consegnare i prodotti alle milizie di Gheddafi, però si può immaginare la tensione che proverà durante questi controlli in cui ogni errore può essere letale. Queste preziose verdure le vende al prezzo ordinario a quelli che se lo possono permettere, e le regala a quelli che non possono pagare. Solo i prezzi delle patate, dei pomodori e delle cipolle sono fortemente aumentati. Queste verdure vengono portate da Tripoli da venditori che dovrebbero normalmente consegnarle a Zlitan. Vengono comprate a un prezzo più alto del normale e quindi vendute più care. Il chilo di patate è passato da 75 centesimi a 1,25 dinari.
L’arrivo di verdure è meno abbondante del solito, ma i negozi ancora aperti vengono approvvigionati bene, e non c’è la coda davanti. Il fruttivendolo consegna anche i suoi prodotti nelle case di Tripoli street, per quelli che non possono uscire dalle loro abitazioni.

Poco tempo dopo incontro in una clinica un ragazzo ferito da un cecchino in una fattoria durante una raccolta a Sict, vicino Taumina. La pallottola ha penetrato il suo petto a sinistra, sotto il braccio, a pochi centimetri dal cuore.

Questi erano due esempi notevoli di ciò che significa vivere a Misurata. Avrei potuto parlare dei medici che si occupano dei feriti, a due passi dalle zone in cui si combatte; dei tecnici che ogni giorno vanno nelle zone pericolose per riparare le linee dell’alta tensione danneggiate dai bombardamenti; o di un esperto in comunicazione che tenta di ristabilire la rete su Tripoli street. Tutti questi esempi sono presi a caso tra una popolazione impegnata corpo e anima in questa guerra.
Misurata non è solo garante dell’unità della Libia, è anche un attore essenziale della sua costruzione. Se Bengasi è l’avvenire intellettuale del paese, Misurata è il suo avvenire economico. La sua distruzione rimetterebbe in discussione lo sviluppo di tutta la Libia, così come la sua indipendenza commerciale. Ciò che si può temere oggi non è tanto la sua caduta, poco probabile vista la densità e la determinazione della sua popolazione, ma la sua lenta e irrimediabile distruzione, come nel caso di Sarajevo, una volta così importante e ormai respinta al secondo piano.