di Roberto Sturm
José Saramago, Il vangelo secondo Gesù Cristo, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 352, € 9,50 e Caino, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 144, € 15,00
Nuova edizione per Il vangelo secondo Gesù Cristo (già edito nel 1991) e prima pubblicazione di Caino, romanzo scritto dal Premio Nobel per la Letteratura 1998 l’anno prima della sua scomparsa, nel 2009: due romanzi che, a distanza di quasi venti anni, hanno un evidente filo rosso che li accomuna, la religione. Se con Il vangelo Saramago ci offre una chiave di lettura del Nuovo Testamento, con Caino affronta il Vecchio. Per questo la Chiesa, spero solo la parte più bigotta (speranza vana, lo so), non ha fatto altro che levare gli scudi contro due testi che mettono in dubbio i dogmi su cui si fonda la religione cattolica: il rispetto per la diversità di pensiero, di opinione non è una prerogativa neanche della Chiesa moderna che negli ultimi trenta anni ha eletto due pontefici intransigenti e conservatori, tanto amici del Capitalismo quanto affaccendati a nascondere episodi che sono stati sulle prime pagine dei giornali e dei notiziari. Il fatto che l’autore portoghese, nei suoi scritti, non abbia mai sconfinato in accuse e offese gratuite non è stato sufficiente affinché il Vaticano evitasse — secondo un costume poco elegante ma ormai consolidato — di lanciare i suoi strali contro lo scrittore non appena diffusa la notizia della sua morte.
È vero, nel Vangelo niente va come dovrebbe.
Gesù di Nazaret nasce da un rapporto sessuale tra Giuseppe e Maria, ha dei fratelli e la convivenza con i familiari diviene presto problematica. Appena adolescente lascia la famiglia, nonostante la recente morte del padre, a trentatré anni, sulla croce. Rimane per quattro anni ad accudire un gregge di pecore insieme a un presunto angelo che si chiama Pastore e che poi si rivelerà il Male, Satana stesso. Il suo incontro con Maria di Magdala, nella città in cui lei svolge la professione di prostituta, si trasforma immediatamente in un legame d’amore forte e indissolubile, vuoi perché Gesù, ancora immaturo e inesperto, sente il bisogno di un punto di riferimento, vuoi perché Maria di Magdala sente la necessità di essere trattata da donna e non come oggetto di piacere. Il rapporto con Dio, il quale ha mescolato il suo seme con quello di Giuseppe nel momento del concepimento, è conflittuale. Gesù non capisce e non condivide alcun comportamento del suo secondo padre e d’altra parte quest’ultimo lo usa esclusivamente per raggiungere i propri scopi. Tant’è che nel loro ultimo incontro — quaranta giorni in una barca nel lago avvolto da una fittissima nebbia, in presenza di Pastore, il Diavolo, visto come un alter ego, il rovescio della medaglia del Signore stesso — c’è un accordo tra i due: in cambio del sacrificio della propria vita Gesù vuole essere ricordato fino alla fine dei tempi. Dio accetta di buon grado perché sa che solo se suo figlio morirà tra atroci sofferenze i suoi progetti andranno a buon fine.
Il cerchio alla fine si chiude. Gesù — forse il più umano degli uomini — ha la certezza di essere stato solo uno strumento in mano a un dio, un padre insensibile alle sofferenze dei proprio figli. E sulla croce, poco prima di morire, mentre solo Maria di Magdala sembra provare veramente dolore e pietà per la sua fine, volge lo sguardo verso il cielo dicendo: “Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto.”
Gli argomenti sono tanti, e tutti molto profondi nonostante Saramago li affronti con il suo stile disincantato e leggero, ironico e per questo più pungente. Si va dal libero arbitrio alla condizione della donna nella società e all’interno del clero, dalla morale bigotta instaurata dalla fede all’etica della persona, dall’uso strumentale delle persone da parte dei potenti alla bontà di chi vive in povertà, dal rispetto dei diversi al prevaricare di chi detiene il potere.
Dal dio insensibile, indifferente e distante del Vangelo Saramago passa a un dio ingiusto, malvagio e gratificato dal dolore degli esseri viventi in Caino.
Ed è vero che anche in questo romanzo le cose non vanno meglio.
Il premio Nobel, forse con più raffinata ironia rispetto al Vangelo, passa in rassegna alcuni degli episodi del Vecchio Testamento dal punto di vista di Caino, una delle figure più negative delle scritture sacre.
Caino uccide Abele perché Dio manifesta compiacenza verso i doni del fratello e ignora i suoi. È così che scatta la sua rabbia. Immediatamente raggiunto dal Signore, Caino gli rimprovera, vista la sua onnipotenza, di non aver fatto niente per impedirglielo: sarebbe bastato che avesse accettato anche i suoi doni. Ma l’unica cosa che fa Dio è condannarlo a errare smarrito nel mondo.
Arrivato in un paese senza nome, trova lavoro come pigiatore di argilla. Ma Lilith, regina della città, mette subito gli occhi sul giovane. Il marito non riesce a dargli un figlio per cui lei vive avventure con amanti diversi. Nonostante i moniti degli abitanti sulle presunte doti malvagie della regina, Caino entra a palazzo e diventa suo amante. Il loro rapporto vive di sesso, un sesso che porta entrambi sempre all’apice del piacere senza lasciare traccia di sensi di colpa. Dopo che la donna rimane incinta, Caino sente che è tempo di partire. E con un mulo dalla resistenza straordinaria, passa da un piano temporale a un altro. Riesce a salvare Isacco dal sacrificio che Dio aveva imposto ad Abramo. Ma non riesce a spiegarsi né come un padre possa uccidere un figlio né come un dio possa chiedere un’azione così abominevole a un uomo. Assiste alla strage di Sodoma, in cui periscono anche coloro che non avevano peccato. Si imbatte nella costruzione della torre di Babele e alla vendetta di Dio contro gli uomini che lo avevano sfidato per costruire una torre che arrivasse a lui. Anche in questo caso si chiede come possa un dio punire degli esseri che volevano solo conoscerlo e conoscere. Torna da Lilith e incontra suo figlio, Enoch, uno sconosciuto per lui, metafora di come Dio non conosca affatto coloro che definisce suoi figli.
Successivamente si imbatte, di nuovo, nella furia del Signore contro i suoi fedeli che, aspettando Mosè salito sul monte da quaranta giorni, credendolo morto, idolatrano un vitello d’oro. Assiste alle prove che deve sostenere Giobbe per una scommessa che Dio ha fatto col Diavolo. Ed è solo per capriccio, solo per rivendicare la propria superiorità su Satana che non interviene quando Giobbe perde tutto — meno che la fede —, e si ammala soffrendo le pene dell’inferno. Caino si rende conto di come la sua colpa sia infinitamente minore rispetto ai delitti commessi nel nome di Dio. Alla fine si imbatte in Noè mentre, con la sua famiglia, sta costruendo l’arca. Ed è qui che Saramago prende decisamente in mano le redini della storia e ci guida verso un epilogo che — sotto certi aspetti — rivendica il diritto degli uomini ad essere artefici del proprio destino, senza condizionamenti di una fede, di un dio che sembra non conoscere e aver dimenticato coloro che ha creato.
Un dio che non ha coscienza né senso della misura, a cui non importa quanto gli uomini soffrano a causa sua. Un dio ambizioso che non rispetta alcun tipo di codice etico per soddisfare i suoi capricci, un dio incapace di provare pietà, un dio lontano, affaccendato a mantenere il primato sugli tutti gli altri esseri viventi. Un dio che non accetta alcun tipo di sfida sopprimendo qualsiasi ostacolo si intrometta nei suoi progetti. O chiunque osi sfidarlo.
Due romanzi, due pietre miliari della narrativa contemporanea di un autore che ha fatto della coerenza e dell’impegno le basi della sua carriera artistica. Fino alla fine.
Saramago sembra volerci avvertire di quanto possa essere deleterio l’integralismo religioso, da qualsiasi parte provenga. Anche perché sarebbe stato più facile e comodo parlare di Islam, come altri hanno fatto. Ma Saramago non è mai stato un personaggio comodo, né credo volesse esserlo.
E come dice Caino: “La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con Dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui.”
Amen.