di Dziga Cacace

Uma camera na mão, uma ideia na cabeça!
Glauber Rocha

ddv201.jpg240 — Il G8 inaspettato e Duel di Steven Spielberg, USA 1971

Sono a Genova dai miei. Sono solo ed è troppo tardi per andare al Lumière e allora mi cerco una vhs. Individuo Round Midnight e Quel pomeriggio di un giorno da cani, ma le edizioni dell’Espresso fanno letteralmente cagare: a tutto schermo e sgranate senza pietà. Loro sono delinquenti e mio padre fesso che continua a cascarci imperterrito. Allora frugo tra le videoregistrazioni e scovo una cassetta con l’indicazione incerta “Duel”. Ma io non l’ho mai mica registrato, sai? La metto nel videoregistratore e scopro che è stata registrata da mio padre nella notte del 21 luglio. 2001. G8. C’è il Tg regionale e di Carlo Giuliani non si sa ancora il nome, ma qualcuno parla già di quei due maledetti spari che molti ancora negano. C’è Genova sconvolta dai black bloc (liberi e belli… ma pensa un po’!?) ma anche le immagini delle violenze della polizia, già indiscriminata fino dal secondo giorno contro chi manifestava in modo pacifico. Altro che il pestaggio di Corso Italia della domenica (quello passato a Blob, per intenderci): qui ci sono anche il sangue, le facce tumefatte, gli occhi neri del sabato, prima, durante e dopo l’uccisione di Giuliani. Giornalisti, avvocati e medici pestati, camionette impazzite guidate da novellini in preda al panico, in fuga o alla carica dei manifestanti. E manifestanti che fan la faccia truce dietro un’armatura di polistirolo e si prendono l’infantile ma liberatoria rivincita di bruciare un Iveco abbandonato. O quello che è.


Fa un effetto stranissimo ritrovare queste immagini che la Rai ha poi censurato, ma a quell’ora non si capiva ancora la gravità di cos’era accaduto. E quella notte, mentre il videoregistratore girava, c’era l’irruzione alla Diaz e nel carcere di Bolzaneto l’atmosfera era pesantuccia. Leggermente scosso, mi sono poi visto il film di Spielberg, capolavoro della suspense, costruito su una storia esilissima che regge abilmente per un’ora e venti. Un tizio sta andando a un appuntamento di lavoro e ingaggia un estenuante duello automobilistico con un enorme truck. Prima il dubbio, poi la certezza: quello ce l’ha con me, e di brutto brutto. Il camionista — che mai vedremo in faccia — è la materializzazione dell’incubo di ogni pacifico automobilista come di ogni uomo: è il male, il diavolo, la nemesi, tutto quello che volete; tonnellate di acciaio lanciate a bomba sulla vostra esile macchinina, mentre la natura assiste muta e maestosa a questa lotta psicologica e meccanica. Il film è grande, non ha cedimenti di ritmo, possiede una scrittura azzeccatissima e ogni incontro della povera vittima rimane nella memoria. Non lo vedevo da anni, lo ricordavo bene, mi ha divertito e inquietato ancora. Poi, dopo Duel ho visto su La7 qualche brano di L’urlo di Cheng: Bruce Lee in un Colosseo di cartone assieme a Chuck Norris, il top. Mi sono gustato tutto il duello con Chuck (che contemporaneamente pesta i comunisti su Italia1, nel telefilm Walker Texas Rangers): qui Norris è imberbe, seppur peloso e rossiccio. Bruce gli fa un culo tanto e lo ammazza in uno scontro epico, ricco di urletti, saltelli, zoomate assassine e velocizzazioni. Cosa non ti regala certo cinema. (Vhs da RaiTre; 19/1/02)

ddv202.jpg241 — Erin Brockovich di un civile Steven Soderbergh, USA 2000

Do retta a Pier e concedo una visione a Erin Brockovich che, come da copione, finisce per piacermi pure. Mi piace nonostante che nei primi minuti pensi che una come Julia Roberts mai avrà problemi a sbarcare il lunario. Ha due gambe lunghe come un fenicottero, una bocca come Mick Jagger, due occhioni da cerbiatta e le tettine schiacciate per farle sembrare più grosse. A me istintivamente non piglia e quella bocca larga parla troppo: il suo ruolo è quello della donna volitiva con due coglioni così, fregata più volte dagli uomini (vaga contraddizione, no?). Tant’è che si fa assumere da uno studio legale, investiga su un caso di una azienda inquinante, fa vincere 700 miliardi ai suoi assistiti e lei risolve la sua vita precaria. Storia vera, dicono, per cui sicuramente taroccata ad arte. La Roberts è in effetti brava e il film vive della sua vivacità. Ma al suo fianco c’è anche lo straordinario Albert Finney che ci mette le finezze attoriali che alla Roberts mancano. Il ritmo è incalzante, il montaggio intelligente, la musica bella e inaspettata. E poi c’è una storia d’amore lasciata sospesa in maniera intelligente. Non l’avrei mai mai detto, ma Erin Brockovich, storia di rivalsa tipicamente yankee (cittadino comune che s’incula il cattivo capitalista… seee, giusto al cinema), convince perché sa essere leggero e non indulge troppo nella retorica dell’American Dream. È scritto bene (i dialoghi, i personaggi), montato meglio e girato con gusto, attento ai paesaggi naturali e umani. Una sorpresa e un punto a Pier. Scrivo queste noterelle di pentimento mentre sullo stereo c’è Springsteen a palla e in video sto registrando le ennesime puntate di Friends: se non ci hanno colonizzato l’inconscio questi… Intanto su Retequattro sta girando l’immondo Proposta indecente e mi è bastato rivedere alcuni secondi della turpe “scena dell’elefantino” per essere percorso da un brivido di terrore. Zapping su RaiUno e becco il finale strazzacore di Armageddon, baracconata di cui ho visto le scene iniziali e che ho deciso di mettere da parte per delibarlo in pace con Barbara perché sembra grottesco in maniera atroce e pertanto validissimo supporto trash a una serata da deboscio. (Vhs da Tele+; 21/1/02)

242 — L’apparenza inganna del pelandrone Francis Veber, Francia 2001

Dopo un sacco, torno finalmente al grande cinema, quello in sala. Scelgo una pellicola consigliatissima da Film Tv per il presunto ritmo travolgente di gag e battute e anche per il non banale tema trattato. Trattasi però di sciagurato e obnubilato consiglio, perché il film è loffio, smorto, senza verve alcuna e la storia è di una superficialità brutale e imbarazzante. Siccome quest’anno non sta uscendo letteralmente una minchia, L’apparenza inganna diventa un film “carino”, che va promosso in qualche maniera. Ma non vale assolutamente niente ed è molto peggio di quel La cena dei cretini che, seppur girato in maniera elementare e scritto con pigrizia (o limiti), riusciva in ogni caso a distrarre. Qui c’è una discreta idea di partenza e uno svolgimento del compitino ammorbante, senza alcuno sforzo, neanche il minimo indispensabile per la sufficienza. In Francia pare sia bastato, ma la sensazione, usciti dalla sala, è quella di essere stati presi pesantemente per il culo. Bravi il bovino Depardieu e il timido Auteuil (ma è un pre-requisito, dài), ma non c’è il film, proprio no: la sensazione è quella che si prova quando un amico rompicoglioni ti racconta una barzelletta infame, tu non riesci proprio a ridere e lui ti dà di gomito dicendoti “eeeh?”, sollecitandoti con sguardi complici. Volevo ridere e non l’ho fatto e a Veber gliel’ho giurata. Ah, dell’Armageddon della recensione sopra ho raccolto gli ampi consensi di Riccardo, mentre Max e Claudia ci hanno pure pianto, seriamente. Sono stato accusato di cinismo e ho ribattuto tacciandoli di infantilismo tardivo o senilità precoce. A questo punto devo vedere il film per riprendere la polemica. (Sala; 29/1/02)

ddv203b.jpg244 — Il favoloso mondo di Amélie del fantasmagorico Jean-Pierre Jeunet, Francia 2000

Il favoloso mondo di Amélie è un film confezionato benissimo, con una cura certosina dei particolari e con un amore per la sceneggiatura ben scritta, dove tutto è congegnato e torna. Reca indelebile lo stampo del regista e, come in Delicatessen, siamo portati in un mondo zuccheroso, irreale, con i buoni e qualche cattivo, con l’Amore e l’Odio. Il quotidiano si trasfigura in fiaba e ogni scena è impreziosita da trovate e invenzioni. Ad alcuni critici e a qualche amico snob la cosa ha infastidito perché probabilmente si ritiene che i messaggi semplici siano solo per il grande pubblico, sempliciotto, quello che puzza di fame e con il quale — non sia mai — certa intellighenzia sinistroide non vuole proprio mescolarsi. Va bene difendere l’articolo 18, ma con l’operaio al cinema ci andrai tu, intesi? Amélie è un film accusato di essere troppo dolciastro, furbo e compiaciuto: guai che un film cerchi il suo pubblico, lo blandisca, addirittura — oddio! — provi a piacergli. Bene, diffidate di chi guarda severamente questo film: non ha la razionalità per valutarne le tantissime invenzioni, né il cuore per farsi appassionare. Amélie è una bella ragazzona parigina che s’ingegna a rendere più decente la vita altrui, con candore e dedizione. E alla fine anche lei troverà il suo grande amore. Alcuni hanno lamentato certe lentezze “francesi”, invece Amélie — se ha un difetto — è nell’essere troppo, con troppe cose da dire a scapito di quelle essenziali alla narrazione. Però è un bel narrare, ricco, generoso, con brillanti invenzioni visive e narrative e con un gioco di sceneggiatura dove ogni tassello torna al suo posto però sorprendendo sempre, con alcuni scarti inaspettati. Sullo sfondo una Parigi irreale e cartolinesca, molto realismo sociale fine anni 30, eppure incredibilmente moderna, palpabile e vera; tra le tonalità pastello del dipinto, Jeunet sa dare alcune pennellate vivissime, che danno esattamente l’essenza di questa splendida città: i marciapiedi, i muri scrostati, i manifesti strappati, la sporcizia. Belle le musiche romanticone di Tiersen, esornativi alcuni effetti speciali e incredibile la protagonista principale, tale Audrey Tautou, 19 anni, gli occhi come due palle da biliardo. L’ho visto con Barbara nella sala Truffaut del nuovo Eliseo, appena rimesso in ordine, con il quadro leggermente tagliato in alto e in basso. E vabbeh, pure al cinema. (Cinema Eliseo, Milano; 4/2/02)

ddv204.jpg245 — L’uomo che non c’era del discontinuo Joel Coen, USA 2001

In mattinata mi sono superato: ho fatto una corsa patetica per arrivare all’Oberdan entro le nove del mattino e prendere i biglietti per vedere Strategia del ragno con Bertolucci presente in sala. Tanta fretta perché credevo che la serata fosse tra due giorni e mi vedevo già esiliato… Invece è tra due settimane e ho comprato i primi biglietti in assoluto (per me e Pier) urlacchiando tutto sudato “permesso! Ne avete ancora!?” e sgomitando vecchie signore, nel pallone più totale (io e loro, che pensavano a uno scippatore). La bigliettaia mi ha chiesto se stavo bene ma io me ne stavo già andando, sventolando fiero e ottuso i preziosi ticket. Poi, ripresomi, ho deciso razionalmente di andare a vedermi immerso in una poltrona faraonica del President L’uomo che non c’era, di cui si dicono mirabilie. È un film su un lento suicidio: Creighton è un barbiere che fuma accanitamente, di poche parole, insoddisfatto, che si lascia vivere senza entusiasmi, senza cose da ricordare. Taglia i capelli e osserva. Parla poco ma capisce molto: vede l’inutile affanno umano alla ricerca della felicità. A un certo punto di questa monotona esistenza scopre che la moglie lo tradisce con un amico di successo e fanfarone e al contempo intravede in un imprenditore la possibilità di un successo economico personale che dia un senso alla sua vita. Due più due: ricatta l’amante di sua moglie e coi soldi ottenuti avvia l’affare. Ma l’imprenditore scappa coi soldi e lui è costretto ad ammazzare il ricattato. Va tutto a schifìo, insomma, ma il caso vuole che dell’assassinio venga accusata la moglie di Creighton, donna arrivista e mendace. Paradossale processo che si conclude con il suicidio della suddetta signora. Il protagonista torna a una vita senza sommovimenti, più mortificato di prima: talmente invisibile, talmente insignificante che non lo hanno neanche riconosciuto colpevole. Ha un sussulto: troverà uno senso facendo diventare concertista una giovane ragazza che suona il piano. Ma Creighton di musica non capisce nulla e anche questo ultimo tentativo di riscatto esistenziale va a finire malissimo. Un incidente d’auto e l’arresto: la polizia ha trovato il cadavere dell’imprenditore — in realtà ucciso dall’amante della moglie di Creighton — e ritiene che il nostro uomo invisibilene sia l’assassino. Rassegnato a questa vita senza senso, Creighton accette la sedia elettrica senza protestare, colpevole in ogni caso. L’uomo che non c’era è un buon film, impreziosito da una calligrafia espressiva anni Cinquanta: è un vezzo formale, non sostanziale, però ti predispone bene al racconto. Inoltre è un film ben recitato, scritto con alterna efficacia, ma potente e amaro nel suo raccontare la moderna condizione umana, dove ogni individualità è spersa nella folla. Non è il capolavoro di cui alcuni hanno parlato, però è insinuante e a distanza di giorni ti torna su come una peperonata, ma senza essere indigesto. Ti ammalia, ti abbacina con questo bianco e nero scintillante, con la profonda voce off di un morto che cammina e con le facce magnetiche degli attori (soprattutto quella straordinaria di Billy Bob Thornton). La vicenda è ambientata nel primo dopoguerra, nella sonnolenta provincia americana, e il film usa emblematicamente questa età di mezzo – tra passato e presente – per parlare di perdita dell’innocenza e di modernità. Sullo sfondo l’America media, le ossessioni (gli UFO, il pericolo giallo, i comunisti), il caso beffardo e la fallace giustizia umana che per due volte incappa in errori giudiziari che fanno comunque giustizia. E in questa fiera dell’assurdo trova spazio anche la straordinaria figura dell’avvocato Freddy Riedenschneider, parolaio mestatore che invoca il principio d’indeterminazione di Heisenberg. I momenti surreali, glacialmente comici (dal terrore dell’invasione aliena alle voglie sessuali della giovane pianista) mi lasciano un po’ perplesso: sembra che i Coen abbiano voluto metterci il marchio di garanzia, “siamo sempre noi, i vostri soliti cazzoni”. Lo sapevo già. (Cinema President, Milano; 5/2/02)

247 — Wild Man Blues della felicemente impicciona Barbara Kopple, USA 1997

Woody Allen. Un genio. E un figlio di puttana: Wild Man Blues documenta una fortunata tournée europea del complesso di “jazz delle origini” di Allen. Ne viene fuori un ritratto sfaccettato: il clarinettista è cinico col suo pubblico, fa la zoccola, talvolta ha sinceri moti di generosità, più spesso si ricorda che è lì per denaro facile. Sa essere pungente, sgradevole, geniale, anche stronzo, sempre in bilico tra pigrizia e voglia di conoscere. Il documentario è portato avanti da ciò che Allen dice alla sorella (sua manager) e Soon Yi, la compagna. L’impressione che si segua un copione è fortissima e non proprio piacevole, però siccome si vedono e sentono cose che invece non ti aspetteresti tutto viene riequilibrato e rimangono il dubbio e l’ambiguità, cose sempre buone. Probabilmente Allen sarà stato costretto a subire il supplizio della cinepresa sempre accesa proprio per gli stessi motivi per cui si è imbarcato in un tour musicale promozionale di cui sembra non aver gran voglia: money money. E vabbeh. Mai creduto che fosse un’anima candida solo perché è uno dei più grandi umoristi della storia. Il documentario cresce alla distanza, quando gli eventi portano Allen a commentare in maniera spontanea, non impostata a favore di obbiettivo. Capiamo così molto delle sue fobie, dei suoi amori, delle menate che deve subire in nome della popolarità (ben remunerate, però). La parte dedicata all’Italia è preponderante. Ci sono gli angoscianti incontri con i sindaci e l’impatto col pubblico beota che del jazz di New Orleans non sa nulla, ma se lo suona Woody Allen, ah beh, altro discorso: bisogna esserci. Clamoroso l’imbarazzo del protagonista davanti a una fan marchigiana che continua a dirgli “lei è così intelligente”, per ottenere in cambio questa risposta: “vorrei tanto aiutarla”! E tra l’altro anche Arbore e Mollica (che introducono una serata del nostro eroe) non ne escono particolarmente bene. Wild Man Blues non è clamoroso, ma ha il pregio di mettere a nudo un uomo troppo spesso identificato coi personaggi dei suoi film, scoprendone anche i lati meno piacevoli; un uomo che pur di non rinunciare a una battuta sfotte pure le umili origini della compagna che, se non stesse con lui, “starebbe a cercare cibo nella spazzatura di una città vietnamita”. Tecnicamente non giova la poca agilità della pellicola (le luci fanno spesso schifo), ma il risultato è sporco, rubato. E funzionicchia. (Vhs da RaiTre; 9/2/02)

ddv205.jpg248 — Ocean’s Eleven di un paraculo Steven Soderbergh, USA 2001

Tanto per passarci due ore, vado con Barbara e la cugina Alessandra al Ducale. Non c’è quasi nulla da vedere e la scelta cade su questo Soderbergh da rapina. Il film segue un impianto abbastanza canonico: l’organizzatore del colpo — Ocean/Clooney —sceglie i complici per attuare il piano, lo prepara, lo esegue e scappa. E come svolge il compitino Soderbergh? Mah, ai miei tempi, quando c’era poco altro da dire, la maestra ti dava “visto”. Qui, la classica scelta dei compari non ha niente di accattivante. Chi sono questi undici specialisti scelti dal sornione Mr. Ocean? Boh: ogni prescelto viene introdotto più o meno con due, tre minuti in cui dovremmo capirne le caratteristiche e anche il ruolo nel futuro colpaccio. Invece sembra tutto buttato lì, senza grande impegno. La concatenazione degli eventi manca proprio e del colpo si capisce molto poco. E poi non c’è una svisata comica che vada a segno. Nel senso che Soderbergh ci prova eccome, ma gli effetti sono penosi. Insomma: che non basti lo sguardo languido di Clooney avremmo già dovuto capirlo, o no? No, evidentemente. Arriviamo all’intervallo senza poterci credere: una pallata unica, farraginosa, con una marea di personaggi senza spessore e ruolo. Ma a questo primo tempo completamente ceffato, lento, ripetitivo, confuso e senza alcunché di memorabile, segue un secondo tempo che, viste le premesse, ha del miracoloso: il film prende ritmo, la regia finalmente dirige e gli attori sembrano a loro agio. Alla fine c’è il rammarico per la partenza catatonica e senza qualità: è un filmetto per divertirsi e ci riesce solo troppo tardi. Bella la colonna sonora lounge, economica la veste totale (ma non è un difetto), qualche sprazzo di fotografia. Mah. Voto? “Visto”. (Cinema Ducale, Milano; 10/2/02)

ddv206.jpg249 — Il signore degli anelli — La compagnia dell’anello dell’esorbitante Peter Jackson, USA/Nuova Zelanda 2000

A Natale mi son fatto regalare il libro di Tolkien e ovviamente non ho letto un cacchio. Adesso che il film è nelle sale non resisto e faccio affidamento solo alla lettura, circa vent’anni fa, della riduzione a fumetti del cartone animato che Ralph Bakshi aveva tratto dal romanzone. Cioè, non ricordo nulla, se non che fosse un fumetto illeggibile e complicatissimo. Devo anche dire che quando ci sono maghi, elfi, troll, fatine e omini verdi io perdo interesse in dieci secondi. Però qui, l’assalto ai sensi è stato tale che non potevo rimanere indifferente. Il primo episodio cinematografico della saga vede Frodo e i suoi amici fuggire dalle forze del Male per mettere al sicuro l’anello. Continuo a non capirci una mazza, ma m’han detto che anche Tolkien procede così, spiega poco a poco. Quello che non manca è il ritmo, anche a costo di liquidare alcune porzioni di racconto abbastanza velocemente. È un film movimentato, senza pause e intoppi, che diverte. Però ti blandisce, ti solletica e ti eccita, e quando arriva il momento della copula eiaculatoria, zac!, ti lascia a bocca asciutta: fine. Il seguito lo vedrai tra un anno e per la conclusione te ne serviranno due, tutto coi preliminari già fatti e un doloroso priapismo. Roba da diventare matti. Tanta azione, bravi attori, scenari splendidi e un’ammirevole cura scenografica che attinge a piene mani dai preraffaelliti o da certo eclettismo neogotico (sto sbulaccando grazie a confusi ricordi dei miei studi di architettura: potrei anche spendere i nomi di Morris e dell’Arts and Crafts). Ah: poi è un film cristianeggiante, molto al maschile, senza alcun riferimento sessuale, mai, ma nella mia somma ignoranza immagino la progenitura illustre. In ogni caso Peter Jackson è un genio e Scott McKenzie è lui (chi ha visto Forgotten Silver capisce; chi no, vive nel peccato). Con me, c’erano anche Alessandra e Barbara, tutti soddisfatti, nonostante il coitus interruptus. (Cinema Odeon; 11/2/02)

ddv207b.jpg250 — Strategia del ragno dell’incommensurabile Bernardo Bertolucci, Italia 1969

Al cinema Oberdan col fido compagno Pier Paolo per una serata bertolucciana come non ne capitavano da tempo. L’occasione ce la dà un ciclo dedicato al Maestro e la sua contemporanea presenza in sala. Nei nostri tardi vent’anni (tardi noi, intendo) volevamo scrivere la sua biografia artistica e umana mescolandola al racconto di questa ricerca: abbiamo raccolto testimonianze, pareri, curiosità, intervistando e riprendendo. Ci siamo avvicinati senza mai fare il balzo definitivo e ora il nostro progetto, quello splendido alibi per vedere e rivedere i film di Bernardo, è finito nel dimenticatoio. Ma c’è pur sempre una mano da stringere, un abbraccio da dare, una tesi (quella di Pier) da regalare. E poi Bertolucci l’ho sentito l’ultima volta poco tempo fa. L’avevo già conosciuto imberbe quindicenne, quando non capivo la portata dell’incontro. A settembre l’ho chiamato per le Iene, nell’improbabile speranza di poterlo intervistare. Mi ha risposto lui facendo finta di essere un collaboratore, ma la voce lo ha tradito. L’ho sicuramente disturbato e la pantomima ha reso in qualche maniera unico il conciliabolo: pensate a Bertolucci che con l’inconfondibile erre strascicata mi dice che riferirà a se stesso che l’ho cercato. Uno sdoppiamento degno di Partner! L’Oberdan ci accoglie e c’è un pubblico vario e prevedibile: adulti pensosi, figa intellettuale e studenti con la sciarpetta che vorrei interrogare come si deve sul cinema del Maestro (ma anche su quello dei famigerati corsi monografici universitari). Le casse diffondono un jazz fluido e incontro Laura Morandini, sempre solare. Bertolucci arriva claudicante. Dopo una prolusione ufficiale abbastanza penosa la proiezione può partire ed è orgasmica. Il film è sempre bellissimo: a quattro anni dall’ultima visione lo trovo ancora ricco di particolari, emozionante, intenso. Athos Magnani va a Tara, un paese senza giovani, abitato solo da vecchi e da bambini, da cui è impossibile scappare senza aver fatto i conti con la memoria (passata e direi anche futura), il tradimento (della Rivoluzione e del Pci coi suoi figli) e la propria identità. Ma il cinema di Bertolucci è un cinema che parla non solo di queste cose, ma anche di Bertolucci stesso. Ogni suo film è un ulteriore atto di autoanalisi che, per chi ama questo autore, arricchisce ulteriormente la visione. ddv207c.jpgCome in un gioco di specchi — funzionali al racconto — ci sono una marea di anticipazioni o citazioni (anche autoironiche). Ci sono gli occhi dipinti già visti in Partner, ma anche in Man Ray o ne Il disprezzo di Godard; ci sono il Macbeth (che era già in Prima della rivoluzione), Un ballo in maschera (che sarà anche ne La luna), il Giulio Cesare, il Rigoletto, l’Otello, Magritte e Ligabue (che tornerà ne La tragedia di un uomo ridicolo), Antonello da Messina e i 360 gradi di moralità di Gianni Amico messi in scena; Allen Midgette appare (irriconoscibile) vestito come un marinaio, Mina canta già Il conformista e la risoluzione del giallo che aleggia sulla vicenda omaggia L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock. E poi ancora la banda, la danza, il prosciutto e la luna alta nel cielo. La fotografia (bellissima) è di Storaro, completata da Di Giacomo che si attenne alle indicazioni originarie. A fine proiezione parte il temibile dibattito, con domande autoreferenziali e incomprensibili fatte da inverificabili critici. Ci prova anche una studentessa molto emozionata che riesce a mettere nella stessa frase “sì no”, “cioè” e “sinergia”, come in una parodia di Verdone. E alla fine trionfa l’approccio inadulterato, genuino e sincero mio e di Pier: Bernardo sta fuggendo dal cinema e io, implacabile e implaccabile, mi paro davanti a lui, con la destra che invita alla stretta di mano. È educato (o sfinito) e ci dedica cinque minuti. Parliamo di tivù, della Toscana e degli amici comuni, probabilmente abbastanza perché si renda conto che sono un babbeo. Poi Pier Paolo, più sobrio e centrato, consegna la sua tesi al Maestro. Il malloppo cartaceo di due chili viene subito ghermito da un solerte valletto. Ancora una stretta di mano, un sorriso e BB si allontana, circondato da una corte di segretari, parenti, amici, sicofanti e storpi. Incontro anche Morando Morandini che è rimasto in disparte. Richiama la mia attenzione da lontano: “Vieni qua, ché ti saluto”. Mi avvicino e mi dice: “Ciao, a presto!”. E poi a Pier e me rimane la serata milanese, umida ma non troppo fredda, per ripensare ai tempi andati e a irrealizzabili progetti futuri, passeggiando sui marciapiedi bagnati e, ogni tanto, alzando la testa per vedere la luna. (Sala Oberdan, Milano; 14/2/02)

ddv208.jpg252 — Il collezionista di ossa del balordo Phillip Noyce, USA 1999

Poliziotta giovane e detective paralizzato si occupano di terrificanti delitti. Lui la sguinzaglia, lei raccoglie prove, lui le analizza, lei combatte. In questo grosso film di merda ci sono solo due idee: un indizio alla risoluzione del giallo contenuto nei titoli di testa (captabile dall’1% della popolazione, per cui, Noyce, ti becchi subito un vaffanculo) e una bella scena di corpo a corpo tra il serial killer e l’immobilizzato Denzel Washington. In mezzo una svalangata di letame dove gli schematismi di sceneggiatura fanno scempio della vostra intelligenza di spettatore. C’è Washington, nero, padre-amante, impotente ma in potenza, severo, rigido, reso fragile dall’handicap che lo costringe coricato. E poi c’è Angelina Jolie, figlia-amante con la faccia al contempo da zoccola e da venerabile Joda, la recluta, l’allieva, frigida. Il blocco sessuale edipico verrà rimosso col successo dell’indagine. Trama sconclusionata da un best-seller di Jeffrey Deaver, e regia piatta che tenta di darsi una botta di vita con qualche inquadratura storta. La Jolie è espressiva come un cicciobello: quando è eretta tiene gli occhi sgranati, quando la corichi li chiude. Washington è bravo ma il ruolo (che gli sarà sembrato splendido) non gli concede molto, inchiodandolo al letto. Filmaccio brutto forte, ve lo dico io che sono fidedigno. (Vhs da Tele+; 28/2/02)

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(Continua — 20)