di Tommaso De Lorenzis

KillerInsideMe.jpgIl Novecento americano precipita tra le rapide di due fiumi. Oleoso e infiammabile, il primo. Inebriante e ingannevole, il secondo. Il petrolio e l’alcol hanno fatto fortune e dannazioni degli Stati Uniti. E hanno travolto la vita del più nero tra gli scrittori d’oltreoceano.
Jim Thompson fissò gli abissi dei pozzi petroliferi nel Texas occidentale e il fondo delle bottiglie nei bar di mezza America. Così perse l’anima per incontrare il demone che ispirò le storie d’una realtà rabbiosa e irredimibile. La sua vita fu una furibonda cavalcata nel ventre ulcerato degli States a partire dai rovesci del boom petrolifero targato anni Venti. Gli spazi dell’antica frontiera si riempirono di bidonville popolate da brutali reietti, folli vagabondi e disperati mangiatori di ratti.
Tra i ranghi di quest’esercito d’ombre militò Thompson, trasportando casse di nitroglicerina, perforando una terra ostile e gestendo locali per manovali. Sopportò tutto con una dieta a base di jake e white lightning, misture alcoliche in grado di provocare spaventose allucinazioni. Del resto era cresciuto alla scuola del famigerato Hotel Texas di Fort Worth dove — giovanissimo — aveva lavorato come fattorino. Un modo elegante per dire che aveva contrabbandato alcolici, procacciato donne, organizzato truffe e spacciato coca.

Se un cliente aveva bisogno d’un goccio, Jim — in barba al Diciottesimo Emendamento — estraeva dalle calze un quartino. Se un biscazziere voleva tirar su un tavolo di dadi, i gonzi li rimediava Jim. E se un viveur texano cercava una puttana, era il fattorino a procurargliela. A diciannove anni le mani che avrebbero composto immortali affreschi dell’Inferno americano erano già squassate dal delirium tremens. Fu un fato beffardo a spingere nelle bolge del sottoproletariato il figlio di un businessman dell’Oklahoma schiantato dal fallimento. Il greggio che per breve tempo aveva concesso agiatezza ai Thompson dannò per sempre Jim, risarcendolo con un’indennità di whisky, sigarette e amfetamine. Un quarto di secolo più tardi, lo scrittore si prenderà una dolente rivincita, sottoponendo gli anti-eroi dei suoi libri ai tiri mancini di un destino spietato. Non a caso, equivoci, paradossi e incontri rovinosi scandiscono le trame di capolavori come Diavoli di donne e Uomo da niente. Questi romanzi offrono una summa agghiacciante della letteratura nera, mescolando ossessioni e paranoie, disturbata sessualità e copule improvvide, sensi di colpa e pulsione di morte.
A dispetto degli eccessi, Thompson riuscì sempre ad attingere ai dettagli della memoria. Forse fu l’ennesimo contrappasso: come se neppure il Jack Daniel’s potesse lenire i ricordi del dolore patito. Così, quando la Lion Books gli propose di scrivere un romanzo su commissione, Thompson ripensò a un vicesceriffo di Big Spring incontrato ai tempi delle peregrinazioni giovanili. Ovviamente non rispettò nessuna delle indicazioni editoriali, ma ruminato dal rullo della macchina per scrivere di JT quell’uomo di legge s’era trasformato in Lou Ford, protagonista de L’assassino che è in me e indimenticabile titolare del flusso di (in)coscienza d’una società malata. Le perversioni di Ford apriranno al suo creatore le porte dell’editoria popolare, ma senza schiudere quelle dell’inferno in cui continuerà a bruciare. Nel 1955 l’incontro con un regista ventisettenne dall’aspetto beatnik sembrò cambiare le cose. La coppia era improbabile al punto che, se andavano a mangiare in un ristorante, era Jim a imbarazzarsi per il look dell’amico. I due si misero a lavorare all’adattamento di un romanzo di Lionel White. La sceneggiatura definitiva fu presentata in un cartone «grande a sufficienza per viverci». Sembrava puzzare di dilettantismo. Invece, Rapina a mano armata diventò un film-culto. Ma nei titoli di testa, quel giovane regista, registrato all’anagrafe di New York col nome di Stanley Kubrick, si era appropriato della paternità dello script, riducendo il contributo del socio all’elaborazione dei dialoghi aggiuntivi. «Mio padre per poco non cadde dalla sedia quando lo vide», ricorda la figlia Sharon. E quello fu solo il primo d’una lunga serie di affronti che il cinema riserverà allo scrittore.
Si è soliti dire che JT ha raccontato la trasformazione del Sogno americano in un incubo. In realtà ha ricordato, prima che lo facesse James Ellroy, come l’America non è mai stata innocente. Quando morì, nel 1977, la vita non gli aveva risparmiato niente. Colpito da ictus, infarti, paralisi, disturbi alla vista, gli era stata asportata quasi metà dello stomaco. Aveva fatto a pezzi l’America. E l’America se l’era ripreso: un pezzo alla volta.

PS. I romanzi di Jim Thompson sono pubblicati in Italia da Fanucci.