di Federico Mastrogiovanni
GattoStarWars.jpgQuattro. Distanza obbligata.

La riflessione davanti allo specchio delle cose inspiegabili vi darà la percezione di ciò che è mosso da invisibili fili. Amore compreso. In attesa di chiarirvi, affidate il libero arbitrio ai “lettini” terapeutici. Psicomassaggio o psicoanalisi, a scelta. PERCETTIVI.

«Mi dispiace Samuele. È che a un certo punto è cambiato tutto.»
«Cosa è cambiato, scusa? Sono la stessa persona di sempre.»
«No. Ho capito che non sei un uomo. Che non sai reagire alle avversità della vita.»
«Scusa ma chi è capace di farlo? Alle avversità si reagisce sempre male, non foss’altro perché sono avversità.»
«Ma perché ti giustifichi sempre? Perché ne fai una questione sociale? Sei tu che non sei abbastanza uomo. Smettila di nasconderti dietro alla crisi. Sei stato a casa per due mesi. Avresti potuto trovarti un lavoretto lì fuori. Che ne so… fare pacchetti nei negozi per Natale, o il cameriere. E se avessimo avuto un figlio cosa avresti fatto?»
«Amore, sono laureato! Ho delle grandi aspettative per il mio futuro luminoso! Sono un eletto! Lavoro da dieci anni… come posso fare i pacchetti?? e poi che cazzo di discorsi fai? Noi non abbiamo un figlio!!»
«Non chiamarmi amore. Ora abbiamo bisogno di allontanarci. Fidati. Io penso in modo lungimirante. Per la coppia. So come vanno queste cose. Se non ci allontaniamo non si potrà più fare niente.»

E aveva ragione lei. Non sul fatto di essere lungimirante o di lavorare per la coppia.
Quelle erano solo scuse per coprire un animo egoista. Un atteggiamento da bambina di sei anni.
No. Aveva ragione su un’unica cosa fondamentale.
IO NON SONO UN UOMO. È la verità su cui mi sono attorcigliato per settimane dopo la fine del nostro rapporto.
Non sono un uomo. Non sono socialmente desiderabile. Economicamente parlando assomiglio più a un tumore maligno che a un compagno con cui poter costruire una vita.
Ma poi da chi avrei dovuto imparare a “fare l’uomo”? Da mio padre?
Sono giorni che cerco di farmi venire in mente qualche figura maschile che nella mia vita sia stata un riferimento, un modello, un paradigma….
I miei eroi dell’infanzia: Indiana Jones, un archeologo che andava in giro a sparare ai nazisti con un cappello e una frusta, rimorchiava donne stupende e le mollava dopo averle illuse di essere l’uomo della loro vita.
L’unico altro esempio che mi viene in mente in questo momento: Ken il guerriero, che peraltro non è esattamente un intellettuale gentiluomo… per carità, incarna bene l’idea di sicurezza, anche se mi sembra eccessivo a volte pensare di poter appianare le divergenze facendo esplodere le scatole craniche degli interlocutori… che poi Ken il guerriero non era un uomo. Era un palestrato anabolizzato troppo stupido per capire che gli piaceva il cazzo.

È che io e Ginevra abbiamo categorie diverse. Una persona sana che ama davvero il suo compagno non direbbe cose del genere:
«Dovresti fare un po’ di sport, sai? Non ti curi abbastanza. Io te lo dico adesso, perché tu lo sappia, ma se ci saranno dei problemi, la panza da birra sarà un’aggravante»
«Un’aggravante rispetto a cosa??»
«Rispetto ai problemi che ci saranno.»
«…»
«Se non andremo più d’accordo, spera almeno di essere magro!»

***

Stasera ho bisogno di riconoscimento. Chiamo Pronto pagine gialle.
«Pronto pagine gialle, sono Silvia, come posso aiutarla?»
«Buonasera Silvia, vorrei sapere dove trovo un pub aperto nel quartiere Prati, a Roma.»
Sono le tre di notte ed è martedì sera. Attendo in linea la ricerca.
«Via degli Scipioni, 125.»
«Grazie.»
Ma ancora non voglio attaccare. Idea.
«Senta scusi, Silvia, un’ultima cosa. So che avete un servizio di personalizzazione. Dalla prossima volta che telefono, vorrei essere chiamato Sir George.»
Silenzio. Sconcerto. Dice che lo farà. Attacco. Richiamo.
«Pronto pagine gialle, sono Susanna, come posso aiutarla, SIR GEORGE?»
Attacco e piango da solo.

***

Torni di nuovo tu. Quando non me lo aspetto. Quando sono più fragile e penso di non averti pensato da giorni. E tu lì arrivi. La mattina appena prima che io mi svegli, quando abbasso le difese.
«Sai, avrei voluto trovare in te un uomo forte. Rassicurante. Protettivo. Sensibile. Un uomo che ti prende, ti sbatte al muro e ti bacia con passione, ma che però ti rispetti. Capisci che è una questione di ruoli? Io ho bisogno di sentirti come una figura che mi dia sicurezza. Non puoi crollare tu. La bambina sono io.»
«Ma quali ruoli? Di cosa parli? Siamo uguali. Tu lavori, guadagni in sei mesi quello che io forse guadagno in dieci anni. Come puoi pensare che la solidità sia slegata dalla stabilità socioeconomica? Sei una donna che lavora, ricca, affermata e però hai bisogno di essere l’anello debole emotivamente dentro casa? E ti metti con uno come me? Ma l’hai sempre saputo chi sono. L’uomo che cerchi tu non esiste…lo hai costruito tu. È un’immagine.»
«So che tu non lo sei. E non lo sarai mai. Io uno come te non me lo sposerei mai, non mi dai una sensazione di sicurezza. È inutile che cerchi di rimediare ora. È così e basta. Non posso farci niente.»

E io ti amo. Pensa.

***

Scendo di corsa dal 64 spingendo fuori, come in un conato improvviso, quattro preti di nuova generazione. Un africano, due latinoamericani e uno che somiglia tantissimo a Nestor, il filippino che lavora a casa del mio amico Giorgio.
Mi sono perso la fermata. Sto leggendo Il grande nulla di Ellroy. Più che leggerlo me lo mangio. Sull’autobus, nei tragitti tra un tribunale e l’altro.
E quindi poi quando arriva la mia fermata a volte me la perdo. O sono costretto a scendere di corsa con la borsa nera piena di documenti, investendo preti immigrati.
La mia fermata è su Corso Vittorio Emanuele.
Faccio tappa a piazza Campo de’ Fiori a comprare due euro di pizza bianca al forno all’angolo, e poi dritto al Consiglio di Stato.
Sono tre mesi che faccio questo lavoro, il commesso viaggiatore incravattato. Lavoro per uno studio che fa domiciliazione per avvocati di fuori Roma.
Ma che cazzo di lavoro è?? Non sapevo nemmeno che esistesse un lavoro del genere, tre mesi fa. L’ho accettato perché ero di nuovo senza un soldo in tasca.
Mi è caduto dal cielo. Me lo ha cascato dal cielo la mia amica Elvira, una donna che tira fuori spesso questi conigli dal cappello. A causa delle sue numerose e sempre risolutive svolte lavorative è soprannominata anche “l’onnipotente”.
Ero commosso di poter ricominciare a fare qualcosa.
E tutti i giorni giro tra Corte dei Conti, Corte di Cassazione, Tar e Consiglio di Stato. Deposito e ritiro atti, documenti, ricorsi, memorie.
Il bello di questo lavoro è che vado in autobus. E posso leggere tantissimo.
Non mi disturba fare il galoppino, sarebbe peggio lavorare in un archivio in un presidio della ASL ai Ponti della Laurentina, dove la gente va in giro col pezzo. Ad esempio.
E poi nei tribunali tutte le impiegate quarantenni, stanche di stronzi e ricchi avvocati che fanno i piacioni o di vecchi bacucchi incattiviti dalla vita, mi trattano con tanto amore e infinita dolcezza. Mi regalano caramelle mou e mi sorridono sempre quando entro nei loro uffici.
In certi momenti mi sento addirittura baciato dalla fortuna.
Arrivo al quarto piano. Qui c’è un dedalo di corridoi che a quanto si dice dovrebbero essere ricoperti di affreschi e stucchi antichi. Questa informazione non è mai stata verificata poiché invece su tutte le pareti campeggiano pile di faldoni, pieni di atti giudiziari, buttati per terra, appoggiati su carrelli di metallo. Ammonticchiati. Viene in mente Kafka. Sono dentro al Processo di Kafka.
In fondo all’ultimo corridoio c’è l’ultima stanza dove controllo se ci sono comunicazioni. Non voglio mai venire fino a qui.
Si sente l’odore già da qualche metro prima della porta. Odore di carne, di forfora, di ascelle non lavate. Odore di stantio. Puzze umane condivise. Odore di scoregge multiple imprigionate tra le chiappe e la sedia e da finestre chiuse.
Arrivo alla porta. Inspiro forte. Sorrido. E apro la porta. Quattro scrivanie tra le pile di documenti. Alla mia destra una donna obesa. Non deve arrivare a trentacinque anni. Ha l’espressione da ritardata. I capelli ricci e un sorriso ebete stampato in faccia. Sempre.
«Buongiorno.» dico.
Alza lo sguardo il secondo padrone di casa. Un uomo obeso. In fondo a destra. Barbona bianca. Coltre bianca di forfora sulla maglietta polo di flanella blu piena di macchie di unto. Occhialoni esagonali calati sul naso. «Buongiorno.» risponde lui astioso. Lui odia.
Giro la faccia intimorito verso l’angolo sinistro. Mi sorride una signora di età indefinita anoressica depressa. Ha l’occhio spento. Come di chi ha smesso per sempre di lottare. E vegeta. «Ciao», mi dice.
Alla sinistra estrema vive una donna apparentemente normale. Sulla cinquantina. Vestita con cura anche se trasmette sciatteria. Dietro le spalle le foto ritagliate da settimanali femminili: Richard Gere, Tom Cruise e Antonello Costa. Un comico da tv private di Roma.
Pare normale lei. Ma non lo è. Perché parla da sola. Fa dei versi. A volte mi sembra che sbavi. Ma credo che sia suggestione. È sempre seduta ed è quella che sicuramente non è qui. È altrove. Non si sa dove.
Controllo sul tavolo a disposizione se ci sono comunicazioni per il mio studio. Come al solito non c’è nulla.
Alzo una mano. «Allora buona giornata a tutti.»
Esco e mi chiudo la porta alle spalle.
La chiamo “la stanza dei geni”.

A 18 anni ho intrapreso la mia personale carriera professionale, che poi ho scoperto non essere tanto personale ma condivisa da milioni di altri giòvani. Tale carriera si compone di alcuni ingredienti base.
Essere nati alla fine degli anni ’70 o nei primissimi ’80.
Avere assorbito dai pori durante i primi anni di vita, la straordinaria sensazione di euforia e di successo che trasudava dal decennio più rampante del ‘900, attraverso pubblicità, cartoni animati e serie televisive.
Da bambino dovevi avere PER FORZA le Reebok Pump. Non si capisce il motivo per cui a 8 anni bisognava possedere scarpe inutili come le Reebok Pump.
Giunti poi, carichi di aspettative, nel decennio successivo, sensibilizzati dai movimenti che cominciavano ad articolarsi nel mondo, bisogna avere intrapreso carriere universitarie inutili e non spendibili come sociologia, antropologia, Dams, scienze della comunicazione, lettere, scienze politiche, lingue orientali… Quanto basta.
Con questo impasto si è finalmente pronti e si comincia a fare qualsiasi lavoro capiti per potersi mantenere indipendenti. Un po’ indipendenti.
Si guadagna per spendere in viaggi, in macchine fotografiche, in “esperienze di vita”, per “conoscere il mondo”.
Si evita con cura di legarsi a lavori stabili, in ufficio, “opprimenti”.
Si fanno esperienze lavorative apparentemente senza senso e senza un filo conduttore. SONO senza senso. Siamo la prima generazione davvero fluida, flessibile.
Agitare e servire a temperatura ambiente.

Sono immerso nella mia teoria sociogastronomica proprio mentre arriva il mio turno al Consiglio di Stato. Oggi devo depositare tre ricorsi e controllare all’Ufficio relazioni col pubblico se sono state depositate delle memorie.
L’impiegata mi vede e sorride. Le piazzo il malloppone di scartoffie sulla scrivania e lei comincia a mettere timbri e a fare alcune osservazioni sui ricorsi, che mi risultano completamente prive di significato.
La guardo negli occhi mentre non capisco un cazzo di quello che sta dicendo. Sfodero uno dei miei sorrisi più innocenti e lei mi lancia uno sguardo complice e comprensivo.
Mi tratta come un ragazzetto sperduto e incapace ed è contenta di potermi aiutare. Io per parte mia penso che sono un ragazzetto di trent’anni, che in un altro paese avrebbe già una famiglia e dei figli a carico, e invece non sa fare un cazzo, e ha fatto un po’ tutto.

***

Mia nonna Olga mi chiede:
«Ma tu quando xè che pensi de farte una famégia? Ti gà quasi trenta ani. Te sì un omo fatto».
Lei è nata nel 1908 a Venezia e le sue categorie sono un po’ diverse dalle mie.
Per dire, ha deciso che non può morire finché non avrà seppellito Craxi (Bettino), Andreotti e Berlusconi. Highlander!
«Sai nonna, i tempi sono cambiati… la gente non mette più su famiglia a 30 anni… non sono anormale.»
«Ti xé reción??» (Sei per caso omosessuale?) risponde lei in dialetto.
«No nonna, sono normale, ma….ora scusa devo salutarti. Ci sentiamo presto. Stammi bene!»

***

«Ginevra, tu non puoi capire quello che sento. Anche se ce la metti tutta. Non hai mai provato quella sensazione di frustrazione, di delusione, voglia di rivalsa, invidia per quelli che fanno quello che vogliono e rabbia. Rabbia enorme di quando ti devi adattare a fare qualsiasi cosa per avere una dignità…»
«Quanto sei stronzo! Pensi che io non abbia fatto fatica? Pensi che fai fatica solo tu?»
«No, penso che non sai cosa vuol dire dover fare il vago con la propria donna perché ti vergogni di dirle che non puoi pagare la tua parte di affitto questo mese. Non ti ci sei mai trovata. In più la tua donna invece di fare la vaga lei, di capire che sei in difficoltà ti dice che non sei stato ai patti…»
«Infatti non sei stato ai patti. Avevamo un accordo. Dovevamo dividere le spese e tu non sei stato in grado di farlo. E poi io la capisco la tua situazione. Che ti credi? Anche io ho delle amiche che hanno avuto difficoltà economiche e lavorative. E loro mi raccontavano proprio queste cose. E LORO andavano a fare le cameriere al pub. Non come te che stai a casa a fare le traduzioni.»
«…»
«…»
«Preparati va. Se no arriviamo tardi a casa di Roberta. Poi a via Giulia non si trova un cazzo di parcheggio. Ma quella una casa in un posto normale non se la poteva trovare?»

Si trucca nuda davanti allo specchio del bagno. In testa un cerchietto verde con le orecchie di Shrek. I piccoli piedi sul tappetino di pelo bianco. Lo sguardo corrucciato. Arrabbiato. Dispiaciuto e DELUSO.
Mi fa sangue. Da morire. È sensuale. Mi fa impazzire. Cazzo. E non posso nemmeno dirglielo, perché abbiamo litigato. Ma se io ora voglio solo smettere di essere arrabbiato e scopare con te? Se ti voglio baciare? Come faccio?
Esco dal bagno e riprendo la parte che devo recitare, del fidanzato in lite. E il momento è andato via per sempre.
Aperitivo a casa di Roberta. Attico e superattico a via Giulia, nel centro storico di Roma. Atmosfera accogliente. Volti sorridenti, bicchieri sempre pieni. Ginevra è contenta, sembra essersi ripresa. Mi guarda e sorride. È felice che io le faccia sempre fare bella figura con tutti i suoi amici. Tutti le ripetono che «si è trovata proprio un uomo come non se ne vedono più». Cazzo se valessero davvero le opinioni degli amici avrei svoltato! Per non parlare dei genitori.
«…Insomma, dovevi vedere questi tailandesi. Sorridenti! Praticamente ci siamo fatti il giro di tutte queste isolette. Ognuna un paradiso terrestre. E poi si lamentano. Ma guarda dove stanno! Comunque capisco pure che alla lunga uno si possa rompere le palle in un posto del genere. Alla fine dopo che sei stata lì due settimane ti manca tutto! Perfino il traffico di Roma! E tu che stai facendo in questo periodo Samuele?»
La solita domanda del cazzo. Perché devo sottopormi a questo tutte le volte?
Tra l’altro nel loro mondo l’espressione “cosa fai in questo momento” significa se ti trovi nei sei mesi all’anno di lavoro o nei sei mesi di non fare un cazzo.
Ginevra non lavora da qualche mese perché è estate e ha smesso di girare fiction o programmi vari.
Lei si definisce DISOCCUPATA.
Io mi sento schizofrenico. Come posso camuffarmi?
Io domani mi alzo alle sette per andare a portare memorie difensive di un avvocato di Cagliari al Consiglio di Stato. Tu sarai a casa a studiare una parte per l’ultimo film con Riccardo Scamarcio.
Io faccio colazione col maalox per poter affrontare la giornata. Tu tiri fino alle cinque di mattina a parlare delle tue vacanze in Tailandia.
Non provo invidia. Piuttosto sconcerto. Come fai a non farti toccare dal crollo del mondo? Come puoi non sentire che la nostra civiltà si sta dissolvendo?
Oddio quanto sono pallosi i miei pensieri.
E poi ‘ste tartine con la polpa di granchio stanno benissimo con il Pinot grigio.
«Beh, ora sto lavorando su un progetto legato ai temi della giustizia.»

***

Ripenso cosa mi dicevi all’inizio:

«Perché stai con me Ginevra? Cosa ti piace di me?»
«Mi piaci perché sai un sacco di cose…»
Questa è la risposta che una bambina dà a suo padre:
Perché vuoi bene a papà, tesoro?
Perché sai un sacco di cose!

E…. no, è vero. Io non sono e non potrò mai essere tuo padre.
Anche se non mi fai tagliare la barba o i capelli per assomigliargli di più.
Anche se ti fai portare in quel bar a Piazza Ungheria dove fanno gli hamburger così buoni dove ti portava sempre lui.
Anche se mi chiedi protezione e sicurezza, emotiva, sociale, economica, quando sai da sempre, da quando mi hai “preso” quella sera sul terrazzo alla festa a San Paolo, che nella migliore delle ipotesi ero uno scalzacani. Anzi, come dice proprio tuo padre “senza arte né parte”.
A malapena riesco a essere figlio di genitori per i quali sono un alieno.

Mi vedo a casa, dopo cena, dopo Un posto al sole, mentre guardo trasmissioni sataniche come Ballarò o Anno Zero o Porta a Porta. E parlo col televisore. Urlo, mi incazzo e impazzisco per l’orrore. Io ho il bisogno di urlare in faccia a questa gente la verità, di svelare le menzogne che ci raccontano.
Devo guardare in faccia Santoro, Floris, Vespa, e gridare che sono dei maledetti bugiardi. Non hanno nessuna etica. I loro salotti televisivi sono pieni di immondizia parlante.
Sono perfettamente consapevole che sto parlando con una scatola luminosa inerte. Sono lucido. Lucidissimo. Perché nei momenti di tensione sono anche troppo lucido. Ma lo devo fare. perché altrimenti IO MUOIO.
È la sindrome del cavaliere Jedi. Ovvero: perseguire la verità anche a costo della propria vita.
È esattamente la stessa sensazione che provo a volte quando parlo con te, Ginevra. So che DEVO perseguire la verità, a costo di qualsiasi cosa, a costo di vederti andare via perché non la puoi sentire, a costo della vita, appunto. Ma la devo dire, la devo urlare. E la grido a te, un interlocutore che nella migliore delle ipotesi è capace e pronto ad accettarla tanto quanto lo è il mio televisore Mivar.
Come quella volta che ti stavo finalmente spiegando i motivi della nostra crisi.
«Samuele, non ci sono motivi. Te l’ho detto, mi hai deluso. E ora non sono più attratta da te. È tutto qui».
«Cazzo non è possibile deludere una persona in modo così definitivo e fragoroso, ti rendi conto? Come è possibile? Che cazzo avrò fatto mai??»
«Non sei stato ai patti. Avevamo un accordo. Non sei stato all’altezza dell’impegno che avevi con me.»
E ora tu mi devi giustiziare senza appello, vero?
Sei sdraiata sul divano. È sabato pomeriggio, è San Valentino, e io sono venuto in quella che era casa nostra a parlare con te, a giocarmi le mie ultime cartucce. Per provare a rimettere in piedi questa storia.
Tu sei stanca. Sei stata a cavallo stamattina. E mentre ti parlo chiudi gli occhi. Mentre ti spiego che il nostro rapporto merita un’altra chance, che ci vogliamo bene, che non ho mai avuto tanta sintonia con una donna, tu ti sei addormentata.
Io sono sconvolto. E tu sei bellissima. Una bambina addormentata sul divano. Vorrei baciarti perché tutta la mia rabbia si è sciolta grazie alla tua immaturità.
Io non sono più arrabbiato. Mi stai mancando di rispetto: tu dormi mentre io ti parlo. E io invece di prenderti a ceffoni ti sorrido e ti copro con la tua copertina di pile rossa.
Quando ti svegli, un’ora dopo, è tutto finito. Hai voglia di invitare amici a cena e vedere tutti insieme il dvd di Wall-e che ti ho regalato.
La nostra discussione è stata cancellata. Sei bella e fresca come una rosa. Stasera dopo cena non dormirò con te. Perché «è sbagliato continuare a dormire insieme». Perché sono mesi che «ormai dormiamo come fratellini…»
COME FRATELLINI!?!?! Io dormo come una belva affamata. TU dormi come una sorellina, forse. Io dormo col veleno.
Ho voglia di te! E ho la frustrazione di non potermi avvicinare a te perché mi respingi. Perciò mi abbracci come una sorellina (Io non ho mai dormito abbracciato a mia sorella. Mi viene ribrezzo solo a pensarla una cosa del genere) e stai appiccicata lì. Fino al giorno in cui mi hai sbattuto fuori.

Faccio i bagagli e torno a casa dei miei genitori dopo due anni di assenza. Mi accolgono in modo affettuoso e comprensivo. Io ancora non riesco a capire bene qual è stato il momento esatto in cui il tuo amore è diventato delusione.
In compenso ho capito però che la nostra distanza non è di quelle che servono a ricucire. È di quelle che servono ad allontanarci. Tu non mi accoglierai mai più. Probabilmente troverai qualcuno che ti tratti da principessa. Qualcuno più adulto di me. O magari un artista. Un musicista. Un saltimbanco che ti faccia sentire leggera.
Non me.
È il precariato affettivo.
Tra qualche mese riuscirò a dire che tu non potevi fare altrimenti, che non sei cattiva. Che avresti tanto voluto amarmi ma non puoi. Che avresti voluto che io fossi un altro per potermi amare. Avresti voluto che fossi sicuro di me, indipendente, rassicurante. Un uomo, insomma. Non un trentenne indeciso, senza un’identità e senza prospettive. Insomma. Io.
Tra qualche migliaio di euro di psicanalista potrò assolverti per avermi scaricato e cancellato dalla tua vita, perché comprenderò l’enormità degli ostacoli che devi affrontare ogni giorno a causa della tua famiglia, di quello che ti hanno fatto passare, della tua impossibilità di crescere emotivamente.
Oggi però sei solo una stronza.

***
Cara Ginevra,
È una lettera così. Una riflessione su di me e su di te. Senza filtro.
Cerco la verità. Il confronto profondo. Con una persona che per me è stata un cardine. Tu. Per caso o per “destino”, mi hai fatto pensare, attivare sinapsi, scoprire lati oscuri.
Oggi ho capito una cosa clamorosa. Cerco di riprodurre un modello, che non ho imparato. L’ho “visto” mettere in pratica. Per anni, senza saperlo, e ho incamerato, ho costruito un’immagine che ho provato a riprodurre senza successo. Mi sono presentato a te, come a diverse altre donne della mia vita, come salvatore, come quello che ha le risposte, che sa come fare, come la roccia a cui aggrapparsi. Quello che ho capito essere mio padre nella mia famiglia. Anzi, l’immagine che di mio padre ho costruito da bambino. Tu, come le altre, avevi bisogno di questo, anche se non mi amavi. E quando, come sempre, non ce l’ho fatta, tu ti sei incazzata con me. Perché non ho rispettato le aspettative.
Io sono cresciuto fino a oggi pensando di non avere niente a che fare con mio padre. Invece volevo riprodurre un modello. Quello che mio padre è per la mia famiglia. La roccia. La sicurezza. Io vorrei essere l’uomo anni ’50 che è lui. Pensavo di poterlo essere. E invece non lo sono. Illudo le persone. Quelle come te. Quelle come tanti altri. E poi le deludo. Perché ho interiorizzato un modello, difendere la mia donna, proteggerla, essere il punto di riferimento. E poi non lo sono.
Su questo oggi inizio il mio cammino.

«Pronto!? Chi si becca il primo vaffanculo della giornata??»
«Samuele sono Giorgio. Idiota! Mi hai detto tu di chiamarti alle otto per andare al mercatino rom…»
«Ah, scusa. Sto scrivendo una lettera a Ginevra. Ero concentrato.»
«Ancora co’ Ginevra?? La vuoi smettere? Gira pagina!»
«Giorgio stavolta ci sto provando. Sta lettera è fenomenale. Vedrai che rimarrà impressionata. E tornerà strisciando. E sarò io a dirle NO stavolta…»
«Certo, certo…. sto al bar sotto casa tua tra venti minuti. Sbrigati.»

Penso continuamente a te. Chi sei, di cosa sei fatta, come ti comporti. Sei un’ossessione. Capire te mi serve a capire me. È un dovere che ho.
Io sono stato attratto da te per motivi forse patologici. Perché amo le persone “passive aggressive”. Quelle che da fuori sono socialmente vincenti, che però mostrano un lato che le mie sinapsi leggono “da salvare” ma che in realtà sono così corazzate da distruggere me.
È psicologia da autobus. Ma è così.
Ora scopro cose di me che fanno paura. Che non ho voluto mai vedere. E lo faccio anche grazie a te.

Sei una donna sola. Sola nel vuoto. Ti circondi di rumore. E non ho saputo dirtelo altrimenti, tranne che così. Di amici e situazioni “rumorose” che non facciano sentire il silenzio che ti distrugge. Feste, serate, aperitivi, eventi. Impegni, sonno e noia, film, serie televisive, giochi. Sempre qualcosa da fare, per distrarti. Persone che non ti mettono in difficoltà seria. Che non sollevano mai temi scabrosi. Forse perché ti chiami Ginevra Mischianti. Persone meno capaci di te. Tu sei sulla difensiva, impenetrabile, riservata.
La butti in caciara, rispondi alle critiche e alle difficoltà attraverso l’ironia. Per non tirare fuori i tuoi sentimenti, per non far vedere che sei umana, che sei debole, che puoi soffrire.
Invece ascolta il tuo silenzio. La tua paura, la tua timidezza.
Mi vuoi fuori dal tuo ambito di amicizia perché è il tuo unico appiglio, caldo, comodo.
Poi alzarsi, routine, cavallo, un po’ di lavoro, dormire, uscire. Per mesi. Sempre uguale e sempre vuoto. Sempre rumoroso.

Tu sei nata e cresciuta senza un padre. Hai creato una immagine di uomo ideale che nessun uomo può incarnare perché non esiste.
Tuo padre non c’è stato. Non ce l’hai avuto. Ti ha tolto qualcosa di importante. E tu non sarai soddisfatta di nessun uomo, perché in mancanza di un modello di riferimento maschile ne hai costruito uno che non c’è.
Il nostro rapporto non poteva funzionare perché io non sarei mai potuto essere sovrapponibile all’uomo che cerchi. Perché è un uomo inventato.
Oggi piangi ancora quando parli di tuo padre. Perché non ti ha mai portato in montagna, perché si sposa senza chiederlo alla sua principessa, perché fa cose coi suoi nuovi figli che a te ha sempre negato. Non recupererai mai quello che hai perso. Potresti forse instaurare un rapporto nuovo. Chi lo sa?
Questo è un punto chiave di te. Di te da sola e di te con me o con un uomo.

Eppure hai delle capacità sorprendenti. Penso a cosa amavo e amo di te. Non la tua simpatia. Non la tua bravura. Non la tua fama. Non la donna che fa le battute, e spopola in tv.
Tolgo tutti questi orpelli, questi elementi di distrazione. Amo la persona che potrebbe uscire dalla gabbia e ancora non lo ha fatto. Amo quello che sei e non che FAI. Sotto a tutto, alla noia, alle routine rassicuranti, alla ostinata volontà di non vedere e non sentire, sotto tutto questo sei luminosa.

Io amo chi c’è dietro. Ginevra quella che “può” emozionarsi per le cose piccole, quella che non si vergogna di amare, di essere triste, o debole, o dirompente. Che è una bomba perché lo è lei. E quella Ginevra non deve per forza amare me.
Siamo oltre questo.
Questa lettera non è per riconquistarti o farti ripensare a me. È perché io lo DEVO fare. Devo dirti quello che penso. Perché è la mia giustizia. Altrimenti IO MUOIO.
Magari tu non sai nemmeno se vuoi fare il tuo lavoro, se è in questo campo che vuoi costruire la tua strada. Magari sei stata buttata nella mischia troppo giovane e non lo sapevi cosa volevi fare. Se volevi questo. Dove puoi stare comoda senza metterti mai alla prova. Ma nella sofferenza.
Tu non sei felice. Di te. Di quello che fai. Godi di alcuni aspetti ma io l’ho visto e l’ho sentito. Ho visto pezzi di te che non si vedono e sono nascosti e si mimetizzano.
Io esco dalla tua vita. L’ho fatto e non rientro. Ma ti parlo e non ho paura di dirti queste cose. Le penso.

Hai pensato che io potessi essere un uomo da modellare secondo i tuoi parametri. Quando ti ho deluso mi hai semplicemente detto “Sai che c’è? Non vai proprio bene. Ciao. Ora diventiamo amici.” Non funziona così.

La nostra convivenza a me ha insegnato tanto. E il mio è un modo per restituirti qualcosa. In maniera goffa, incompleta e forse incomprensibile. Vorrei che un giorno ti confrontassi davvero con me. E te lo dico solo perché tu, non so perché, mi hai dato gli strumenti per andare a vedere giù. Nel mio fondo. E fa male, fa paura, ma è fondamentale.

Grazie a te intraprendo un viaggio lungo e difficile. Voglio dirti che lo puoi fare anche tu e che è bello e doloroso.
Magari tutto quello che ho scritto finora senza senso, senza rispetto, ti fa male o schifo. Ma lo scrivo perché tu reagisca. Perché tu sappia che è questo quello che io ti voglio lasciare.
La stima per te, che fai di tutto per essere superficiale, per non vedere il baratro. Il baratro però si può saltare oltre che essere spaventoso e buio e nero.
Probabilmente dopo questa lettera non vorrai più saperne di me. Ma tanto mi pare che a questo punto siamo.
Però io devo fare un tentativo. Anche violento. Devi sapere che qualcuno ti dice tutto. E ti tratta da persona matura, adulta, e ti stima tanto da pensare che capirai. E qualcosa ti resterà di questo.

Amore per me non vuol dire pensarti felice con qualcun altro. Vuol dire pensare che puoi essere felice con me. Ma se proprio non è possibile ti rompo il cazzo perché tu inizi a essere felice con te.
Ti amo con tutto il cuore.
Samuele.

Le conseguenze delle proprie azioni. III.

La mia faccia è un’arancia schiacciata. La mia faccia è un pallone sgonfio. La mia faccia è un gatto spiaccicato.
Dopo il terzo pugno la cartilagine del mio naso è un’eruzione di sangue.
Prima di questo. Nel mio naso passano fiumi di gas. Nel mio naso passano litri d’acqua. Un getto gasato. Litri litri e litri.
Ho gli occhi bendati. Sto annegando seduto su una sedia. Vengo investito da tutto l’Oceano Pacifico in tempesta. Le mani sono legate dietro la schiena. I piedi sono legati alle gambe della sedia.
Grido acqua di mare gasata.
Sono nelle turbine di una nave.
Annego.
Annego cosciente.
Annego.
Mentre annego mi piscio addosso.
Mentre annego provo a urlare.
Grido acqua e sangue.
Gorgoglio.
Sono un fiume strozzato che gorgoglia.
Il mio stomaco è un sacco di viscere.
Il mio stomaco è un sacco da menare.
Il mio stomaco è una busta di vomito.
Il mio stomaco è un fiotto di acido.
La mia faccia è di cartapesta.
Pesta.
I miei zigomi sono ossa di pollo.
La mia lingua è fatta di sangue e di vomito.
La mia gola una grotta di acido e di sangue.
Mangio il mio sangue.
Mangio il mio vomito.
Vomito rabbia.
Vomito bile.
Piangere.