di Dziga Cacace

Eu sou a mosca, que pousou em sua sopa
Raul Seixas,
Mosca Na Sopa

DDV0601a.jpg73 – Mangiati vivi! di un appetitoso Umberto Lenzi, Italia 1980 e zapping notturno

Succede che alle due di notte non riesca proprio a prendere sonno. Accendo la televisione sperando nell’abbiocco e invece, com’era prevedibile perché la televisione le cose migliori le manda sempre a orari impossibili, rimango catturato da questo cannibal-movie atroce ma con una sua forte ragion d’essere (cosa che non so assolutamente cosa possa significare: fate voi). Lo becco già in corsa ma gli antefatti non paiono di grande importanza: Janet Agren e Robert Bolla finiscono in Guinea alla corte di un santone, tal Jonas. Lì è già prigioniera, succube e drogata, Paola Senatore, sorella della Agren (e quanto potrebbero essere diverse?). Il problema è fuggire dal campo di devoti, perché intorno è infestato di cannibali che non vanno tanto per il sottile. Intanto a New York un poliziotto attiva i soccorsi: “Sergente, devo parlare subito con la Guinea… no, non è una ragazza bionda. È un posto di merda dove ci stanno i cannibali!”. Letterale e sublime, anche perché i cannibali se ne stanno in Nuova Guinea e la differenza tra Africa e Asia, insomma….


La vicenda va avanti con tentativi di fuga dei nostri eroi e con la Agren sempre più in balia del reverendo (Rassimov, una splendida faccia da cattivo). Questi ogni sera la droga e poi se la spupazza in maniera perlomeno originale, del tipo che la possiede con un membro rituale di marmo, inserito in loco con malagrazia, oppure la fa pittare tutta d’oro. Alla fine i nostri scappano ma la Senatore finisce preda dei cannibali che se la magnano (scena tagliata) mentre la Agren e Bolla riescono a essere salvati da un provvidenziale elicottero. Intanto la comunità procede a un suicidio di massa (Jonas e Jones, Guinea e Guyana, vi ricorda niente?). Veramente un prodottino niente male, girato in Sri Lanka tra migliaia di cingalesi che degli aborigeni della Nuova Guinea non hanno nulla. Mangiati vivi! ha in ogni caso ritmo narrativo ed è, con qualunque angolazione lo si guardi, molto divertente. Tra gli attori principali sia la Senatore che Bolla pochi anni dopo si sono dati al porno e forse Lenzi ha qualche responsabilità. A Mangiati vivi! segue, sempre dello stesso regista, Cannibal Ferox (Italia, 1981) dall’inequivocabile veste pauperistica. Gli indios amazzonici stavolta sono originali, ma la trama non esiste. Avendo letto sul Giusti di scene in ogni caso terrificanti, inizio un furioso zapping tra RaiUno, RaiTre e Italia Uno. Sul primo canale c’è Tutta colpa del paradiso, mio mito giovanile che visto oggi fa vergognare di brutto. Rivedere le amene valli di Champoluc, i paesani che fanno le comparse e Jacopo, il fratello di Pier Paolo, fa sempre un piacere indicibile, ma il film è lentissimo, con un umorismo piatto e un Nuti gigione. Su RaiTre c’è un magnifico WarBlob che ricorda la tragedia di dieci anni fa: l’agghiacciante certezza di alcuni della necessità di bombardare l’Hitler di Baghdad a confronto con il testardo rifiuto della guerra di pochi. L’Occidente ha provocato leucemie e morti terribili per centinaia di migliaia di iracheni e il figlio dell’Hitler di Washington di allora è il nuovo presidente di oggi. Fino alla prossima guerra, chissà quanto ancora menzogna mediatica globale. Ritorno su Cannibal Ferox e assisto all’evirazione di un personaggio, con il cannibale che si gusta il prelibato mozzicone di carne tra l’esultanza gutturale dei suoi compari. Torno a Nuti e becco la scena in cui Ornella Muti mostra le tette ubertose: allora m’era sembrata una sequenza interminabile, adesso è un lampo. La forza dell’immaginazione di un quindicenne… Tocca di nuovo a WarBlob, a Fede in erezione per i bombardamenti, a Furio Colombo che si scaglia contro i pacifisti, a Ferrara che fa quello che ci ragiona su… Ripasso a Lenzi e vedo in sequenza un tizio sbranato da dei pesciolini che dovrebbero essere piranha, poi Zora Kerova appesa a dei ganci infilzati nei seni e infine l’evirato – ancora a piede libero (e uccello pure, direi) – ulteriormente catturato e con il cranio aperto da un bel colpo di machete (seguono entusiasti gourmet antropofagi a delibare tocchetti di cervello). Non ho sonno, ma è tardi e l’ultima calotta cranica scoperchiata mi convince che è ora. Buona notte. (Diretta su Italia Uno; 13/1/01)

74 – The Night Flier di Un Fraudolento, USA 1997

Da un racconto di Stephen King, un film che ha avuto una discreta valutazione su Cineforum (Aaaah… ecco). E io, fesso, ci ricasco di nuovo. Le cugine Alessandra e Barbara mi hanno spedito a prendere un film da Videoplanet: la scelta è scarsissima e io decido di correre un rischio, tanto per gli horror le due son di bocca buona. Il film è sinceramente una porcatina, uno di quegli horror a cui non credi un minuto. The Night Flier (diretto dall’ignoto Mark Pavia) mette in scena una specie di vampiro, grande, grosso e tenebroso, che squarta a unghiate la sue vittime. Al primo ucciso dopo tre minuti Barbara osserva: “Abbiamo già svaccato”. Un giornaletto che si occupa di casi misteriosi mette il suo miglior reporter alle calcagna di questo assassino efferato che vola di aeroporto in aeroporto, facendo gran strage di passeggeri, controllori di volo e inservienti. Il tipo di punitore che molti avrebbero mandato a Malpensa il giorno di Natale, per intenderci. Il giornalista è un tipo odioso con la faccia da culo e che, quanto a cinismo professionale non ha nulla da invidiare al serial killer vampiresco. Finisce che il tenebroso incastra proprio il giornalista e vola via verso nuove avventure: si preannuncia un secondo capitolo cinematografico che eviterò accuratamente. Devo dire che per i primi quaranta minuti ho dormito con discreta soddisfazione, per cui il mio giudizio è più di altre volte da prendersi con le molle, ma ho avuto l’impressione di un film vecchio come impianto e realizzazione, senza alcuna ironia. Alessandra, da sempre ammiratrice dello “spillato” di Hellraiser, ha apprezzato la dentatura del mostro (un canino di sopra e uno di sotto, centrali, lunghi e aguzzi) e poi ha avuto gli incubi per tutta la notte. Io ho dormito benissimo, durante e dopo. (Vhs originale; 14/1/01)

75 – Still Crazy di Brian Gibson, USA/Gran Bretagna 1998

A vent’anni dall’ingloriosa fine del gruppo (dissidi interni e una fuga dal palco di un raduno rock), gli Still Crazy tornano assieme e partono per una tournée in Europa: l’obiettivo è partecipare al concerto commemorativo di quel festival che li aveva visti scomparire. Dal gruppo manca il leader, il classico visionario alla Syd Barrett, scomparso per storie di droga. Gli altri hanno tutti ancora qualche remora col passato, specialmente col cantante che era intervenuto a sostituire un membro originale della band. Tra scazzi, incertezze, disavventure, la band inizia a carburare e avviene il miracolo… C’è un po’ di tutto: tracce di vere biografie rock, un po’ di Commitments (ma con finale buonista, stavolta), molto di Grazie signora Thatcher e del cinema popolare (e populista) britannico. Ben recitato e con qualche guizzo (pochi, eh), il film è comunque bruttino per molti motivi: telefonato come solo gli inglesi retorici san fare, didascalico nel mettere in scena tutto quel che si dice e nello spiegare tutto quel che si mette in scena, furbetto nell’ammiccare continuamente agli appassionati della mistica ed epica del rock, costruito con un intreccio abbastanza prevedibile negli svolgimenti e negli esiti e con un finale che più melenso non si può. Ciò nonostante Still Crazy mi ha divertito perché all’epica del rock io credo ciecamente e qui i rimandi sono dal banale al coltissimo e ci trovi le vicende di gruppi immemorabili e sfigati, ma anche la tragedia di Peter Green. E poi, finalmente, si parla della musica degli anni Settanta, di quella che piace a me: tra l’hard rock, il glam e il buon boogie di una volta. Still Crazy si fa vedere volentieri e si mettono da parte tutte le riserve di tipo estetico. Discreta la musica originale, per lo più scritta da Mick Jones (quello dei Foreigner, suppongo). (Vhs da Tele+; 17/1/01)

DDV0602a.jpg77 – Postman Blues – Posta omicida di Sabu, Giappone 1997

Il candido postino Ryuichi Sawaki conduce una vita monotona. Un sera, però, consegna una lettera a un vecchio amico, Noguchi, che se appena tagliato il mignolo in ossequio alla yakuza. Il mignolo finisce inavvertitamente nella sacca delle lettere di Ryuichi che non se ne accorge. Va detto che Ryuichi non è un postino esemplare e a casa fruga nella corrispondenza altrui. Una lettera lo incuriosisce e va a cercare la ragazza che l’ha scritta. Kyoko è una malata di cancro, la conosce, se ne innamora e durante le frequenti visite all’ospedale fa amicizia anche col killer Joe, ormai malato terminale. Tutti questi incroci lo rendono il sospettato principale di una squadra di polizia che nella totale mancanza d’indizi rafforza la convinzione che sia lui, Ryuichi, a essere bravissimo nel rendersi insospettabile. L’equivoco cresce anche perché i poliziotti trovano nella casa del postino il mignolo scomparso e perché Joe ammazza due poliziotti. Si scatena la caccia all’uomo mentre Ryuichi corre all’ospedale per l’ultima seduta di chemioterapia di Kyoko. Tutti convergono in un unico posto: i poliziotti per catturare l’inconsapevole e spensierato nemico pubblico numero uno, Joe e Noguchi per difenderlo e proclamarne l’innocenza. Il finale non ve lo dico perché questo è un film che va cercato e visto, ma è un finale poetico come solo i giapponesi sanno pensarlo. Beh, molto molto bello: Postman Blues è incredibilmente nipponico nel trattare i temi della morte, del caso, della violenza, virando spesso sull’ironia o sulla comicità pura, in maniera incongrua per noi occidentali, ma è un film godurioso proprio per saper regalare queste emozioni inaspettate. Humour nero, citazioni divertenti (Besson, Kar-wai, Tarantino), brutalità e lirismo. Scritto e diretto da Sabu (pseudonimo di Hiroyuki Tanaka, anche attore ed ex cantante), montato e fotografato benissimo, con stile ed eleganza, Postman Blues ha pure belle musiche di Daisuke Okamoto. Sayonara. (Vhs da Tele+; 20/1/01)

81 – Happy, Texas di Un Belinone, USA 1999

Week end con solitaria trasferta genovese e prevedibile abbuffata di cinema. Si comincia con Happy, Texas (regia di Mark Illsey) una commediola indipendente che, manco a farlo apposta, tratta di omosessualità. Giusto ieri ho esaltato il piccolo Fuckin Åmål per l’intelligenza dimostrata: qui cosa dovrei dire? C’è professionalità, perché per il resto… io non capisco: quando questo Happy, Texas è stato distribuito da noi, ricordo paginate sui quotidiani sulla presunta buona qualità del cinema indipendente americano targato Sundance. Questa è una commedia che talvolta fa ridere, spesso no. Che è impaginata con cura anonima e segue un copione furbo, accattivante, innocuo, dolciastro. Sí, si fa vedere, e poi? Attori mediamente simpatici, la trovata di ambientare tutto in un Texas che, al posto di essere quello omofobico e forcaiolo di Bush Jr., è invece popolato di omosessuali carinissimi e insospettabilmente appassionati di danza e poesia. Il tutto su un classico impianto di commedia degli equivoci. Contenti loro – la critica, Redford e il pubblico bove -, contenti tutti. Io, anestetizzato dalla pratica televisiva, sopporto con gandhiana tolleranza. Dopo questa discreta ciofeca, indugio sull’inizio de La cicala di Lattuada: c’è da fare l’una aspettando Fuori Orario e un prezioso documentario sull’avventura messicana di Ejzenstejn. Siccome sono uomo poetico, ammiro in rima gli occhi vivaci e le tette procaci di Clio Goldsmith. Ma l’infelice recita come un baldacchino e La cicala, nel complesso, soffre di un’immagine squallidissima e di un doppiaggio da brividi. Rinuncio avventandomi su una preziosa reliquia d’epoca: un concerto di Emerson, Lake e Palmer… (Vhs da Tele+; 26/1/01)

82 – Pictures At An Exhibition di Un Pazzo, Gran Bretagna 1972

I clamorosi e cafonissimi Emerson, Lake e Palmer in una gloriosa esibizione. Il super gruppo aveva in repertorio molta musica classica, virata secondo il gusto eccessivo dell’epoca, e questo concerto vede i nostri eroi cimentarsi con i famosi Quadri di un’esposizione di Mussorgskij. Premetto che sono cresciuto con il disco (di mio padre) che immortalava questa rivisitazione rock, per cui finalmente ho dato un’immagine a una musica ascoltata tante volte. Emerson si presenta sul palco come un cioccolatino Quality Street, fasciato in pantaloni e gilet attillatissimi, di colore tra il celeste e il verde e con strass argentato. Ovviamente, sotto, è a torso nudo. Carl Palmer sfodera una gustosa blusa di vellutino dai colori psichedelici. Il più urbano è Greg Lake, con camicia e gilet. Ma era anche il più brutto e probabilmente non se la sentiva di fare lo splendido. Strumentalmente il trio vantava grandi capacità individuali e un affiatamento eccezionale. Il virtuosismo spesso sfociava in pagliacciate che, a seconda dello spettatore, possono imbarazzare o esaltare. Siccome in me alligna uno spirito circense, io apprezzo eccome. Di fronte a un pubblico di studenti inglesi, agitati come gatti di ghisa e tutti intabarrati in squallidi cappottoni, i tre si scatenano e, nonostante la temperatura, Palmer riesce a fare il consueto numero dello spogliarello senza perdere un colpo alla batteria. Tutto è piacevolmente eccessivo e Emerson tenta di fare con le tastiere ciò che più fortunati chitarristi riuscivano a fare con il loro strumento: con clavinet, moog, hammond e un Grand Piano Steinway è più dura, ma il buon Keith non si perde d’animo e fa lo show, risultando il fulcro della band. Lui è il più teatrale, Palmer il più fisico, Lake il più lirico. L’esibizione prevede versioni del disco citato precedentemente più qualche rimasuglio del passato, tipo Take a Pebble. Dal terzo pezzo in poi (e chissà perché solo allora) la regia di Nicholas Ferguson presenta una serie di interventi di dubbio gusto sull’immagine. Non conosco il nome del procedimento tecnico, ma le immagini si spappano in caleidoscopi coloratissimi, con i classici abbinamenti cromatici dell’inizio degli anni Settanta. Tricromie tipo giallo, rosa e arancione oppure marrone, celeste e viola, per intenderci: abbinamenti che impressionano veramente la retina. E poi tante “fughe”, come quando si rimane in mezzo a due specchi dal parrucchiere e le immagini si riflettono all’infinito (tecnicamente si chiama “andare in nuca”, secondo la definizione di Fantozzi). Praticamente bisogna indovinare cosa accade, perché la visione s’è trasformata in un’esperienza sensoriale, un trip orgiastico tra musica e immagini, di sicuro valore storico. A un certo punto interviene un serratissimo montaggio di frame di fumetti della Marvel, dall’effetto suggestivo. Follia. Strano film dal sicuro valore testimoniale. (Vhs da Canal Jimmy; 26/1/01)

Ddv0603.jpg84 – O bandido da luz vermelha dell’immenso Rogério Sganzerla, Brasile 1969

E finalmente il capolavoro: aspettavo da tanto un film che mi desse piacere fisico e intellettuale e c’è voluto questo strambo e geniale film brasiliano, godardiano, liberissimo, fresco, pieno d’idee, astruso e divertente da morire: una volta tanto lasciatemi sproloquiare di gioia. Proviamo a fare un suntino: siamo a Rio de Janeiro e tutta la nazione segue le intrepide gesta di un delinquente, Jorginho detto Luz, fiore del male del malfamato quartiere Boca do Lixo. Sulle sue tracce l’amareggiato investigatore Sadi, uno che fuma come una ciminiera perché “tanto c’è il trapianto del cuore”. Detto così sembra un gangster movie di ambientazione esotica, ma la narrazione non è per niente così lineare. È frammentata da una miriade di stacchi di montaggio e l’unico vero filo conduttore è la voce di due speaker radiofonici che sembrano cantastorie. Luz è un eroe maledetto, uno stupratore, un dandy, un assassino, un balordo che imita Ringo (lo vede al cinema e lo sceglie come modello di rozzezza). Ma Luz, anche se inconsapevolmente, è uno strumento di rivalsa per tutti i poveri del terzo mondo, il vendicatore di secoli di oppressione. Una voce ci ricorda: “Il terzo mondo esploderà e chi ha le scarpe non sarà risparmiato”. Luz viene trattato come un eroe romantico e gli speaker si chiedono: viene fuori da un libro di Freud o da Boca do Lixo? È un genio o una bestia? Neanche Luz lo sa e continua a chiedersi: “chi sono?”. Si accontenta di pensare che, volendo sua madre abortire, alla fine è venuto così. Parallelamente alle gesta di Luz, assistiamo anche all’ascesa politica di un truffatore, demagogo e populista chiamato J.B. Da Silva, boss malavitoso di Boca do Lixo. Luz alla fine verrà tradito da una prostituta, ma prima di suicidarsi e portare con sé Sadi si vendicherà anche di Da Silva, facendolo saltare con una bomba. Finita qui? Macché: stanno arrivando gli extraterrestri (!), preceduti da una simbolica luce rossa. Film visionario, pazzoide, lucidamente politico, montato con rara maestria, ritmato e musicato con creatività, coraggioso espressivamente e per i contenuti, O bandido da luz vermelha parla di colonialismo storico e moderno, denuncia l’egemonia culturale e politica dell’occidente, annuncia la rivoluzione ventura. Allora non accadde nulla, ma c’è tempo. (Vhs da RaiTre; 28/1/01)

86 – Brivido caldo di Lawrence Kasdan, USA 1981

Era un po’ il nostro regista, Kasdan. A metà anni Ottanta ci aveva raccontato l’amicizia e la fuga con Il grande freddo e il west con Silverado. E Brivido caldo era il noir per noi sbarbati, un noir erotico e soprattutto fradicio. Era un film ancorato in ogni caso agli anni Settanta: i corpi non sono già di plastica (come nell’anticipatore American Gigolo), ma pulsano, si rovinano con sigarette e alcol. Il sesso non è quello patinato di 9 settimane e 1/2, ma rovente, sudato e sulla lunga distanza. Qui non si fa palestra ma si corre sulla spiaggia, con una tuta anonima: allora non ce ne potevamo accorgere, ma Brivido caldo non era solo un aggiornamento del noir classico, ma anche la fuga dal decennio dell’egoismo (la “Me Decade”, prima che finisse ancora peggio). William Hurt (altra faccia antagonista di quegli anni, prima di tirare i remi in barca) è un perdente, uno che lo guardi, gli dici due parole e ti rendi conto che è un deficiente. La sensuale Kathleen Turner, la vera protagonista, gliela fa annusare e quello perde la testa e si fa far fesso. Nell’ultima scena lei, ormai ricca e lontana, ripensa alla sua vittima e non si capisce se c’è un’ombra di pentimento o di rimpianto per quello stallone di poco cervello che s’è fatto intortare. Il film è piacevole, ma i personaggi sono sbozzati col martello e ben poco ambigui. La fotografia è leccata, le ambientazioni sono irrealistiche (una Florida brumosa e afosissima) e alcuni dialoghi fanno schifo. Ma al film sono affezionato e gli faccio le pulci solo per non perdere l’abitudine. Però va anche detto che Kasdan, alla distanza, non ha più fatto nulla d’interessante. (Vhs da Tele+; 31/1/01)

Ddv0604.jpg87 – Carrie – Lo sguardo di Satana del miglior Brian De Palma, USA 1976 e poi BOTTE DA ORBI!

Un buon vecchio De Palma per tirare tardi e aspettare Bruno Vespa. Stasera a Porta a porta c’è la tanto attesa rissa tra il (la? Boh) ministro Belillo e la parlamentare nipote del pelatone e, da buon italiano medio qual sono, non me la voglio perdere. Ma veniamo al film, forse uno dei migliori di De Palma, dove il suo sguardo autoriale si coniuga perfettamente con le esigenze di mercato. Il film andò benissimo al botteghino e lanciò definitivamente questo appassionato voyeur. Sissy Spacek è Carrie White, timida ragazzina dai capelli rossi che, contestualmente alle prime mestruazioni, ha appena scoperto di possedere poteri telecinetici. L’evento è doppiamente traumatico e compagne di scuola bastarde e una madre sessuofobica e bigotta non fanno altro che frastornare la già confusa Carrie. Arriva la festa della scuola e Tommy (William Katt, cioè Ralph super maxi eroe!) sarà il suo accompagnatore. Qualcuno però trama e quando i due sono eletti coppia più bella della festa, Carrie subisce un gavettone di sangue di maiale. Non la prende precisamente bene e — grazie ai suoi poteri — fa una bella strage, vendicandosi indiscriminatamente di tutti in un epocale bagno di sangue (mestruale, immagino). Quando torna a casa ce n’è anche per mammina che, per non essere da meno, la attende con un bel coltellaccio. Infine la casa sprofonda, come se Carrie volesse punirsi. Chissà: in queste storie horror non è mai ben chiaro se i significati siano più che altrove pretestuosi. Il fatto è che il film diverte assai perché ha una qualità estetica innegabile e un ritmo narrativo sostenuto. La fotografia è vivida e coloratissima, il montaggio inventivo e in più De Palma ci mette il gusto per l’inquadratura intelligente, il movimento di camera a svelare particolari, lo split screen per raccontare fatti simultanei in posti diversi. Insomma, una consapevolezza cinematografica che, al servizio di una gran fiaba nera di Stephen King, sortisce il bel film. Tra le scene da ricordare quella in cui la high school alla Happy Days viene spappolata in una mattanza che non distingue tra buoni e cattivi, un sabba infernale che fa piazza pulita dei caramellosi sentimenti della classe media americana, dopo averla illusa con una fiaba alla Cenerentola. Clamorosa è anche la scena iniziale (come un David Hamilton al rallentatore: uno spogliatoio femminile dove tra nebbie e vapori si muovono tante adolescenti nude) che dall’erotico vira all’horror. E ce n’è anche per la religione, per l’adolescenza inquieta e la scoperta del corpo e della sessualità, per la colpa e il peccato, magari senza perderci tanto tempo su, ma comunque facendo intendere che non è casuale. Buon film. Ma ora: Vespa! È la prima volta che vedo più di due minuti consecutivi di Porta a porta. Questa sera si dibatte sulla recente sentenza che ha ammesso la pacca “repentina e fugace” al culo della dipendente, il classico caso in cui si prende alla lettera una sentenza e ci si monta su il caso solo perché il giudice è un vecchio rimbambito che ha un linguaggio e una concezione dei rapporti interpersonali risalente all’Ottocento. E vabbeh: su questa cazzata Vespa ci costruisce un talk. E vabbeh bis: la televisione vive di montature, di bla bla. Ma Vespa pensa di rendere la faccenda interessante mettendoci qualche politico a commentare. Ecco ospiti il ministro per le Pari opportunità Katia Belillo e l’onorevole Alessandra Mussolini. Con loro Sgarbi, Chiambretti, Alba Parietti, Antonella Boralevi, Gai Mattiolo ed Ela Weber. Come dire qualche cervello, vero o presunto, e qualche gnocca, vera o presunta. Parte il dibattito e la Mussolini si agita subito come una pescivendola e non gradisce il tono faceto della conduzione che tenta d’imbavagliare l’indignazione delle donne presenti. Chiambretti è lì per promuovere il suo film (che non sta vedendo nessuno e ha guadagnato le critiche più feroci degli ultimi anni: così impara) e dice poco. Sgarbi, come al solito, si ritaglia il ruolo di quello che non ci sta e deve fare il bastian contrario: cosa sarà mai una pacca sul culo? Lui stesso ne ha ricevute a iosa. Vespa si frega le mani (non in senso figurato: lo fa continuamente) e stuzzica Sgarbi sulla faccenda. Le ospiti non ci stanno e c’è qualche schermaglia con Sgarbi che, da sornione, perde la pazienza, spara qualche parolaccia e riceve un applauso del pubblico bove. La Parietti non accetta l’applauso alla parolaccia (un punto alla Parietti). La discussione prosegue con la Boralevi che prova a fare ragionamenti a suo dire “un po’ più complessi” e che si dimostrano di una banalità terrificante. Da sottolineare che ogni volta che la Boralevi interviene, Sgarbi fa finta di leggere teatralmente il giornale, scuotendone rumorosamente le pagine: a malincuore un punto a Sgarbi. La Weber parla poco ed è quella che ne esce meglio. La ministro Belillo fa quella che non si mescola al chiacchiericcio comune (non risparmiandoci anche lei delle banalità con sorriso elettorale) e quando prova a tirare le fila di un discorso che non decolla perché l’ambiente e la conduzione lo impediscono pervicacemente, viene interrotta dalla Mussolini che l’accusa di non aver fatto nulla col suo ministero. Punta sul vivo la Belillo replica che la Mussolini deve chiudere la bocca. A questo punto la Mussolini non sta più zitta per cinque secondi di fila, con Vespa che si gode la scena, fa finta di smorzare la polemica e invece si adopera abilmente per attizzarla. Basterebbe spegnere il microfono dell’onorevole di AN, per sentire la Belillo, qualunque belinata abbia intenzione di dire. Dopo cinque minuti di questa tortura cinese, la Mussolini lancia l’ultima provocazione e la Belillo, allora, non ci vede più. Va minacciosamente verso l’avversaria, rimedia un calcio negli stinchi e reagisce lanciando all’onorevole il radio microfono. Nero dalla regia, con Vespa che recita preoccupazione. Evito commenti perché voglio evitare denunce. Bel match, però. (Vhs da Tele+; 1/2/01)

(Continua — 6)