di Chiara Carlino

Avatar1.jpgEravamo tutti pronti al solito polpettone buonista salviamo-il-mondo con sfondo romantico ed effetti speciali in primo piano, e in parte l’abbiamo trovato. C’è un mondo che viene salvato — ma non il nostro. Effetti speciali ovviamente a palate, ma di rado autoreferenziali, tanto che ho qualche dubbio che il 3D aggiunga qualcosa di significativo all’esperienza dello spettatore.
La trama è la solita storia che va sempre bene, pescata tra le offerte speciali della Grande Libreria delle Idee di Hollywood. Anche i personaggi sono presi al discount, in un pacchetto completo di battute, relazioni, aspetto fisico e modi di fare, tanto da riuscire a dare la sensazione di aver già visto e poter recitare a memoria un film per cui si è appena dovuta sostenere una fila interminabile alla cassa del cinema.
Ma tutto sommato non è il solito polpettone buonista.

In primo luogo, l’artwork è meraviglioso. Non gli effetti speciali, ma il mondo che è stato creato, l’intero concept che ne è alla base. Un pianeta di natura selvaggia, ma che strizza l’occhio alla modernità: un pianeta cyber, sui toni del blu e del viola, che di notte si trasfigura in giochi di luce interattivi, popolato di esseri che reagiscono al passaggio degli abitanti in modi che – se conosciuti – sono spesso benevoli o semplicemente belli. Un pianeta in rete, dove tutto è connesso, e piante animali e persone — per quanto quest’ultima distinzione possa essere arbitraria — posseggono effettivamente una sorta di presa USB universale per un’interazione diretta e profonda.
Che tutto sia connesso e la realtà sia “interattiva” sono concetti di una banalità sconcertante, ma se li spostiamo dalla classica ambientazione new-age dove “tutto è parte di Gaia” a un’ambientazione cybereggiante dove “tutto è connesso, un po’ come internet”, ecco che magicamente abbiamo preso quel concetto, l’abbiamo spogliato di tutte le precedenti associazioni culturali e l’abbiamo rivestito a nuovo, rendendolo interessante, moderno e degno di considerazione anche per quella pop-culture che ama gli effetti speciali e non vuole sentire lagne naturiste.
Coerentemente con il loro pianeta, anche gli indigeni – i Na’vi – conciliano nel nostro immaginario l’antichità primordiale con la modernità più disturbante, collocandosi all’incrocio fra una tribù aborigena e una subcultura metropolitana identificata da tatuaggi fluorescenti, dreadlocks e dilatazioni. Anche qui niente di nuovo: è noto come il primitivismo sia una fonte di ispirazione per le subculture, ma un nuovo vestito può fare molto per rendere chiaro un vecchio concetto.
Dopo la trama (banale) e l’ambientazione (ottima) veniamo alla morale. I “buoni selvaggi”, per fortuna, non sono poi così buoni: sono più simili a una vera popolazione primitiva che alla nostra rappresentazione edulcorata di un ipotetico popolo in simbiosi con la natura. Sono cacciatori. Hanno lotte intestine. E se c’è da ammazzare ammazzano: perché per quanto sia tutto connesso e la natura non prenda le parti di nessuno, quando si tratta di sopravvivenza non c’è imparzialità che tenga. Gli esseri viventi non sono tutti uguali: io sono più uguale degli altri, perché io voglio vivere. Il mio popolo deve vivere, per nessun’altra ragione se non che è il mio (o quello che ho scelto) – e io ci tengo. A meno di diventare Buddha, questo fatto non cambierà, perciò meglio ammetterlo e agire essendone coscienti, piuttosto che negarlo e pretendersi giudice imparziale e superiore, come ama fare il moderno uomo occidentale.
I Na’vi decidono quindi di imbracciare le armi e difendere la propria realtà; la natura stessa prende le loro parti: prende le proprie parti, combattendo per la propria sopravvivenza. E la sopravvivenza dei Na’vi passa anche attraverso una profonda contaminazione: passa attraverso l’accettazione a loro capo di un alieno in un corpo artificiale creato per ingannarli; passa attraverso l’uso occasionale dei mitra e una parziale rottura della tradizione. Nessuna “popolazione primitiva” può rimanere uguale a se stessa per dare a noi il gusto di osservare una realtà incontaminata: l’apertura all’Altro è il primo e unico passo verso la sopravvivenza — anche se si tratta solo di scegliersi un Ikran.

[Chiara Carlino, esperta di filosofia, informatica e cibernetica, ha un proprio blog, mezzanottefonda.]