di Dziga Cacace

Miopia501.jpg214 – Cube dello stupefacente Vincenzo Natali, Canada 1998

Ragazzi, che esperienza. Una lettura distratta dei giornali, una non meglio specificata vittoria a un fantomatico festival di fantascienza (penso Avoriaz), una certa curiosità diffusa, ed ecco che Barbara e io finiamo al cinema Ducale a vedere questo incredibile Cube. L’idea di partenza è bella: un gruppo di persone rinchiuse in una struttura cellulare composta da una miriade di cubi, alcuni dotati di trappole mortali, altri no. Chi li ha portati lì e perché? Come si esce? Esiste una via di fuga? Bei quesiti che vengono frustrati da una recitazione degna di una filodrammatica del profondo cuneese, con attori che sembrano presi casualmente dalla strada. Il dialogo, denso di quesiti esistenziali di spessore marzulliano, mette letteralmente i brividi e il ritmo è teso come uno stracchino (a parte negli ultimi discreti venti minuti). Dunque, una fetenzia di quelle che capitano poche volte nella vita.


Ne ho goduto, in qualche maniera, perché per due terzi del film ho riso di gusto. Come si fa a rimanere impassibili di fronte alla poveretta che si trova dentro questo benedetto cubo e esclama “Porca vacca, io dico porca vacca!” oppure constatando che la scienziata del gruppo ci mette qualche secondo per realizzare che 645 non è un numero primo? Questi sono solo alcuni smarroni di un film che se ha un solo motivo d’interesse è nella bella invenzione scenografica. Tutto ciò che del film dovrebbe costituire la spina dorsale (cioè tensione, buoni dialoghi e bravi attori) manca del tutto e ‘sto cubo rimane una patetica scatola vuota, un semplice involucro. Per umorismo involontario Cube è a tratti esilarante, ciò non di meno è uno tra i film più brutti e imbarazzanti che abbia mai visto al buio della sala cinematografica. La manchette pubblicitaria annunciava: “Non cercate una ragione… cercate una via di fuga”; sí, dal cinema. (Cinema Ducale, Milano; 5/6/99)
P.s.: può darsi che mi sia un po’ sfuggita la mano; ma non lo rivedo, no, non lo rivedo.

215 – Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, USA 1967

Sabato sera casalingo con le cugine diaboliche, Barbara e Alessandra, a Brisino, lontani dal caldo di Milano. Ma stavolta il menu lo scelgo io e opto per un double feature. Per prima cosa ci vediamo Quella sporca dozzina, classico del cinema bellico di Aldrich: narrazione sostenuta, gran ritmo e belle caratterizzazioni dei dodici ceffi che per guadagnarsi uno sconto sulla pena si buttano in una missione suicida al comando del coriaceo Reisman (Lee Marvin, scolpito nel legno). Nel cast spiccano il giovane e sciroccato Sutherland, il misogino e fanatico religioso Savalas, il ribelle Cassavetes, l’eroico Bronson e il divertito Borgnine. Due ore e mezza senza una pausa, con azione e brani di commedia: molto divertente. Un classico. (Diretta su RaiTre; 12/6/99)

216 – Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? dell’ineffabile Giuliano Carnimeo, Italia 1972

E dopo Quella sporca dozzina m’indirizzo su Retequattro e – per il ciclo “I Bellissimi” – propongo alle cugine una porcatina del cinema italiano di genere degli anni Settanta. Le due schizzinose prima fanno le recalcitranti, poi bastano due battute e sono conquistate. Perché quelle strane gocce di sangue… è orchestrato con un bel montaggio nervoso e la sgangherata narrazione thrilling ha una discreta tenuta. Un maniaco guantato ammazza alcune donne che abitano in un grande condominio urbano; siamo dalle parti del primo Argento, con inserti di commedia (forniti da Lionello, fotografo gay – con pesanti battute allusive), nudità (pudicissime oggi) e omicidi inventivi che si susseguono con buona scansione. Zoomate alla velocità della luce e più di una trovata per i punti di ripresa. Talvolta i dialoghi affondano nel ridicolo, ma non importa: era cinema per tutti ed era passabile. Gli esterni sono girati a Genova (piazza Dante, i grattacieli, via XX Settembre) ma con ottiche strettissime e ci ho messo un po’ a capirlo. Simpatici e scultorei gli attori principali (George Hilton e Edwige Fenech) e i comprimari (Paola Quattrini e soprattutto Giampiero Albertini che disegna la discreta figura di un ispettore amareggiato). Inquietante il moralismo di fondo: l’assassino uccide per vendicarsi della società che ha reso lesbica sua figlia (!) e la chiusa del film suggerisce che la regia non la pensi diversamente: l’ispettore conclude che ormai “ogni ciliegia ha il verme” e subito dopo assistiamo a un appuntamento telefonico (a Piccapietra) tra due donne: emblematico fermo immagine e “Fine”. Indecente e sublime! (Diretta su Retequattro; 12/6/99)

217 – Fantozzi contro tutti di Neri Parenti e Paolo Villaggio, Italia 1980

Ancora un sabato sera coatto passato a guardare la tivù. Il menu propone un antipasto cucinato da Blob a base di autentiche perle trash che furono inanellate al Festival di Sanremo tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta: per gioia di occhi e orecchie ecco Delirium, Schola Cantorum, Camaleonti, Fra’ Cionfoli, Gianni Bella e altri mostri assortiti. L’abbuffata prosegue con l’immortale terzo episodio della saga del ragioniere più sfigato d’Italia. Si tratta dell’ultimo ad avere verve e comicità: già qui si sentono i primi sintomi di stanchezza e la surreale comicità dei primi due Fantozzi si trasforma spesso in gag infantili; ma si vola alto con la famosa dieta del prof. Birkenmaier dell’università di Jena, che tortura il ragionier Ugo a botte di polpettine di Bavaria, per non parlare della Coppa Cobram di ciclismo con il nostro eroe che trangugia la “bomba” a base di simpamina, anfetamina, cocaina, Franceschina e peperoncino di Cajenna, altro che Pantani. Fantozzi vincerà (finendo però nel carro funebre) tra nitriti e fischi da locomotiva a vapore: splendido (per l’idea e per il montaggio del sonoro). Il film si conclude su una nota agra: dopo aver scritto in cielo che il megadirettore Arcangelo è uno stronzo, Fantozzi viene rimproverato perché ha pensato e deve correggersi scrivendo in cielo che lo stronzo è lui; ma non importa, tanto Fantozzi (e cito disordinatamente a memoria) si ritiene indistruttibile perché è il più grande perditore di tutti i tempi. Ha perso due guerre, un impero coloniale e ben otto mondiali di calcio consecutivi: fantastico. (Diretta su RaiTre; 19/6/99)

Miopia502.jpg218 – Il mio nome è nessuno del volenteroso Tonino Valeri, Italia/Francia/RFT 1973

Mah! Il mio nome è nessuno è una delle degenerazioni del cinema di Leone: quello che nel Maestro era sberleffo ironico, rivisitazione smitizzante del West, qui diventa farsaccia comica. Abbastanza divertente, ma anche molto bambinesca. Io, devo dire, mi sono divertito proprio vedendo le parti più “popolari”: quando Valeri tenta di essere serio, invece, il film è molto più debole. Non sono memorabili i dialoghi (anche se molto Leone-style) e la dilatazione epica di alcune scene non ha alcuna forza. Inseguendo poi una trama assurdamente complicata (di cui mi son rifiutato di seguire lo svolgimento), qualche volta si sfiora la noia. Terence Hill è Nessuno, pistolero che, se può, preferisce menare schiaffoni, ma che anche con la pistola se la cava egregiamente. Vuole consegnare alla storia il suo idolo, Beauregard (Henry Fonda), e lo porterà a sfidare il “mucchio selvaggio”, 150 cowboy incazzati in perenne cavalcata tra le praterie. Tra uno sberleffo a Peckinpah e omaggi sparsi, il film intrattiene bene, anche se non è proprio un capolavoro. Prodotto da Sergio Leone che sembra abbia anche girato alcune sequenze (i duelli, la strage del mucchio selvaggio, l’incipit). (Diretta su RaiTre; 20/6/99)

220 – Ultimo tango a Parigi del Maestro Bernardo Bertolucci, Italia/Francia 1972

Mi perdo il primo quarto d’ora perché mi vado a sedere come un fesso nella sala del Ducale dove proiettano l’immondo Cube che già una volta m’ha mortificato. Me ne rendo conto e schizzo verso la sala dove si trova il vero capolavoro e quando mi siedo Jeanne e Paul, Marlon e Maria, hanno già consumato. Alla quinta visione, la seconda su grande schermo, noto che la famosa luce aranciata di Storaro non è la caratteristica fotografica assoluta, perché la pellicola ha una varietà di tonalità che non esclude anche luci fredde e livide (comunque curatissime e sorprendenti). L’uso di vetrature smerigliate non è episodico come ricordavo, è costante, così come l’utilizzo di specchi. E poi? E poi c’è dentro tutto: l’amore, la vita e la morte. Come sempre, splendido ed emozionante. Ed è vero: “Invecchiare è un delitto”. (Cinema Ducale, Milano; 30/6/99)

221 – Blow-up di un lucidissimo Michelangelo Antonioni, Gran Bretagna/Italia 1966

La realtà che si sviluppa a poco a poco come una fotografia, per tentativi, avvicinandosi. E che, ingigantendola, perde i contorni, diventa enigmatica, sgranata, inafferrabile, finché non scompare. Impossibile carpire l’essenza delle cose (nell’assenza), bisogna accontentarsi di giocare con una pallina da tennis immaginaria. Blow-up, alla terza rivelatrice visione – la prima su grande schermo – è il silenzio e i rumori, è la musica liquida e cafona di Herbie Hancock, è Verushka flessuosa e la Redgrave rigida come una scopa, è un’elica in casa “perché è bella”, è Jane Birkin con i collant verde pisello, è Londra swingin’ e grigia, è Jeff Beck che sfascia una chitarra mentre Jimmy Page lo osserva divertito e gli Yardbirds suonano il consueto rave-up. Ed è soprattutto David Hemmings, irrequieto, insoddisfatto, irretito dal mistero della Verità, curioso, sempre in movimento, splendido eroe precontestazione, bello, elegante, dandy. E dubbioso, tanto che mi rende inquieto: esco dal cinema e mi guardo intorno come lui, in una Milano che sembra irreale, vuota e silenziosa. O forse ho solo immaginato. Visto al Ducale con cattivo sonoro ma ottima pellicola. Capolavoro. (Cinema Ducale, Milano; 1/7/99)

Miopia503.jpg222 – Taxi Driver di Martin Scorsese, USA 1976

La rassegna di grandi film del Ducale mi cattura di nuovo. Al cinema trovo Gory e questa è una gran soddisfazione: entrare in un cinema e incontrare una persona che ha avuto la tua stessa idea, lo stesso desiderio. Il film è sempre bellissimo e si apprezzano la fotografia notturna, i giochi di luce con l’acqua sull’asfalto (che poi verranno abusati da più maldestri fotografi) e la splendida colonna sonora di Herrmann (l’ultima della carriera). De Niro è fantastico nel dare corpo a un eroe degradato, dalle convinzioni morali confuse, omofobico, razzista, amante dell’ordine e comunque sciroccato ben bene. Ma la degradazione in cui s’aggira confonde ulteriormente le carte e non paiono migliori di lui la freddissima e altera Betsy (Cybill Sheperd), il candidato Palantine o i colleghi taxisti. E che dire di Sport (Keitel)? Magnaccia senza scrupoli, cui Scorsese dedica anche una scena dolcissima quando il pappone abbraccia con affetto credibile la piccola Jodie Foster. E gli credi, gli credi proprio. Niente di scontato: gran film. Ah, tutto il monologo “Are you talkin’ to me” che Travis fa davanti allo specchio, De Niro lo ha preso dalla routine che Springsteen metteva in scena allora, quando il pubblico gli chiedeva i bis a fine concerto (durante Quarter to Three, per la precisione: Martin e Bob erano rimasti folgorati dai concerti al Roxy di Los Angeles durante il tour di Born to Run. Folgorazione decisamente comprensibile). (Sala; 4/7/99)

224 – TwentyfourSeven di un Puzzone, Gran Bretagna 1997

Film inglese retorico, prevedibile, con personaggi stereotipati e fotografia leziosa. Ti passa, ti fai due risate, lo vedi, vabbeh… ma puzza tutto di falso e piacione: siamo la nuova sinistra che si compiace nel raccontare gli straccioni poveracci delle periferie. Cari miei, i film contro il thatcherismo dovevate farli quando c’era la Thatcher: a che serve trattarla ora, da stronza, eh? Questa vaccatina è stata giudicata il miglior film della British Renaissance a Venezia 1997: figuriamoci il resto. Bravo Hoskins, cattiva sceneggiatura, meccanica e densa di personaggi scritti col culo. Ai critici il film è piaciuto perché ricordare film come Io sono un campione li fa sentire giovani. Ma ho ragione io: Twentyfourseven è mediocre e il regista Shane Meadows un puzzone. (Vhs originale, 10/7/99)

226 – Sabrina di Billy Wilder, USA 1954

Registrato da Retequattro, la rete Mediaset per anziane con la terza elementare, un film che mancava alla mia raccogliticcia educazione. Che ne penso? Massì, carino; a tratti, ma non riesco a emozionarmi per queste commedie USA e la dimenticherò presto. Wilder è cattivello e gli scappa qualche stilettata, ma sembra crederci poco anche lui, si vede che deve trattenersi per giocare con la fiaba di Cenerentola. La storia è arcinota. Tanto per non smentire la fama di rompiballe noto che Bogart è troppo anziano per essere credibile e la magia di Casablanca sembra lontana: quale venticinquenne sana di mente e assetata di sesso s’innamorerebbe di questo rugoso nano capoccione con la cicca sempre in bocca e un incarnato che neanche un varano di Kommodo? Poi, siccome sono polemico: a me la Hepburn proprio impazzire non fa: va bene la classe, gli occhi da cerbiatto, il fisico elegante, il portamento aristocratico, ma… io sono come Peter Falk in Invito a cena con delitto: preferisco le cameriere con un bel culone. Comunque Sabrina dovevo vederlo, prima o poi, e faccio finta che m’abbia entusiasmato. (Vhs da Retequattro, 19/7/99)

227 – Manhattan di Woody Allen, USA 1979

Ennesima visione, ma stavolta – a neanche due mesi dall’ultima – su grande schermo. Il cinemascope lo avevo già apprezzato anche su nastro magnetico, ma in tivù, se vedi tutto, vedi poco e piccolissimo. Invece, così, è stato un orgasmo della retina, con a fianco Pier rapito come me da questo bianco e nero abbacinante. L’incipit è un brano di cinema clamoroso, poesia in versi e immagini. E poi ci sono le cose per cui vale la pena di vivere, il senso della vita, Billy, Biffy e Scooter e l’amore che fugge, anche quello splendido dei diciassette anni di Tracy. Per egoismo, leggerezza, umanità e perché è difficile, tremendamente difficile… oddio, I’m getting sentimental. Cosa dire d’altro? Che è un film splendido, commovente, per niente autoindulgente, dal retrogusto amaro, eppure sereno. Pier e io eravamo estasiati: non una sbavatura, un dialogo di troppo, ancora tante risate sulle battute ascoltate e citate mille volte. Settima visione e il miracolo si ripete ancora, nella certezza che questo è un capolavoro, esteticamente e narrativamente perfetto, senza sbavature. Un film per cui vale la pena di vivere. (Cinema Ducale, Milano; 20/7/99)

230 – Perversioni femminili di una Disgraziata, USA/Germania 1996

Mi ricordo quando passavano i trailer di questa schifezza: “il film che dice quello che le donne pensano”. Aaah. Vediamo un po’. Tanto, come protagonista, abbiamo quel mostro secco e vizzo di quella Tilda Swimpton che gode immeritata fama per la sua diafana bellezza da strega di Salem. La regia è patinata, furbetta e compiaciuta, con scelte di montaggio alquanto respingenti e una tessitura narrativa confusionaria gestita senza equilibrio. La recitazione poi è caricatissima, tutta esteriore, pesante, barocca. Ma chi è che va dicendo che la Swinton sia così brava? È semplicemente patetica nel sottolineare ogni espressione. Surrecita (beccatevi ‘sta libera traduzione del verbo to overact) dandosi arie da strafica e risultando erotica come una chiave inglese nelle gengive. È una rampante avvocatessa che si trova costretta ad aiutare la sorella cleptomane: il confronto scatena una serie di scene madri esagitatissime, con liti e rappacificazioni assortite, per darsi calore in questo mondo di sporchi maschi fottuti ed egoisti. Sarà. E del resto, se è pieno di pessimi film maschilisti, perché questa Susan Streitfeld non può girare un pessimo film femminista (tratto da un libro della Kaplan)? Perversioni, depilazioni pubiche, incubi zeppi di simbolismi, amori lesbici, la religione, il potere maschile, i traumatici ricordi d’infanzia di un padre manesco, alcune scene languide… bah, grottesco. Ah: nel film recitava — o qualcosa di simile – anche Paulina Porizkova, top model degli anni Ottanta per niente appassita. (Vhs originale, 2/8/99)

Miopia504.jpg231 – Il cacciatore di Michael Cimino, USA 1978

Ancora un vecchio film che credevo di avere già visto e che s’è manifestato in tutta la sua magnificenza solo su grande schermo. Il cacciatore è un film sull’amicizia, sull’orgoglio working class, sulla lealtà, sull’amore e, inevitabilmente, sulla guerra, la più sporca combattuta dagli USA (ad oggi), trauma collettivo per l’intera nazione, punto di svolta per una generazione falcidiata dalla tragedia. Cimino non si pone problemi ideologici e non si schiera, non prende una posizione chiara sul conflitto: gli eroi de Il cacciatore non si fanno domande, vanno in Vietnam perché amano il loro paese, un paese che li ospita dandogli un lavoro (pesantissimo, nelle acciaierie), una casa (catapecchie di legno), una macchina (Ford Mustang) e tanti sogni e aspirazioni. Siamo in un territorio mitico, insomma, dove la guerra è il tremendo banco di prova per verificare i propri ideali virili. Mick, De Niro, combatte come un ossesso, con un coraggio immane, pronto a salvare i suoi amici, ma non elabora ciò che gli accade: lo fa perché è il suo dovere, o crede che lo sia. E io mi adeguo e la smetto con ‘sto pappone senza senso. Il film è diviso sostanzialmente in tre parti: la prima ci racconta il matrimonio di John Savage, pochi giorni prima della partenza per il sud est asiatico assieme a Walken e De Niro, cerimonia nuziale seguita da una battuta di caccia sulle montagne. Poi siamo nell’inferno vietnamita dove i tre si ritrovano prigionieri e riescono a fuggire dalle torture dei vietcong. Infine c’è il ritorno a casa, con l’amore che sboccia tra la Streep e De Niro, Savage mutilato su una sedia a rotelle, mentre Walken langue a Saigon, imbottito di droga per giocare alla roulette russa. De Niro lo va a riprendere e per stimolare la sua memoria lo sfida al gioco, perdendolo definitivamente. Ci sono digressioni narrative descrittivamente spettacolari (la vita della comunità russa di Claireton, Pennsylvania), scene di guerra di fortissima tensione emotiva, una storia d’amore tenue e commovente. Io mi sono chiaramente sciolto in più di un’occasione: perfetto tratteggio delle psicologie, ritmo narrativo molto teso e che attori… Non solo la Streep (mai così bella) e De Niro, ma anche tutti gli altri, Savage, Walken, Cazale, Dzundza… Splendido, nonostante qualche piccola sbavatura nel finale. Il momento migliore è al matrimonio: De Niro è ubriaco come una pignatta e al bancone del bar flirta con la Streep. C’è intimità e sta per scoccare la scintilla. Lui si avvicina a lei, incerto, aspettano un secondo di troppo e lui muove la testa come se fosse solo colpa dell’ubriachezza, tirandosi indietro. Ed è già troppo tardi, l’occasione è sfumata. Un cenno, un gesto minimale, una finezza attoriale di De Niro (a Cimino non riesco ad attribuire questa intelligenza, figuriamoci), forse casuale, ma che è il segreto del cinema. Nell’intervallo tra i due tempi viene diffusa la musica di Zabriskie Point Crumbling Land dei Pink Floyd – e me ne viene una voglia bestiale. (Cinema Ducale, Milano; 3/7/99)

233 – Matrix di Larry e Andy Wachowsky, USA 1999

Prendi quanto s’è fatto di buono nella fantascienza e nel cinema d’azione negli ultimi vent’anni (non ho voglia di elencare omaggi e scopiazzature, ma ce ne sono a bizzeffe), shakera tutto con lo stato dell’arte per quel che riguarda gli effetti speciali, aggiorna con le nuove tecnologie informatiche, monta con sapienza pubblicitaria e ritmo indiavolato, condisci con musica pulsante e qualche aggancio New Age e millenaristico ed ecco Matrix, roboante filmetto estremamente divertente e molto arguto. La Terra è governata dalle macchine e ciò che vediamo è l’illusoria rappresentazione orchestrata con una matrice matematica. Un gruppo di eroi, acquisita una nuova coscienza sensoriale, sconfiggerà i cattivi. Gustoso, qualche dialogo da paura e abbastanza trovate intelligenti: that’s entertainment, baby. Visto in una sala semivuota. (Cinema Odeon, Milano; 9/8/99)

234 – Il disco volante di un insospettabile Tinto Brass, Italia 1964

Un disco volante scende a più riprese in Veneto lasciando due extraterrestri in loco. Assistono all’atterraggio un ragioniere (Sordi) con l’amante (una Vitti splendida e allupata che a più riprese dice: “Dime porca, che me piase di più!”) e un parroco ubriacone (ancora Sordi). Si occupa delle indagini un ligio carabiniere ciociaro, prima scettico poi convinto (di nuovo Sordi). Una contadina vedova, povera e con sette figli a carico (la Mangano) rapisce il marziano e lo vende a un Conte effeminato e narcolettico (grande, grandissimo Sordi, per l’ennesima volta). I 4 Sordi finiscono tutti in manicomio (reparto “Dischi volanti”), la Mangano si vede requisire il guadagno avuto dal Conte, la marziana torna al suo pianeta, il marziano viene gettato in un pozzo dalla servitù del nobile. Film anomalo, fantascienza satirica, anticipazioni di Signore e signori, tante frecciate alla Chiesa, allo Stato, alla nobiltà e all’ipocrisia perbenista del nord-est operoso e qualche sprazzo del Brass che verrà, che si diverte a indugiare sul turgore delle forme femminili. Montaggio nervoso, macchina da presa agile, uso dello zoom e del rallenti, per una regia anarcoide e ironica. Attacco molto brillante in stile documentario-televisivo. Sordi eccezionale nella prova fregolistica, ma divertente anche la caratterizzazione degli altri personaggi. Piacevole e veloce, scritto in maniera arguta da Rodolfo Sonego. Il Tinto Brass che non ti aspetti e che ti fa chiedere che cosa gli sia accaduto. L’avran plagiato i marziani? (Diretta su RaiUno; 10/8/99)

235 – Io sono un autarchico di Nanni Moretti, Italia 1976

Qui comincia l’avventura di Michele Apicella: due soldi, tante idee e moltissimo coraggio nel mettere in scena con feroce autoironia una generazione che raramente sapeva ridere di se stessa. Michele, studente che si spacca la testa su testi marxisti senza dare esami (“avrò sbagliato ideologia?”), è appena stato lasciato con figlio a carico da Silvia, moglie che non ricorda perché ha sposato. Ma tra padre e figlio è subito chiaro chi è più infantile. Michele trascina i suoi giorni partecipando allo strampalato allestimento di uno spettacolo teatrale d’avanguardia scritto da Fabio. Intanto Giorgio lavora svogliatamente come supplente e s’invaghisce di una dirimpettaia. La vita scorre tra training psicofisici che portano gli aspiranti attori all’esaurimento nervoso, partite di Subbuteo, l’immancabile Nutella e la speranza di tornare con Silvia… Moretti/Michele “non ha espressioni dolci” e se la prende col cinema d’autore, col nudo artistico, con la critica parolaia, con i parrucconi come Moravia o le mestatrici come la Wertmuller. Inizia insomma a menare fendenti nell’incertezza del tremolante super8, ma già sicuro di sé. Il film ha una prima parte un po’ lenta (il training sembra una parentesi buñueliana: gli attori e il film non si sa dove stiano andando), poi prende più ritmo. Le gag fisiche e verbali sono azzeccate e il ritratto di questi giovani immaturi è divertente. Non c’è ancora consapevolezza formale e la struttura è frammentaria, ma c’è già tutto il Moretti che verrà, sarcastico, idiosincratico, comico, profondo. Un esordio fortunato e meritorio. E non dimentichiamo Paolo Zaccagnini che esclama: “Partecipo a questo spettacolo teatrale perché mi è stata assicurata la presenza alla prima di Maria Schneider con la quale mi accoppierò carnalmente con un panetto di burro Cademartori”. (Vhs da Rai; 10/8/99)

(Continua — 5)