di Dziga Cacace

OF0901.jpg270-Lolita di Un Vero Farabutto, USA 1997

Probabilmente questa è l’unico parere a livello mondiale su Lolita di Adrian Lyne senza che il recensore abbia visto Lolita di Kubrick. Di Maestro Stanley ho visto tutto, proprio tutto, ma Lolita no, confesso. Per cui procederò alla critica scevro da ogni pregiudizio che pure potrei avere, dal momento che qualche lercio film di Lyne invece l’ho visto. Allora: in virtù del ricordo di un fugace e infelice amorazzo estivo con una coetanea quindicenne, il maturo prof. Humbert è sensibile al richiamo delle ragazzine. Sposa la madre di una ninfetta e, come prevedibile, si scatena il dramma a tinte forti. Il ritmo è soporifero, la tensione erotica assolutamente latitante e gli attori si dannano per dare vita a un film cadavere. Ma se Irons è tutto un dipingersi in volto una sofferenza che incita a massacrarlo ulteriormente, la giovane Swain si affanna come una bimba di Non è la Rai sotto anfetamine.


Chi mai si potrebbe innamorare di questa indisponente macro-oca? In più c’è Melanie Griffith, ma per fortuna Nabokov ne aveva previsto l’eliminazione in tempi brevi. Humbert si trova a vivere finalmente solo con la sua Dolores, che però inizia a fare la civettuola con altri uomini. La gelosia rode il professore e si arriva a un incredibile finale che è l’apoteosi del kitsch, con Langella (interprete di un misterioso commediografo di cui Dolores è amante), che va a morire seminudo su un pianoforte meccanico. La morte è straziante per il personaggio e per lo spettatore: interminabile. Note a margine del film: è lunghissimo, Morricone è sfaticato, l’amore adolescente di Irons è l’unica cosa veramente meritevole, la dolciastra Swain per niente. Lyne, l’uomo che ci ha regalato film infami come Proposta indecente o di plastica come Flashdance e 9 settimane e ½, conferma ulteriormente il suo talento perfuntorio. Anche se si è mossi a sincera compassione (vedendo che quegli ipocriti di americani non gli distribuiscono il film in USA), prevale il senso di schifo per questa autentica cazzata: in futuro non ci casco più, giuro. (Vhs; 8/4/98)

274-Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, USA 1981

Domenica di Pasqua: Barbara studia e Cacace si rivede un film che gli manca da troppo tempo. Oggi ho voglia di Creedence Clearwater Revival e di Van Morrison e il titolo giusto per appagar la voglia divertendo è questo delizioso Landis d’annata, quando il regista pensava ancora a cosa stava facendo. Brughiere inglesi, cielo grigiastro e due ragazzoni americani con zaino in spalla. Uno è David (l’attore Naughton, never seen again), l’altro, Jack, quel Griffin Dunne futuro protagonista di Fuori orario. Dunne dura niente: viene sbranato da un lupo mannaro, mentre il compagno finisce a Londra in ospedale, sotto shock. Gliene accadranno di tutti i colori e non sto a dirvi oltre. Il film è intelligente e mi permette di ascoltare Bad Moon Rising e Moondance, ironicamente accostate agli incubi che perseguitano il povero Jack. Realtà e inquietante mondo onirico si compenetrano, si ironizza su quegli zombi degli inglesi, se ne fa allegra strage e ci si chiede, tra il divertito e l’inquieto, se i nazisti non fossero dei lupi mannari. Landis, qui, si dimostra un bel regista, sfrutta effetti speciali che vent’anni dopo nulla hanno da invidiare a perfetti e insipidi morphing, sfotte la televisione britannica (due minuti d’antologia) e ci regala un clamoroso finale in un cinema porno di Soho. Il film proiettato è girato dallo stesso regista ed è una goduria. Altro che quella vaccata de La seconda guerra civile americana. (Vhs; 12/4/98)

277-Microcosmos di Claude Nuridsany e Marie Pérennou, Francia/Svizzera/Italia 1996

Lunedì di Pasquetta: “Prendi la macchina, ché non c’è nessuno in giro!” e io, fesso, mi avventuro per le strade del centro di Milano, diretto verso il cinema Anteo dove, a scelta, mi aspettano Il destino di Chahine o Parole, parole, parole di Resnais. Arrivo in zona con 25 minuti d’anticipo sul programma perché, si sa, sono un po’ apprensivo, e mi ritrovo imbottigliato in una colossale congestione del traffico. Macchine ovunque, gente che urla, lotte a coltello per un parcheggio vietatissimo, anarchia collettiva, nevrosi da ingorgo. Mi godo venti minuti da incubo sinché, muovendomi a passo d’uomo, non trovo un insperato posto regolare per la macchina a un chilometro dalla sala. Parcheggio e corro. Arrivo all’Anteo in tempo e scopro che le due sale hanno esaurito i posti a disposizione. Sconsolato, torno alla macchina dribblando i veicoli ammassati sui marciapiedi e sulle aiuole. Nelle poche porzioni di erba o cemento libero solo merda canina. Vigili, neanche l’ombra. Mi dirigo scornato verso casa e subisco altre code, anche davanti alla Triennale (chiusa). Dal parco spira un aria stupefacente. E sembrano in preda a droghe anche i rispettabilissimi borghesi maleducati, brutti e prepotenti che invadono, in tuta, la città durante i giorni di festa. Arrivo a casa traboccante d’odio per il genere umano e posteggiando centro in pieno un benedetto panettone di cemento armato (i famigerati “tognolini”), cosa che mi frutterà 600 sacchi di spesa dal carrozziere. A questo punto, dopo l’infernale pomeriggio capitatomi, decido che posso vedere soltanto Microcosmos, perché umani non voglio vederli neanche con il binocolo. Temevo una pallata alla National Geographic e invece trovo un documentario fortemente estetizzante che documenta molto poco, se non il fascino visivo della vita che anima insospettabilmente i nostri prati. Il ruzzolamerde sembra Sisifo, c’è compiaciuta sensualità nell’amplesso delle lumache e un leggero scroscio di pioggia è come un diluvio universale. L'(an)estetizzante messa in scena è, in alcuni casi, palesemente ambientata in habitat ricreati allo scopo: certamente gli studios più piccoli del mondo. Carino, ma piuttosto che affascinarmi, Microcosmos m’ha messo in guardia: d’ora in poi, prima di sedermi nei prati, pesterò ben bene i piedi: là fuori è una giungla e la mantide religiosa sembra proprio cattiva. (Vhs; 13/4/98)

OF0902.jpg279-Independence Day di Un Sempliciotto, USA 1996

2 Luglio: sulla Luna, dove non c’è vento, qualcosa eppur si muove… In New Mexico, in una base astronomica dove si ascoltano i R.E.M. cantare It’s the End of the World, si capta un orrendo ronzio proveniente dagli spazi interstellari. Al Pentagono gli altrimenti ottusi generali comprendono che stavolta non si tratta di obiettivi-pupazzo pronti per le rappresaglie di prammatica quando il Presidente è colto con i pantaloni calati: questa volta sono cazzi amari e siderali. Stacco e vediamo il Presidente: ha la faccia di Bill Pullman, l’indimenticato Stella Solitaria di Balle spaziali di Mel Brooks e oggi nobilitato dalla presenza in film di Wenders, Lynch e altri. È il giovane, innocente e incredulo capo della nazione padrona del mondo e deve affrontare gli alieni. Questi non sono per niente gentlemen e, nel panico generale che va dalla Russia all’Iraq (i nemici di vecchia o recente data, chiaramente fifoni), iniziano a spappolare tutti i simboli del nuovo ordine mondiale, partendo dagli USA. La regia ci mostra con gusto iconoclasta queste belle distruzioni e poi ci prende per mano come tanti bambini e ci racconta come il Presidente, a bordo di fantastici jet, guidi la rivolta contro gli invasori fino all’inevitabile vittoria il 4 di Luglio. Una vera e propria blitzkrieg. Independence Day è un film infantile, stupido e spassoso. Quello che spaventa è l’intenzionalità del prodotto: cioè, stupido apposta tanto da essere autoironico nella sua consapevolezza, ma non abbastanza per non truffare il 90% dei suoi spettatori. Ritorna, dopo anni di non belligeranza, l’alieno cattivo: sotto una corazza tipo Alien, con annesso polipone gigante appiccicato alla schiena, si nascondono untissimi mostriciattoli con cui è impossibile ragionare. Il Presidente è un pilota coraggioso (e come Clinton, ha un uccello d’acciaio), israeliani e iracheni vanno d’amore e d’accordo di fronte al pericolo extraterrestre e non è difficile incontrare la First Lady che s’è persa nel deserto, proprio vicino alla base segreta che servirà per guidare la rivincita. E poi l’unico fanatico di computer abbastanza intelligente per salvare la terra è casualmente l’ex marito di una addetta alla Casa Bianca. Alla vecchia maniera arrivano i nostri e un kamikaze ubriacone, che da anni andava dicendo di aver subito tremende violenze sessuali dagli alieni, si redime dal suo presente di fallito e, al grido “prendetevelo nel culo!”, penetra la difesa degli invasori, ottiene una personale vendetta per gli abusi subiti e salva la terra. In una categoria tutta sua Independence Day è un piccolo capolavoro di pessimo gusto, girato banalmente, mediocremente interpretato, con effettacci abbastanza prevedibili, fracassone e divertente. Non lo rivedrò mai più, ma m’è passato senza problemi. (Vhs; 14/4/98)

284-Play it Again, Sam di Herbert Ross, USA 1972

Continua la mia trasferta milanese graziata da tanti bei film: per la serata mi riservo un classico. Con la cugina Alessandra vedo l’inarrivabile versione originale di uno dei migliori Allen di sempre, quel Provaci ancora Sam che, da cult della mia adolescenza, non vedevo ormai da almeno una decina di anni. Le gag verbali e visive si susseguono a ritmo impressionante, probabilmente aiutate dal fatto che Allen ha preferito affidare la regia del film a un esperto professionista. Raramente m’è sembrato così in forma, totalmente assorbito nella parte e capace di fornire un corpo a tante battute brillanti. La versione originale aiuta poi, nella sua perfetta e comprensibile dizione, ad apprezzare l’affabulazione del protagonista, un critico cinematografico appena abbandonato dalla moglie che si innamora di quella del suo migliore amico. Tutto giocato sul contrappunto con un classico come Casablanca, Play it Again Sam serve anche come omaggio a tanto cinema che Woody ha sempre amato, ma senza dichiararlo come in altri casi (e penso a Bergman o Fellini): certa commedia italiana (Le coppie), Truffaut e Von Stroheim. E anche la musica, da Oscar Peterson al Quartetto d’archi n.5 di Bartok è ineccepibile. Tornando alla trama, la nuova unione è destinata a non durare come nel classico di Curtiz, ma Allan Felix (Allen) riesce finalmente a pronunciare quella fatidiche battute per cui ha aspettato tutta una vita: “If that plane leaves the ground and you’re not on, you’ll regret it. Maybe not today, maybe not tomorrow, but soon and for the rest of your life!”. Tra le particolarità il fatto che il film sia girato a San Francisco, su quel lato della costa che Allen raramente ha gratificato con commenti favorevoli. E poi il protagonista, immaginando la gelosa reazione dell’amico, si vede inseguito in un’italianissima panetteria al grido di “Tu m’hai traduto, (…) imbesile!”. L’ho visto la prima volta poco più che bambino e le profetiche parole “I think this is the beginning of a beautiful friendship” si sono avverate: amo il cinema di Woody Allen. (Vhs; 15/4/98)

286-L’ultima volta che mi sono suicidato di Un Cretino, USA 1997

Hilda quest’anno al Lumière viene poco e si affida ai miei consigli. Decido di rischiare e la porto a vedere questo bruttissimo film americano. Del resto c’è Keanu Reeves, idoletto cinematografico al cui fascino non sa resistere. Io invece sono curioso di vedere Claire Forlani di cui Pier Paolo m’ha detto gran bene. Il film parte con il protagonista che s’agita intorno a una macchina da scrivere. Fuori fuoco, bianco e nero sporco, montaggio incoerente. Questi sono i luoghi comuni di chi vuol mostrarsi “indipendente”, ma tollero: il film è appena iniziato. La narrazione adotta poi un più convenzionale uso del colore e ci racconta delle gesta di Neal Casady, eroe della Beat Generation che in una lettera a Jack Kerouac gli racconta dell’“ultima volta che s’è suicidato”, mandando a monte tutti i suoi progetti di rispettabilità. Infatti, rubando macchine, scopicchiando qui e là, cercando di scappare dall’incombente modello dell’american way of life, Neal fugge dalla promessa di unione borghese con la bella (aveva ragione Pier) Forlani. Il racconto è fiacco e noioso e la poesia beat è annacquata tanto da sembrare parole in libertà in bocca a un semi deficiente. In più (sgomento di Hilda e sghignazzate in compagnia) Keanu Reeves s’è praticamente trasformato in una controfigura di Pavarotti. Gli occhi sono due fessure e il collo e scomparso nella pappagorgia. Il povero Neal Casady, l’indimenticabile Dean Moriarty di On the road, fa la figura di un imbecille qualunque, capace di scolarsi birre, disonorare femmine virtuose e comporre poesiuole di dubbio valore artistico. Si starà rivoltando nella tomba, sempre fedele al suo imperativo vitale di continuare a muoversi. Il film ha pure ottenuto grande successo al Sundance Film Festival: e te pareva. Il regista e gli organizzatori del Sundance meriterebbero meriterebbe una serie di nerbate con canne di bambù Singapore-style. Concludendo: L’ultima volta che mi sono suicidato è stata dopo aver visto questa merda firmata Stephen Kay. (Cineclub Lumière; 20/4/98)

OF0903.jpg291-Alien. La clonazione di Un Minchione, USA 1997

In questo quarto episodio della saga di Alien non è Ripley (la Weaver) a essere clonata, ma l’intero film. Vi verranno a dire che, no!, la vicenda si aggiorna grazie alla visionarietà del regista Jean-Pierre Jeunet e per le inedite sensualità e ironia, ma non è vero una cippa. Lo schema narrativo è ricalcato con la carta carbone da passate avventure: un equipaggio a bordo di un astronave infestata dai consueti bavosi mostricciattoli. Stavolta c’è un clone di Ripley (che ambiguamente conserva qualcosa della natura del mostro) e l’astronave viaggia veloce verso la Terra con pericolo di diffusione aliena anche sul nostro pianeta. Sí, c’è qualche scena sensuale, va ammesso, come quando Brad Dourif (indimenticato dai tempi di Qualcuno volò sul nido del cuculo) provoca dietro un vetro i viscidi mostri o la Weaver si fonde con un intricato inviluppo di creature aliene. Per il resto, quanto a sensualità, poco altro e valga a esempio l’esemplare battuta che Ripley rivolge agli altri membri dell’equipaggio: “Con chi devo scopare per lasciare quest’astronave?”. Ininfluente la Ryder che, con i suoi inespressivi occhioni da cerbiatto, interpreta perfettamente una androide con poca motilità. La Weaver si sforza di donare ieraticità e fascino al suo viso, ma l’ambiguità del suo viso è più volte patetica e il fatto che nei credits appaia anche un insegnante di recitazione personale dà da pensare seriamente. Ironia poca, ritmo fiacco e poche invenzioni dal punto di vista scenografico. Se la cava bene solo Khondji fotografando il nero più nero, ma tutto ciò non basta a risollevare questo brutto film dalla mediocrità, mancando una sceneggiatura degna di ritenersi tale. Nel cinema, una spettatrice oca esclama ogni due secondi “che schifo”, ma mica riferendosi al film. Altri due babbei parlano ad alta voce di lavoro. Finisce che non mi godo neppure il Chupa Chups: serata da dimenticare. (Cinema Rosetum; 26/4/98)

292-Sfera di Barry Levinson, USA 1997

La storia è impegnativa, per cui preparatevi a un luuungo viaggio. Lunedì pomeriggio: abulia diffusa, voglia di lavorare uguale a zero. Barbara, a studiare, non ci pensa neanche… allora si decide: Melzo! Ci attende la visione a lungo procrastinata di quel Titanic che sta battendo ogni record d’incasso. Sui giornali di tutto l’orbe terracqueo l’imberbe idolo Di Caprio sta collezionando più copertine di Padre Pio sui settimanali Rusconi; non si parla d’altro e amici e critica sono entusiasti: ecco il film che concilia tecnica, spettacolo e cuore. Dove vederlo se non tra le 628 poltrone della sala Energia del cinema Arcadia davanti al mega schermo da trenta metri per sedici? Allora partiamo con un’ora e mezza d’anticipo, tanto per non sbagliare. E infatti rimaniamo imbottigliati nel traffico infernale della metropoli da bere: i bauscioni tornano dal lavoro e non esistono più corsie, parcheggi e semafori. Sembra la carica del Settimo cavalleggeri, ma al rallentatore: siamo costretti a procedere a passo d’uomo fino alla ridente Melzo arrivando, manco a dirlo, in ritardo di dieci minuti per il film. Ora bisogna aspettare tre ore e mezza fino al prossimo spettacolo: leninisticamente che fare? Prendiamo una coraggiosa decisione: nell’attesa di Titanic ci scoppiamo Sfera di cui m’han detto cose nefande. Forse perché preparati al peggio, lo trovo mediocre, ma non indecente. La presentazione dei personaggi (un equipaggio di scienziati che deve andare in fondo al mare a studiare un misterioso oggetto rotondo apparso dal nulla) è molto rozza e i rapporti che si instaurano han ben poco di credibile, però la prima parte del film si fa apprezzare perché riesce a trasmettere una certa angoscia: i 300 metri sotto il livello del mare si senton tutti. Nella seconda parte la Sfera si sgonfia, pfiiii: tutto ciò che prima si era scambiato per misterioso non-detto, diventa piattume e sterilità narrativa. Quello che sembrava abilmente implicito si trasforma in esplicita incapacitas narrandi, senza un filo di coerenza. I tre superstiti della missione capiscono che la sfera materializza le loro ansie, se lo spiegano e lo spiegano — con incomprensibile fretta – agli spettatori. Il film si chiude proprio male, ma, un po’ perché m’aspettavo di peggio e un po’ perché risulta molto meglio dell’orrendo ultimo Alien, non scendo sotto il cinque meno meno. E poi di Sharon Stone mi piacciono pure le orecchie. (Cinema Arcadia; 27/4/98)

293-Titanic di James Cameron, USA 1997

Ed eccoci all’avvenimento dell’anno. Un’abbuffata di Oscar, incassi paurosi, fenomeno di costume, analisi sociologiche, divismo e Di Caprio-mania: se non l’hai visto sei fuori da qualunque dibattito. I lanci pubblicitari ormai annunciano spietati agli spettatori pantofolai che la vhs non se la vedranno fino al prossimo autunno e il pubblico, nonostante la programmazione che dura da alcuni mesi, continua ad accorrere entusiasta. Questo Titanic sarebbe da snob evitare di vederlo e, a visione, ultimata, infantile esultarne senza ritegno. Se si analizzano le vicissitudini produttive, i costi esorbitanti, il successo mondiale etc. non si può che rimanerne affascinati: è impossibile essergli indifferenti. È difficile trovare il film discreto o “carino”: siamo di fronte a qualcosa di unico, che sfugge alla categoria del gusto. Non è di buon gusto aver speso tutta ‘sta paccata di miliardi, anche se l’investimento ritorna, e tanto meno di buon gusto è la vicenda raccontata, che trasuda romanticismo tipo Harmony da tutti i pori. Eppure… Questo è il cinema in un’accezione ormai quasi dimenticata in tempi di marketing, target e indagini sui flussi di mercato; è la materializzazione dei sogni di un regista folle e genialoide che sfida tutto e tutti, a partire dal buon senso, per costruire un’opera a tratti banale, ma romantica nel coraggio della messa in scena. Non sto dicendo che Titanic sia brutto, anzi. Mi sono divertito e le tre ore e rotti, nonostante la Sfera sulla stomaco, sono passate in fretta. Ma sono anche incapace di entusiasmarmi, soprattutto come certe invasate dell’Italia settentrionale che stanno battendo record su record andando a vedere il film ogni giorno. Ve lo immaginate L’occhio frusto con 90 recensioni consecutive di Titanic? La love story che si sviluppa tra Di Caprio e Kate Winslet è decisamente a livello teen-ager e spiace vedere che l’attrice, dalle abbacinanti apparizioni nei film di Winterbottom e di Peter Jackson in poi, s’è trasformata in una versione preraffaellita di Luciana Turina. Se, come detto, il ritmo non cala mai (e vista la durata è un gran pregio), rozzi sono i passaggi di sceneggiatura, certe figure sbozzate con il machete o la soluzione di alcune scene: l’apice del kitsch (probabilmente consapevole e compiaciuto) si raggiunge quando i due piccioncini fanno l’amore in un’automobile dai vetri allusivamente appannati. Stupisce che la maniacale perfezione di Cameron non abbia fatto tappezzare la carriola con tanti bei quotidiani del 1912. Comunque Titanic è godibilmente sopportabile, la storia non annoia, si perdonano alcuni anacronismi, le americanate banali e i brutti disegni di Cameron stesso che dovrebbero farci credere che di Di Caprio sia un artista. Insomma, non si può andare tanto per il sottile: del resto stiamo seguendo tutta la storia perché ci interessa sapere che fine ha fatto una sberla di diamante chiamato “Il cuore dell’oceano”, una pietrona per gente dai gusti decisamente cafoni. M’ha divertito ma non emozionato e lo dimenticherò presto. E non attaccherò i poster di Di Caprio in camera. Ho già quelli di Welles, Springsteen e Zappa. (Cinema Arcadia; 27/4/98)

296-Shine di Uno Schifoso Ricattatore, Australia/Gran Bretagna 1996

David è un timido bambino vessato da un padre che vuole farlo diventare un concertista famoso. Riuscirà a sottrarsi al giogo paterno per andare a studiare a Londra ma, durante l’esecuzione del terzo concerto di Rachmaninoff, gli verrà un coccolone che lo lascerà completamente fuori fase. Chiuso in un ospedale psichiatrico con quella che potremmo definire “sindrome di Jerry Lewis” (ripete tutto tre volte, con voce chioccia e stolidi belati), ritornerà alla musica grazie all’amicizia e all’amore di una cameriera, della sorella e di un’astrologa che, consultati gli astri, lo sposerà. Shine è una puttanata dolciastra con buone interpretazioni attoriali, un decente ritmo narrativo e una pessima caratterizzazione dei personaggi e delle situazioni. Quella che poteva essere una riflessione sull’espressione artistica e l’insegnamento nel soffocante ambito familiare, si riduce a una fiaba densa di patetismi, molto a effetto e per niente sincera. E non credo veramente che uno sia in grado di suonare a quella maniera con la sigaretta accesa a penzoloni tra le labbra: può riuscirci solo Keith Richards, gli altri fingono. Dal momento che ci sono tutti gli ingredienti per fare dell’ottima retorica sul musicista malato, incompreso, castrato etc., la regia ci si tuffa a pesce, giocando anche ambiguamente. David Helfgott esiste, vive e (si suppone) soffre pure. Shine è ispirato alla sua vita, ma non si sa fino a che punto. Però gli elementi di verità rendono verosimile anche tutte le cazzate che verosimili non sono per niente, con buona pace del pubblico che ignaro abbocca. È assolutamente di pessimo gusto questa commistione costantemente sfumata tra realtà e finzione e sono di pessimo gusto e immorali le scelte registiche di Scott Hicks che questo equivoco portano avanti. I luoghi comuni (visivi e narrativi) più burini vengono allegramente snocciolati ai danni dello spettatore che beato, commosso e gnucco segue la storia. E poi, passata la buriana del film, non sarà parso vero agli americani avere Helfgott in carne e ossa a suonare… e infatti hanno riempito i teatri per ascoltare le sue demolizioni d’autore. Chi ha assistito alle esibizioni ha parlato di spettacolo da circo con il povero freak costretto (o felice) a suonare come una scimmietta, per non parlare del livello artistico umiliante. Un film mediocre per una operazione decisamente ributtante. (Vhs; 1/5/98)

OF0904.jpg299-O estranho mundo de Zé do Caixão di José Mojica Marins, Brasile 1968

Graditissima sorpresa da un’innocua cassetta di Pier Paolo: un film horror brasiliano degli anni Sessanta, da un regista recentemente scoperto e rivalutato. Il film si compone di tre episodi preceduti da un prologo narrato dallo stesso regista che si conclude con le parole “il terrore è in voi”. Il primo episodio, O fabricante de bonecas, narra della tecnica di un artigiano che costruisce bellissime bambole dagli occhi paurosamente umani (indovinate un po’…). Il secondo è dedicato alla follia feticista di un necrofilo ed è l’episodio più poetico e disturbante. Il terzo invece mette in scena una situazione classica: il conflitto tra ragione e istinto. Una specie di stregone, genio del male, invita a cena e poi fa prigionieri uno scienziato moralista e la moglie e li mette davanti alla loro insopprimibile irrazionalità (in maniera piuttosto truce, mica con argute deduzioni dialettiche). Regia spartana, pochissimi soldi, scenografie visibilmente di cartone mascherate da un diluvio di idee, recitazione approssimativa e temi inusuali affrontati con estremo coraggio e libertà espressiva. Si parla di ossessioni, religione, sessualità, cannibalismo, pulsioni segrete e represse, altro che l’oleografica e solare rappresentazione della carnalità carioca a ritmo di samba. Mojica Marins mette in scena l’orrore senza la mediazione dell’ironia che oggi ci fa digerire qualunque violenza e la sua manovalanza cinematografica è riscattata da un coraggio impensabile per un film di trent’anni fa. Il messaggio è a sua volta moralista? Non saprei. Sicuramente c’è una dolente convinzione della presenza dell’orrore nei nostri comportamenti e il sesso è sempre visto in chiave bestiale, ma in fondo c’è anche un’umana comprensione nell’invitare ad accettarci (rassegnarci) alla nostra condizione. Estremamente inquietante e misterioso. Ultima nota, i tecnici brasiliani (fotografia, elettricisti, scenografi) sono come dei calciatori: nei credit sono tutti indicati per nome (Serginho, Galvao, Mauro etc.). Intanto, per la cronaca (italica), si rileva che il Delfino non solo è uno tra i mammiferi più intelligenti, ma anche uno tra i carabinieri più coglioni. (Vhs; 8/5/98)

300-Jackie Brown di Quentin Tarantino, USA 1997

Vedendo l’ultimo Tarantino, si gode — e da matti — a pensare a tutti i gonzi in sala che si aspettavano un pulpitante pulpettone e si trovano invece un film quasi soporifero nella sua classicità tematica e narrativa. Il Lumière era gremito di bestie che hanno scoperto il cinema grazie a Quentin e che, nel bene e nel male, nulla sanno dei precedenti che Tarantino cita, omaggia, satireggia e decostruisce. Stringendo: direi che il difetto principale del cinema di Tarantino (come del cinema di Jarmusch o di altre novelties degli ultimi anni) sta proprio nel pubblico, nel suo pubblico; quelli che vedono le scene di violenza o citano i dialoghi e, perdendone ogni sfumatura ironica, si perdono in quanto mai fuori luogo “foorte!” e “mitico!”. Jackie Brown, tra i non pochi pregi, presenta una maturità che probabilmente mancava alle scintillanti opere degli esordi. E soprattutto non s’adagia su formule che avrebbero appagato il pubblico più becero: è come se Quentin, da quel maledetto pubblico di cui dicevo prima, avesse voluto allontanarsi. Ecco allora una storia dai risvolti profondamente umani, quasi crepuscolari: non più la follia di scombiccherati gangster (o perlomeno non solo). Ecco le storie di personaggi molto meno accattivanti: gli eroi di Jackie Brown sono persone che, alla soglia della vecchiaia, tentano un colpo di coda per riscattarsi, per darsi un futuro migliore. La protagonista ha un misero stipendio e, lei, nera, quarantacinquenne ancora piacente, intuisce che se non piazza ora il colpo della vita, sarà costretta alla miseria più becera. La assiste Robert Forster, anche lui stanco di questa vita senza prospettive. E anche i comprimari sono alla ricerca dell’occasione che li metta finalmente a riposo, pure il truce Samuel L. Jackson vuole ritirarsi a vita privata: cosa c’è di più lontano dai cliché consolidati per cui gli eroi devono essere giovani, belli, prestanti e sognatori? Abbiamo piccoli eroi alle prese con un futuro incerto, sostanzialmente con la pensione che, per dirla con Jackie Brown, non basterà neppure a pagarle le sigarette. E con che amore Tarantino li riprende, con che intensità li segue, li inquadra, veglia sulle loro umane fatiche. Va anche detto che narrativamente il film soffre un po’ di alti e bassi. Le due ore e trenta sembrano francamente eccessive e, per esempio, parecchi dialoghi lasciano a desiderare, non bastando a risollevare questi momenti morti alcune impennate pulp. Tarantino è approdato a un racconto più pacato, ha dedicato il suo tempo a costruire personaggi con un bello spessore, non s’è ridotto a parodiarsi, e il film ti lascia anche l’impressione di un risultato che non ha saputo essere all’altezza delle premesse. M’è abbastanza piaciuto, senza però convincermi del tutto. Raffa ha dichiarato che non aveva mai dormito in sala e c’è voluto proprio Jackie Brown per arrivare a questo risultato. Pier (mai stato un tarantinato della prima ora), invece, s’è rotto. (Cineclub Lumière; 11/5/98)

(Continua — 9)