Rosso Novecento.jpg Pietro Mita, Rosso Novecento. La Puglia dai cafoni ai no-global, Lecce, Pietro Manni, 2008, pp. 208, € 18.00

Pubblichiamo l’introduzione di Girolamo De Michele e la postfazione di Tommaso De Lorenzis al bel libro di Pietro Mita: una ricerca sulle lotte locali del Novecento pugliese che ha più di qualcosa da consegnare alle prospettive globali

Introduzione: I cafoni non vanno in Paradiso
di Girolamo De Michele

Esiste, all’interno del ceto culturale tarantino, una figura peculiare, nella quale si incarna in forma jonica la mitologia dell’altrove, il rimpianto per la terra patria perduta in una qualche età dell’oro (non abbiamo bisogno, noi tarentini, di leggere Heidegger per provare il dolce spaesamento reazionario del “c’era una volta, e forse c’è ancora”): l'”intellettuale cataldiano”.

Roberto Nistri, bizzarro esempio di erudito jonico, così la descrive nel suo Scritture joniche di fine secolo (Taranto, Scorpione editrice, 2005): «L’intellettuale disorganico, non funzionale né ad una strategia del consenso né alla proposizione operaia del dissenso, sprovvisto di una qualunque analisi delle classi e delle forze in campo, operò una vera e propria rimozione della dimensione industriale e si inventò un ruolo e una missione: il paladino della “tarentinità”. […] Questa ideologia è stata l’oppio degli intellettuali tarantini, residenti o fuggiaschi, esteti o combattenti, sempre al di là o al di qua rispetto al fenomeno della grande industria. Ha funzionato come idea-forza, impegnata a costruire una geografia della coscienza, una mappa sentimentale, una Taranto del cuore: il più delle volte un mito buono per dormire e sognare, che tuttavia, nei momenti migliori, ha sorretto la resistenza contro l’anonimato e l’omologazione…». Vista con la debita distanza, con lo sguardo obliquo di una letteratura che si esprime (forse non per caso) soprattutto in scrittori migrati altrove (da Giancarlo De Cataldo a Cosimo Argentina sino al sottoscritto, per tacere del grande, eppure misconosciuto, Franco Zoppo, il cui Belmonte, se mai fosse letto, sarebbe da annoverare tra i tre-quattro grandi romanzi storici del Novecento italiano), l’ideologia cataldiana ha il dubbio privilegio di ergersi ad allegoria dell’intera Puglia, mai come ora attraversata nella dimensione conflittuale che caratterizza questa post-modernità tutt’altro che post-moderna, pervasa dai molteplici conflitti; da quello tra capitale e lavoro a quello tra industria e diritto alla salute; dai conflitti ambientali a quelli attraversati dalla questione migrante; dalle vecchie e nuove forme di caporalato, alla precarizzazione dell’esistenza; dalle tensioni tra l’illegalità come rivolta dei nuovi cafoni contro l’ordine costituito, all’illegalità come gomorrizzazione dell’esistenza in forme di coercizione e assoggettamento della vita nelle forme proprie della malavita organizzata del terzo millennio… E dalla Puglia all’intero meridione, che, come Gomorra ci insegna, non finisce di certo al sud. Il cataldismo, come consolazione intellettuale in forma di spiegazione dei fatti che ai fatti si ferma — come descrizione di uno stato di cose che rinuncia in partenza alla possibilità di modificare l’esistente e si accontenta di esporre il dolce miele della nostalgia (e del resto, non era sulle rive del fiume Galeso che Virgilio si abbandonava a Morfeo sazio delle delizie del pane e miele cosparso di semi di papavero, sino a chiedere di essere sepolto in questa terra dell’inebriante oblio?) — il cataldismo, dicevo, ha molte forme e molte sfaccettature: lascio al lettore il divertimento di rinvenirle, per citare solo due esempi, tra le poltrone del Nuovo Cinema Paradiso o nelle vicissitudini dell’avvocato Guido Guerrieri. Resta che di tale molteplicità di manifestazioni non una è rintracciabile nelle pagine di questo Rosso Novecento. La parola d’ordine di queste pagine è: «Rimuovere la patina mitologica». Liberare i cafoni dalle rappresentazioni che sorvolano dall’alto i suoli e, non riconoscendone le peculiarità, li incasellano e li assoggettano in schemi e categorie che spaziano sul generale al prezzo della rimozione dell’anomalia selvaggia della singolarità. O, al contrario, che si fermano all’albero e non vedono la foresta, che non sanno ricondurre la singola figura nel reticolo più ampio del sociale, e finiscono per astrarla facendo del cafone una statuetta da Presepe. Beninteso: nessuno, nelle nostre terre, è immune dall’indulgere nel piacere eduardiano della grotta e dei pastorelli, del bue e dell’asinello: ma a condizione — e non è facile — di ricordare sempre la differenza tra mito e storia, tra ciò che si ripete sempre uguale e ciò che dev’essere strappato alla dittatura del fino ad oggi. E se il prezzo da pagare dev’essere la rinuncia a Giuseppe Di Vittorio, Pietro Mita non si tira indietro: liberato dall’ombra del grande sindacalista di Cerignola (una Cerignola oggi così diversa da quella che lo ha visto guidare le lotte contadine), il lettore scoprirà un’altra figura di intellettuale non-cataldiano, quel Tommaso Fiore che con il suo Cafoni all’inferno fornisce a queste pagine la cifra interpretativa. Un’epica senza eroi, dunque: dove una piccola moltitudine di figure “minori” eppure realissime sono colte nel loro stretto radicamento sociale. E dove, con un esercizio di metodo che richiama la migliore pratica dell’inchiesta antagonista, l’Autore cerca di cogliere le tendenze dell’avvenire.

franco.cassano.jpgStorie di cafoni meridionali, radicati in un Novecento che non vuole saperne di passare. Che, come i personaggi del bel film (Da zero a dieci) di un cafone padano prestato al rock e al cinema, non è passato: sta ancora passando. In guardia, però: che parlare del Meridione non è solo un discorso sul Meridione — non più, non soltanto. Da quando Franco Cassano [a destra] ha pubblicato quel vero manifesto che è Il pensiero meridiano (Bari, Laterza, 1996, 2005) — libro, va detto, diseguale, non proporzionato, in alcuni punti ingenuo o discutibile: ma non è questa la sede —, il discorso sul Meridione è sempre anche discorso sul Settentrione. Dell’Italia come del mondo. Vedere il nord dalla parte del sud significa «restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri»: rompere il dominio simbolico che vuole i(l) sud essere «un luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo», «forma incompiuta del nord» piuttosto che esito voluto della modernizzazione. L’autonomia del sud significa, ricorda Cassano, praticare lo scarto teorico che consiste nel non pensarlo come «non-ancora nord», rifondare un’idea del riscatto che rifiuti senza mediazioni il disprezzo dei luoghi, la loro vendita all’incanto, gli stupri industriali della modernità non meno che quelli turistici della postmodernità. Ed anche — facendo operare il metodo-Gomorra — ritrovare l’orrore, l’osceno, la bruttezza, evidenti nell’esito meridionale della modernizzazione, anche dietro la patina linda dei nord del mondo.

Libro locale che guarda al globale, questo Rosso Novecento di fatto non conclude, come non è concluso il Secolo lungo che vede Adam Smith affacciarsi a Pechino. Le molte anomalie pugliesi — dai sindaci sino alla presidenza della regione — sono attese a durissimi banchi di prova. Ed è emblematico che proprio da quell’angolo del sud che ha visto, nell’aprile 2005, gli emigranti riempire i treni per tornare in Puglia e strappare il comando ai poteri secolari, si profili un scontro istituzionale inedito. Uno scontro nel quale la posta in gioco è tutta nello scarto che intercorre tra il dominio biopolitico di un’arrogante processo industriale e il riscatto delle vite da un destino infame, dove l’alternativa alla miseria non può essere solo la morte lenta dei corpi offesi dalla diossina, consunti dalla leucemia, deformati dai tumori. Emblematico, e monitorio verso molli politiche riformistiche che mascherano i propri servaggi dietro la menzogna della “bella politica” in cui le vacche sono grigie.

Le forme dell’antagonismo del terzo millennio sono ancora enigmatiche, imprevedibili, granulari. Ricostruirne la genealogia è un lavoro imprescindibile per chi voglia fare del Novecento non una bottega dell’antiquario né un monumento monitorio, ma una freccia scagliata dentro, e in favore di, un tempo futuro. Il cielo delle campagne pugliesi non ha i colori miti dell’Attica aulica, ma quelli scuri del mostro industriale che soffoca Taranto e Brindisi, o quelli accesi delle lotte che dalla Puglia rinviano al territorio screziato dei molti sud del mondo.
Nelle lotte dei migranti e in quelle per la difesa degli ospedali locali, nei giovani metalmeccanici e nei centri sociali, nell’inferno delle esistenze nelle periferie risuona il desiderio antico di assaltare quel cielo sempre negato ai cafoni. Fino al giorno in cui, finalmente, non ci sarà più quel maledetto cielo.

Postfazione
di Tommaso De Lorenzis

È una scelta precisa, una pressante indicazione di luoghi e di tempi, quella che Pietro Mita esplicita nelle pagine di un prologo il cui titolo eloquentemente recita: «Il Secolo defraudato». Si tratta dell’orgogliosa assunzione d’una prospettiva da cui riportare alla mente dimenticate cronologie, liberando lo sguardo su insolite mappe.bari_8873242_00040.jpg
Il Novecento, dunque: quest’età controversa, “abbreviata” per insostenibile concentrazione di fango, acciaio e carne umana a brandelli. Quest’epoca oramai dannata, della quale Mario Tronti ha scritto che, pur sognando di mirarla «dall’alto», ci troviamo costretti a occhieggiarla «dal basso della fine». Proprio dagli inferi dei suoi, tanti, cangianti termini ultimi, troppo spesso si è scelto di ripercorrerla. E se una sfumatura amaranto si deve accostare alle cifre del “Secolo breve”, accade sovente che sia la dominante vermiglia del sangue.
A Rosso Novecento ci si approssima con cautela, abituati alle diverse gradazioni di questa retorica della liquidazione. Ma pagina dopo pagina, nell’appassionante procedere della lettura, i clichés si ribaltano, mentre il luogo comune cede a luoghi altri e al “comune” di tumulati conflitti da disseppellire. Ed ecco comporsi l’immagine d’una stagione «bistrattata», giudicata con sentenza inappellabile, dispersa nelle pieghe d’imbarazzate rimozioni. Alla stregua dell’upupa di Montale, si dice all’inizio: «uccello calunniato dai poeti», ora «finto gallo» che gira al vento, ora «nunzio primaverile» per il quale il tempo s’arresta. E allora conviene davvero sospenderlo, per un attimo, il tempo, e contenerne — anche solo per un fuggevole istante — l’inarrestabile corsa, sfogliando i medaglioni e le istantanee, i volti e i ritratti, gli indimenticabili primi piani e gli epici grandangoli che compongono l’intreccio della narrazione.
L’impertinenza della proposta risulta evidente; il dissonante echeggiare dell’interpretazione non è da meno. È una scortesia questo Rosso Novecento, un’originale pausa di riflessione, un’elisione — tanto decisa, quanto problematica — delle brucianti traiettorie di emersione dalla modernità. Senza dubbio è un dovere ricordare come non tutti i punti di fuga, non tutti i tragitti di transito, non tutti i sovvertimenti delle gerarchie del politico, siano impastati nei caramellosi ingredienti del postmoderno. Ma questo l’autore lo sa. E allora potrebbe bastare l’invito a guardarsi alle spalle. Sarebbe comunque sufficiente la chiamata collettiva alla sosta del ragionamento. Ci si potrebbe accontentare ugualmente del suggerimento di liberare il Novecento da rappresentazioni oleografiche.
Invece, non basta. E così non solo la vista scandaglia il passato, in attesa di tornare a piantarsi sull’orizzonte del futuro, ma si leva dal “basso” verso l’“alto”, da Mezzogiorno a Settentrione. Pietro Mita ha raccontato di paesi e campagne, di vigne e uliveti, di massacranti fatiche e inconcepibili servaggi, di leghe contadine e occupazioni delle terre, di sommovimenti spontanei e scioperi organizzati. Ha dipinto l’affresco di un’obliata epopea e composto il mosaico di una saga d’emancipazione: quella — per l’appunto — dei «cafoni all’inferno». Allora, la sorpresa è doppia. Non si tratta soltanto del Novecento, bensì di un Novecento che intanto comincia a fare da sé, col lento costituirsi d’una «classe per sé», e su cui non tira più tramontana, quel “vento del Nord” che vale da metafora di un’epifania del moderno. Così, nello spazio del libro, il Secolo muove sulle ali di refoli sud-orientali.
Confessiamo lo stupore iniziale, il disagio per essere stati catapultati all’indietro. A prima vista, irrimediabilmente lontani dal «punto più avanzato dello sviluppo del capitale», come si sarebbe detto una volta. Dov’è la fabbrica del fordismo? Dove sono i conflitti dell’“operaio massa”? E cosa può dire la terra, dura e immota, delle ristrutturazioni epocali che ridisegnarono il volto delle società d’Occidente? Che c’entrano queste contrade, queste campagne, questi borghi con i recessi delle metropoli, con le periferie esplosive in cui maturò l’ultima sollevazione, arsa di botto nei crepuscolari riverberi dei Settanta? Insomma, a che ci serve la Puglia delle diverse province e delle molteplici storie?
Certo, lo stacco con la salmodiante ideologia del presente è netto. Di sicuro, non sfugge l’irriverenza dell’approccio. Oggi che le “questioni” sono tutte “settentrionali”, proprietà di un “Nord che lavora, produce e vuol sentirsi sicuro”. E oggi che la parola «comunista» — vocabolo principe del lessico novecentesco — in troppe occasioni, proprio a sinistra, affiora su labbra atteggiate a ironiche, “sapute” espressioni à la mode. Questo è chiaro, e non si fraintende.
Ed è anche giusto ricordare l’inconsistenza di equivoche distinzioni. Non c’è più “sopra” e “sotto”, centro e periferia, locale e globale, passato remoto e futuro anteriore, persistente reminiscenza e brusca accelerazione, déjà-vu e intuizione, legalità e illegalità, Nord e Sud, nelle soffocanti maglie del paradigma dell’accumulazione flessibile.
Tuttavia, è il nefasto procedere della Storia a fugare, con la concretezza dei suoi orrori, l’ultimo dubbio sull’«attualità» di questa lunga marcia contadina e a ridefinire le proporzioni dell’estremo lembo d’Italia. Si consideri — per un attimo — quell’“arcaico”, brutale mercimonio di carne, quel “remoto” «mercato delle braccia» in auge sulla piazza del paese. Alzando gli occhi dalla pagina, lo ritroviamo in città, appena ripulito dalla grinta feroce dei caporali, ma ben legalizzato lungo i mille rivoli del lavoro interinale. Misuriamola tutta, la profonda, abissale, secolare invisibilità della plebe per come ci viene presentata agli albori del racconto: condizione oscena di un’esistenza che — semplicemente — non esiste. Di certo non conosciamo una «vita irrigidita» dall’alba gelata, come la definì con icastica potenza Tommaso Fiore, ma intendiamo fin troppo bene una nuova, soffusa evanescenza: quella di molti, troppi lavori — “stagionali” o “a chiamata” — che non concedono lo sputo di alcun diritto.
Ma prestiamo attenzione, perché — superando le righe del prologo — non è sui terreni del Tavoliere, sui crinali dell’Alta Murgia e nemmeno nelle campagne di Terra d’Otranto che ci ritroviamo, bensì davanti ai cancelli della fabbrica. E non si tratta d’una fabbrica come le altre, bensì degli altiforni della «città dei due padroni». Convinti di passare dalla Puglia dei contadini, è dalla Taranto siderurgica che entriamo nel Novecento, per apprezzarne — prima — la densa forza operaia, ma per scorrerne, dopo, il tumultuoso decadere, soppesando così — fino all’ultimo grammo — gli esiti amari di un’industrializzazione senza progetto che ha preteso incalcolabili tributi di sangue. Di nuovo, sollevando lo sguardo, la si rinviene — ovunque — questa cinica e vorace entropia che ha ridotto i corpi a variabile dipendente di un’economia di scorie e veleni.
Spezzando la lettura, rimbalzando oltre il margine della pagina, possiamo ripetere il gioco delle proiezioni e procedere, con lo stile dell'(in)attuale, lungo il filo del tempo, nel sincopato sbrogliarsi delle dis-continuità.
Eppure, più che in un esercizio di analogie e differenze, è nella netta percezione d’una mancanza che cresce la consistenza di Rosso Novecento. Un filo disperso unisce la miriade dei personaggi, congiunge le cronache dei conflitti e si snoda dai campi della Capitanata alle zolle dell’Arneo. È il filo che ha tessuto la tela di quella politica capace di agire nelle contraddizioni del moderno. Proprio con la politica — con le sue forme, i suoi strumenti e le sue conquiste — la narrazione ci obbliga a confrontarci. Senza dubbio il racconto non termina, non vuol terminare. L’urgenza d’una riproposta critica e plastica, capace di sventare la caricatura di truci o vacui remake, attraversa — compatta — il discorso. Finisce, forse, per farsi un po’ troppo “densa” nel sollecito, provocatorio trasporto delle conclusioni. Ma non è questo il punto. I “limiti”, infatti, non sono travalicati solo in avanti. Accade anche all’indietro, quando la narrazione anticipa il termine e scivola al Novantanove d’un altro Secolo. Il differimento temporale alla Puglia giacobina è ben più di un’astuzia o di un virtuoso “cambio d’inquadratura”. Al contrario, vale da pertinente riferimento a quel moderno non contro cui, ma dentro cui la politica è destinata a battersi.
E se è vero che la lingua di Tommaso Fiore dà corpo alla prospettiva di un engagement emancipato dall’atavica, speculare disorganicità rispetto agli antagonisti in campo, sono Cesare Teofilato e Antonio Somma a incarnare gli attributi del “politico”. Tenacia e ostinazione, coraggio e perseveranza non rimangono mai le impareggiabili doti d’uomini straordinari. Nel potente dispositivo della politica, durante la stagione del suo apice novecentesco, le virtù dei singoli si traducono in disposizioni collettive e guadagnano il campo lungo della battaglia che diventa diritto e del diritto da cui riprende la lotta: avanti così, ancora di un metro, fin che ce n’è, fino alla fine del Secolo…
Le vite del poeta e dello scalaro, dell’agitatore socialista e del partigiano, del sindaco e del militante comunista, comunicano forza e pazienza. E non sono forse, queste, due insopprimibili specificità del “politico”? Amministrare la forza, convogliarla su determinati punti d’impatto, esercitarla per rovesciare il rapporto, armati d’una pazienza — sempre impermeabile alla rassegnazione — che scandisce una differente temporalità rispetto all’orrendo sopravanzare dell’eterno ritorno… Non la si potrebbe riassumere così l’arte della politica?
Queste pagine sgranano tutti i nodi che il Novecento ha stretto e poi sbrogliato, reciso o lasciato insoluti: forza e consenso, partito e autonomia della classe, particolare-universale, spontaneismo-organizzazione, e poi — ancora — egemonia, alleanze e blocchi sociali. Sono i motivi che pensavamo d’esserci lasciati alle spalle e che, invece, ci ritroviamo davanti. È su queste questioni che, nell’arco dei decenni passati, si è vinto e si è perso. Difficile dire cosa accadrà da qui in avanti, ma di una cosa si può esser certi: ignorando il confronto con questi temi, non c’è vittoria e nemmeno sconfitta… Non c’è proprio partita.