di Alessandro Morera

Uncondannato.jpg“Questa è una storia vera, io la racconto cosi com’è, senza ornamenti”
(Robert Bresson)

1943 Lyon: Occupazione tedesca. Il film di Bresson inizia subito con una suspence creata dal realismo dei dettagli: mano sulla portiera, finestrino dell’automobile, cambio delle marce. In due minuti, il film passa dalla presentazione di un tentativo di fuga, attuato e fallito, alla prigione: un ritmo vertiginoso, creato non solamente attraverso il montaggio. Una volta che il protagonista si trova in prigione, la dominante del film diviene la voce fuori campo, espressione del pensiero del protagonista, in funzione anche di commento della propria situazione e delle cause che a questa lo hanno portato. Il condannato a morte del film è un artigiano francese, che durante una rissa ha ucciso un soldato tedesco.

Successivamente, lo spettatore viene posto di fronte alla preparazione della fuga, che è il pensiero fisso del protagonista: ogni suo atto, ogni suo gesto, ogni suo pensiero viene messo al servizio di questo scopo. Le mani — oggetto umano – e il cucchiaio — oggetto materia – diventano i coprotagonisti del costante “effetto speranza di fuga” di cui il protagonista è portatore nei confronti dello spettatore. Continua nel film infatti ad apparire l’immagine della porta di fronte osservata attraverso l’occhiello della cella, ovvero in soggettiva.
In seguito all’ufficiale condanna a morte dell’artigiano, arriva nella cella un giovane soldato francese. Condannato per diserzione come egli afferma, o incaricato di sorvegliare il condannato a morte? Tale sottile dubbio, presente nella mente del protagonista, viene insinuato anche nello spettatore.
Se fino a questo momento il dialogo era stato annientato dal monologo interiore dell’artigiano, ora invece inizia ad aumentare, fino a quando l’artigiano decide di fidarsi del compagno di cella proponendogli di fuggire insieme: i due riusciranno cosi a evadere.
La particolarità del film di Robert Bresson risulta nel fatto che mostra l’uomo, ovvero l’essere umano, in tutta la sua essenza profonda: come riesce il condannato a costruirsi i ganci, a creare un varco per fuggire con il cucchiaio, a fare delle corde con le coperte? E’ un artigiano, ovvero colui che modella la materia per creare qualcosa insita nel suo pensiero, le sue mani realizzano ciò che la sua mente ha pensato. L’uomo si differenzia dagli animali poiché, grazie alla sua mente, domina, trasforma, assoggetta ai suoi desideri la materia, avendo cosi la possibilità di creare e attuare i suoi pensieri. Senza il controllo della materia attraverso la propria ragione, l’uomo non potrebbe creare nulla. Egli ha infatti a sua disposizione il pensiero, la ragione, e la materia per ottenere la creazione e l’attuazione dei suoi desideri. Anche i pensieri più difficili possono essere realizzati se perseguiti con costanza, e se ogni gesto o pensiero è rivolto alla realizzazione di essi, questo è ciò che ci mostra il film di Bresson, la potenza della volontà. E’ cosi chiaro come nel film il punto centrale sia l’Uomo: non l’uomo-attore e le sue azioni in quanto tali; bensì l’Uomo nella sua essenza di essere umano, che ci viene mostrato attraverso la fisicità del corpo dell’attore e dei suoi movimenti nell’ambiente circostante (immagine in movimento) e dal ritmo della concatenazione delle immagini (montaggio). Ovvero dal cinema.
Come il condannato — artigiano – crea con le proprie mani gli strumenti per fuggire, cosi Bresson — regista – crea con i suoi pensieri e la loro applicazione visiva un film straordinario, dove ci viene mostrato come il principio unico e incontrovertibile dell’essere umano sia quello della libertà.
Libertà come principio base al quale tendere con tutte le energie.
Un condannato a morte è fuggito (“Un condamné à mort s’est échappé,” 1956) non è ancora un film “Nouvelle Vague” (i piani sequenza sono pochissimi, il ritmo del montaggio è frenetico) ma è chiarissimo come senza Bresson la Nouvelle Vague non sarebbe esistita come la conosciamo oggi.

Qui l’incipit del film

(Da notare come le voci arroganti dei nazisti, udite fuori campo in una semi-soggettiva del protagonista, risultino particolarmente raggelanti – N.d.R.)