SM12a.jpgdi Dziga Cacace

348-Michael Collins di Neil Jordan, USA 1996

Jordan è un pernicioso regista irlandese che, chissà per quale imperscrutabile percorso del caso, ha conosciuto, quattro stagioni orsono, un clamoroso successo con un film sconclusionato e imbecille come La moglie del soldato, equivocamente scambiato per una prova autoriale perché tra capo e collo ti mostrava un uccello dove non t’aspettavi che fosse. Pensavo che il tempo avrebbe fatto giustizia e invece, incredibile, Michael Collins vince il Leone d’oro a Venezia e, manco a dirlo, è un’altra mediocre porcata (e visti anche gli altri premi ho la certezza che Polanski avesse distribuito dell’erba alla giuria). La vicenda storica della breve vita di Michael Collins è narrata con un piglio drammatico che non lascio spazio a nessuna analisi psicologica o a una più profonda analisi politica, mescolando, oltre a tutto, ai fatti storici, non meglio precisati inserti romanzati (negando anche quella che poteva essere l’unica valenza positiva del film, la veridicità storica). Girato e recitato in modo virile e ottuso, Michael Collins ha un primo tempo discreto, sostenuto da un buon ritmo, ma cade completamente nel secondo, quando prevalgono l’inconsistenza dei dialoghi e la superficiale cronaca storica. Su tutto emerge lo storico duetto tra Julia Roberts e il futuro consorte Collins (un Liam Neeson che, grazie alla fissità interpretativa degna di un tronchetto della felicità, è riuscito incredibilmente a vincere la Coppa Volpi). Paventandone la morte, lei gli dice “Ti voglio vedere diventare calvo” al che, ineffabile, l’eroe risponde: “Nella mia famiglia sono tutti calvi”. Bestiale. (Cineclub Lumière; 26/1/97)


349-Il lottatore e il clown di Boris Barnet e Konstantin Yudin, URSS 1958

Girato negli anni della destalinizzazione, Il lottatore e il clown è un bel film, corposo e soddisfacente, lontanissimo però dal gioioso sperimentalismo che invece contraddistingue il giovane Barnet di Sulle rive dell’azzurro mare. Film classico, ben recitato e meglio fotografato, Il lottatore e il clown racconta le vicende di due amici, appunto un clown e un lottatore, che nei primi anni del secolo diventano i beniamini del pubblico russo, prima, ed europeo, poi. Molto piacevole, ma il Barnet da Top Ten è quello giovane. La cosa che forse lascia più sbalorditi è, nella versione originale sottotitolata, la raffica d’imprecazioni in italiano del direttore del circo Tuzzi, che, tra mille moccoli, infila anche due chiarissime bestemmie. Per fortuna in Rai non se n’è accorto nessuno. (Vhs da RaiTre)

350-La bambola di carne di Ernst Lubitsch, Germania 1919

Il titolo potrebbe far pensare a un film hardcore, invece, ach!, La bambola di carne è un divertentissimo e delizioso film del 1919. Il Barone di Chanterelle è preoccupato perché non ha discendenti cui affidare la sua cospicua eredità e dunque chiede al nipote Lancillotto di sposarsi per regalargli una discendenza. Il nipote non ne ha alcuna intenzione e, prima scena estremamente divertente, viene inseguito da quaranta fanciulle desiderose d’impalmarlo, finché non trova rifugio in un monastero abitato da grassi e crapuloni monaci che non fanno altro che ingozzarsi. Quando il Barone di Chanterelle gli promette una forte somma, Lancillotto, su istigazione dei monaci che hanno bisogno dei soldi per il loro oneroso sostentamento, decide di sposare un automa dalle sembianze di donna. Da questa scelta (perché ovviamente al robot si sostituirà la figlia dell’inventore di queste bambole meccaniche) nasce una serie di equivoci spassosi fino al consueto e prevedibile lieto fine. La bambola di carne subisce l’evidente influenza dell’espressionismo (il tema del doppio, le scenografie bidimensionali e antinaturalistiche, il rapporto tra creatore e automa) ma legge tutto in una chiave umoristica intrisa di vivace surrealismo. Mi sono letteralmente sganasciato grazie alle notevoli qualità mimiche degli attori (specialmente l’impertinente ragazzino, assistente dello scienziato) che assecondano una sceneggiatura zeppa di gag molto divertenti. Finalmente ho scoperto dove Villaggio ha rubato la scena delle “polpettine di Bavaria” per il suo Fantozzi. Ma si ride anche per le argute didascalie tra cui emerge anche un malizioso sottinteso sessuale quando Ilarius, lo scienziato, affida il supposto automa a Lancillotto e si raccomanda di “lubrificarla almeno due volte alla settimana”. Per cui c’è anche del porno. Capolavoro. (Vhs da RaiTre)

351-Un’estate prodigiosa di Boris Barnet, URSS 1950

Girato in pieno stalinismo, Un’estate prodigiosa risente pesantemente della cappa ideologica che permeava l’Unione Sovietica in quegli anni. Petr è un ispettore/ragioniere incaricato di controllare la gestione di un kolkhoz gestito dal suo vecchio amico Nazar. Scoprirà che la cattiva gestione non dà i frutti sperati ma, in un collettivo sforzo (ammissione degli errori passati e rinnovato slancio lavorativo), il kolchoz riacquisterà forza e competitività. L’assunto ideologico (necessità di autocritica, maggiore entusiasmo e collaborazione) è molto chiaro e soffoca le piccole storie d’amore che Barnet imbastisce tra i personaggi della vicenda. Il tocco lieve del regista è sempre presente (le belle immagini paesaggistiche, le sequenza quasi documentarie del lavoro nei campi, le divertite scaramucce amorose) ma il risultato è un po’ legato ed è percepibile l’impaccio della regia. Piacevole, ma ancor più de Il lottatore e il clown, lontanissimo dal Barnet da urlo. (Vhs da RaiTre)

SM12B1.jpg352-Casinò di Martin Scorsese, USA 1995

Avendolo colpevolmente perso l’anno scorso su grande schermo, mi vedo l’ultimo Scorsese in videocassetta e rimpiango l’errore fatto. Infatti, come da tanti anni non gli riusciva più, Scorsese costruisce un film ambizioso e straripante che, anche se talvolta affiora qualche impaccio narrativo, convince decisamente. Sam (un crepuscolare De Niro), dopo anni di scommesse clandestine, dirige per conto della Mafia un Casinò di Las Vegas, aspirando a una rinnovata rispettabilità. La pericolosa amicizia con Nicky (un cattivissimo Pesci) e il matrimonio con l’alcolizzata e cocainomane Ginger (Sharon Stone) mettono però in crisi tutta l’organizzazione. Da un drammatico crescendo finale sarà il solo Sam a uscire vivo, per ritornare, solo, all’originaria attività. Elegia non compiaciuta e poco indulgente di un mondo scomparso all’alba degli anni Ottanta, Casinò racconta, per l’ennesima volta, il destino di un uomo che non riesce a sottrarsi al suo peccato originale e che ne deve scontare fino in fondo la colpa, anche se stavolta il finale lascia un po’ più speranza che in film passati. La confezione è superba (i primi trenta minuti sono un orgasmo quanto a montaggio e fotografia) e la regia è al solito molto cinetica. Forse è un po’ lunga la parte centrale (soprattutto meno connotata formalmente), ma il film non annoia e soddisfa in pieno. Notevole. (Vhs)

353-Parla! È così buio di Suzanne Osten, Svezia 1993

Uno psichiatra assiste impotente al pestaggio di uno straniero e conosce uno dei naziskin che vi ha partecipato. Resosi conto della sua debolezza lo invita a sottoporsi a delle sedute terapeutiche nella speranza di redimerlo. La trama, detta così, potrebbe far presagire un didattico e piatto film, invece lo spinoso soggetto è ben gestito: alle parti in cui lo psichiatra inchioda con una ferrea logica il nazi alla sua confusione mentale, alle sue distorte convinzioni basate su menzogne e ai suoi timori (sia degli stranieri che dei suoi camerati), si sovrappongono altre parti molto meno scontate e banali che non operano alcuno sconto in favore di una maggiore digeribilità dell’argomento. Il naziskin è al contempo un soggetto debole cui istintivamente si sente di dover portare aiuto, come fa il medico, ma d’altro canto è un bastardo imbevuto di xenofobia, razzismo, machismo e quant’altro. La reciproca pericolosa attrazione (il medico che evidentemente usa il confronto per scacciare i demoni del nazismo che ha vissuto in prima persona, il naziskin che, a dispetto della sua arroganza, ha frequenti momenti di depressione e dubbio) permette di costruire un sostenuto confronto il cui finale rimane intelligentemente aperto. Asciutto, ben recitato e scontrosamente riuscito. (Cineclub Lumière; 28/1/97)

354-La maledizione di Damien di Don Taylor, USA 1978

Rivedo dopo tredici anni questo cult della mia adolescenza, un horror apocalittico dello sconosciuto Taylor. Il film, formalmente e tecnicamente dignitoso e anonimo, vede William Holden rendersi conto che il nipotino, adottato, non è altri che il “figlio della bestia”. La tipica pecora nera di famiglia, insomma. La scoperta è costellata dalla morte di tutti quelli che si rendono conto del fatto, in un crescendo di tensione abbastanza ben amministrato. Ricordavo alla perfezione molte scene: se il film vale poco, è in ogni caso insinuante quanto basta e, evidentemente, riesce nell’intento di spaventare grazie a un inquietante tema biblico – orrorifico. Ma non credo che lo rivedrò ancora. (Diretta TV; 29/1/97)

SM12c.jpg355-Aelita di Yakov Protazanov, URSS 1924

In pieno trip sovietico decido di rivedere una tra le più godibile chicche dell’anno passato, che m’ero scoppiato distrattamente con Hilda, badando essenzialmente alle scenografie. In realtà sono proprio queste l’unico vero motivo d’interesse del film: il pianeta Marte viene rappresentato con uno stile che coniuga costruttivismo e astrattismo. Ma andiamo con ordine. Tutte le stazioni radio della terra ricevono un messaggio inquietante e incomprensibile: Anta Odeli Uta. A Mosca gli scienziati Spiridonov e Los stanno completando la realizzazione di un vettore che dovrebbe raggiungere Marte e il messaggio sembra confermare le loro ipotesi di vita nel cosmo. Nataša, moglie di Los, deve nel frattempo ospitare due nuovi locatari nel loro appartamento: il truffaldino (e dalle aspirazioni piccolo borghesi) Erliš e la compagna. Erliš insidia Nataša finché Los, roso dalla gelosia, non la uccide in un impeto d’ira. Gli eventi precipitano: la polizia è sulle tracce di Los, anche perché lo ritiene autore di furti compiuti in realtà da Erliš, e l’inseguimento si conclude a bordo della navicella che deve partire per Marte. Los, l’agente che lo sta inseguendo e Gušev, un fervente bolscevico offertosi per la missione interplanetaria, arrivano su Marte dove li attende con trepidazione Aelita, la principessa del pianeta che s’era già innamorata di Los osservandolo con un potentissimo telescopio. La trama, già molto confusa, s’arricchisce ulteriormente: Aelita, Los e Gušev guidano la rivolta dei lavoratori del pianeta rosso fino alla vittoria (dopo avere illustrato l’esempio dell’Unione Sovietica), sennonché Los si sveglia e capiamo che era tutto un sogno. Il finale ci mostra Los e Nataša felicemente assieme, Erliš arrestato e il mistero della frase “Anta Odeli Uta” risolto: non era altro che lo slogan di una fabbrica di pneumatici di New York (!). La trama è dunque farraginosa (anche perché vi si mescolano altri episodi incoerenti che non ho citato) e la commistione tra sogno e realtà è molto stretta (non si capisce quando inizi l’attività onirica di Los). Ma se l’apparato formale e la recitazione non brillano per qualità e originalità, d’altro canto molte scene risultano godibili (l’inseguimento tra il poliziotto e Los o la sequenza, mostrata al contrario, in cui un fabbro forgia una falce con un martello) così come l’inventiva e ingenua descrizione del pianeta Marte: le scenografie, lontanissime da qualunque tentazione high-tech, sono semplici e immaginifiche; pannelli semoventi e lastre di vetro disegnano uno spazio dove predominano linee pure, forme astratte e geometriche. Anche l’abbigliamento dei marziani segue queste scarne indicazioni ma risulta molto meno convincente (il reggiseno a tre coppe di Aelita, una donna che potrebbe fare colpo su Pier Paolo). Insomma, film molto sconclusionato ma dall’indefinibile fascino, anche per l’immenso valore di rarità che ricopre. (Vhs da Artè)

356-Fuochi nella pianura di Kon Ichikawa, Giappone 1957

A parte Kurosawa e qualche opera recente, conosco molto poco la cinematografia giapponese: casca proprio dal cielo una preziosa cassetta del Fondo. Il secondo conflitto mondiale volge al termine e le truppe giapponesi sono allo sbando totale: in un’isola delle Filippine il dolente e ingenuo soldato Tamura vagabonda allo stremo delle sue forze rifiutato dai suoi commilitoni (è tisico) e braccato dai partigiani filippini. In un crescendo di orrore e follia (episodi di cannibalismo, perdita di ogni valore morale ed etico) Tamura va incontro alla morte. Fuochi nella pianura non assume posizioni ideologiche nei confronti del conflitto e non giudica gli atti infami dei soldati ma osserva e registra con occhio impassibile il percorso di crescente bestialità che li investe, lasciando trarre allo spettatore le logiche conclusioni. Ritmo ben sostenuto, fotografia a tratti intrigante (le scene nella foresta o sotto la pioggia) e alcuni carrelli stupendi per un film duro, poco digeribile ma tutto sommato soddisfacente. (Vhs)

357-Intolerance di David Wark Griffith, USA 1916

“Non l’hai ancora visto?” e bla, bla, bla… Senza spendere parole sul valore del film mi dilungo in due o tre critiche da autentico parvenu della critica cinematografica mondiale. Intolerance fa ricorso a quattro episodi per mostrare come l’intolleranza produca conflitti, dolore e miseria. Quello ambientato in epoca contemporanea conosce uno svolgimento coerente e si conclude con un incalzante finale; gli altri tre, che dovrebbero funzionare da contrappunto, non riescono in modo convincente nello scopo. L’episodio babilonese c’azzecca poco con il tema dell’intolleranza ed è sviluppato in maniera quasi autonoma. Quello ambientato nel XVI secolo è invece castrato dall’esiguità del tempo concessogli e non riesce ad assumere una sua precisa fisionomia. Quello dedicato alla vita di Cristo si riduce a pochi brani che, in un certo senso, ricoprono un ruolo di leitmotiv simile a quello delle scene della culla, ma che tutto sommato non c’entrano una minchia. Non so se il montaggio a mia disposizione fosse un rimaneggiamento lesivo dell’idea originale di Griffith ma permane l’impressione di un risultato, per quanto visivamente potentissimo, poco coesivo. E nel 30 d.C. non esistevano gli archi a cuspide. E Griffith, comunque, era un razzista. Là. (Vhs)

358-Verso la vita di Jean Renoir, Francia 1936

In una colonia parigina di immigrati russi si vive con difficoltà, angariati da un albergatore avido e dalla moglie. Jean Gabin impersona un ladro, per necessità ma in realtà leale e di sani principi, che dirige moralmente la collettività di sfruttati. Deciderà con la sua compagna, dopo aver incidentalmente ucciso l’albergatore, di lasciare la comunità per cercare un futuro migliore. Poetica dei deboli, condita da una dolce ironia: un grande Renoir che non rinuncia anche a una buona cura formale del prodotto. Sono belli i dialoghi e alcuni duetti, particolarmente quello tra Gabin e il Barone ormai povero in canna. Piacevole. (Vhs)

359-Bleak Moments di Mike Leigh, Gran Bretagna 1971

Il Lumière regala coraggiosamente il primo film di Mike Leigh, film che risale addirittura a 26 anni fa. In un’ora e cinquanta di proiezione il regista analizza con dolcezza, sottile humour e tragicità i rapporti molto complessi tra cinque persone problematiche: incapacità di comunicare, di sfiorarsi, di parlare liberamente, di scacciare i complessi o gli impacci, in un ventaglio di difficoltà che vanno dall’handicap mentale di Hilda (sarà il caso!) alla forte timidezza della sorella Sylvia. Ben conoscendo il fardello di complessi e squallore che gli inglesi si portano abitualmente dietro, potete ben immaginare come siano ridotti i personaggi del film, paria tra gli squallidi albionici. La regia divide il film in tre “movimenti”: il primo e l’ultimo hanno un’impostazione decisamente drammatica, la parte centrale (una domenica pomeriggio in cui tutti i personaggi confluiscono a casa di Sylvia e si conoscono) è invece percorsa da uno humour rarefatto ma azzeccato (Sylvia e l’aspirante compagno a parlare di McLuhan, fantastico!). Destreggiandosi bene nei diversi registri narrativi, Leigh costruisce un’opera sincera e accattivante che richiede però un po’ d’impegno. Il pubblico era inferocito, peccato. (Cineclub Lumière; 31/1/97)

SM12d.jpg360-Steamboat Bill, Jr. di Charles Reisner, USA 1928

Sconosciuto film con Buster Keaton, proposto tempo fa da Fuori Orario in una nottata tutta dedicata al vento. Il sapido umorismo di Keaton sforna pochi momenti divertenti ma il film ha sette minuti d’antologia quando un’incredibile tempesta coglie il villaggio dove si svolge la vicenda. Case che volano e si sfasciano, alberi sradicati, la consueta gag del muro che crolla sull’impassibile Keaton… insomma la lotta tra l’omino e la natura è costruita benissimo ed è un piacere per gli occhi. Per il resto il film vale poco. E vabbeh. (Vhs da RaiTre)

361-Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani, Italia 1951

Una formazione di partigiani scende da Pontedecimo verso Genova e spinge gli operai di una fabbrica alla rivolta. Alcuni moriranno, altri torneranno sulle montagne con nuovi adepti alla causa. Film di buon impianto drammatico (la prima parte sembra un western di ambientazione rurale) che evita tirate ideologiche e riesce a non essere retorico. Rivisto dopo tanti anni, l’ho trovato decente, con un discreto motivo d’interesse nell’ambientazione in Valpolcevera: si vedono il fiume e i suoi consueti attraversamenti, non ancora intasati come oggi. Tra gli attori Lamberto Maggiorani, un giovane Montaldo (ma già colpito da incipiente calvizie) e una Lollobrigida irritante allora come oggi. (Vhs)

362-Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, USA 1990

Ancora una volta alle prese con il tema della malavita d’origine italiana, Scorsese racconta vent’anni di vita di Henry Hill, prima semplice galoppino, poi sempre più in alto nella gerarchia del potere, ma sempre e comunque fuori da una “famiglia” affiliata in quanto irlandese. L’ascesa è condita da omicidi (soprattutto per mano del violentissimo Tommy, interpretato da Pesci), taglieggiamenti, estorsioni, furti e commercio di droga, in un crescendo che porterà il protagonista in un vicolo cieco. Quando ormai è certo di essere stato condannato a morte da De Niro (precedentemente suo nume tutelare e socio, ma, si sa, business is business) decide di usufruire del programma di protezione per i pentiti: denuncia tutti e deve adattarsi alla vita normale, borghese e anonima dei collaboratori di legge. L’affresco è spettacolare ma francamente Ray Liotta non ha il carisma per un ruolo così impegnativo, soprattutto al confronto dei suoi due compari, gli ineccepibili De Niro e Pesci (premiato con un Oscar che avrebbe ben più meritato per Toro scatenato). Dal punto di vista tecnico la regia costruisce alcune scene memorabili (specialmente quella dell’ultimo giorno libero di Hill, quando la stessa cinepresa sembra schiava della cocaina che rende paranoico il protagonista) ma evita il consueto cinematismo e risulta un po’ più piatta che in passato. Sostanzialmente il film, che avevo già parzialmente visto in passato, soddisfa, ma ho preferito altre cose di Scorsese. (Vhs)

Postilla

Su consiglio di Barbara chiudo il tomo con una cifra tonda: un ideale anno di cinema, anche se le recensioni coprono 17 mesi*. Si va dai cinque minuti di Man Ray alle cinque ore di Bertolucci, dai documentari alla fantasia narrativa più pura, dalle visioni su grande schermo (le prime visioni o la programmazione del Lumière) a quelle tramite tubo catodico (i numerosi “recuperi” grazie alle videocassette o i film incontrati facendo zapping), in un enorme pastone molto poco coerente. Mi rendo conto di come tante cose siano state scritte senza alcuna ispirazione e, soprattutto, di come manchi un omogeneo metro di giudizio, ma ho preferito non ritoccare nulla, quasi a preservare l’acida freschezza delle originarie impressioni che ho tratto dalla visione dei film. Manca un giudizio sintetico, tipo stellette o voto in decimi (nonostante l’esplicita richiesta di Claudio, che muore dalla voglia di vedere quanti teschi posso attribuire a Io ballo da sola), ma attribuire a posteriori una valutazione avrebbe portato a ulteriori ingiustizie, senza contare che mescolare visioni cinematografiche a visioni televisive (ecco perché lo sguardo è mutilo) è un ulteriore motivo di disparità di giudizio. Come dice, più o meno, Truffaut, il critico (o chi gioca a farlo, come me) è colui che rende conto del suo piacere.
Spero di esserci riuscito (coro di amici: “Ma síí!”). Adesso massacratemi.

*Nota del Cacace 2001: nell’edizione originale si passava dalla recensione 145 alla 149 e l’ultima risultava essere la 365: non si è mai appurato se fosse un errore di conteggio o se tre recensioni siano scomparse per sempre, come lacrime nella pioggia).

Postilla all’edizione rimasterizzata (maggio 2001)

Un’improvvisa latitanza di lavoro e la consueta malattia mentale mi hanno indotto a rivedere e correggere la Trilogia della cornea. Questa follia nacque perché volevo sapere cosa avevo visto. Poi ci presi gusto e iniziai a scrivere realmente, prima per me, poi per gli altri: gli amici e il parentado. Ne Lo sguardo mutilo ci sono concessioni al gusto dei lettori, escandescenze esibizionistiche, tentativi “critici”, private jokes comprensibili a due o tre persone al mondo, in una spaventosa anarchia formale e contenutistica. Sono passati sette anni e almeno un altro migliaio di film: inutile dire che oggi vedo e giudico in maniera diversa. Di molti giudizi espressi in questo primo volume della Trilogia mi vergogno, ma non ho voluto correggere niente e del resto lo sguardo era mutilo fin dal titolo.
Non rinnego nulla: ho la mia educazione sentimentale cinematografica su carta. Non era previsto ed è l’appagante e inaspettato risultato di un’opera che volle essere gloriosamente inutile.

(12 — FINE?)