di Claudio Albertani

PiazzaISaperiIlleciti.jpgRosalba Piazza, I saperi illeciti del meticciato. Medicina e tradizioni di cura tra i Maya-K’iche’ del Guatemala, Colibrì Edizioni, Milano, 2006, pp. 280, € 19,00.

Tutto ciò che vive è irripetibile. E’ inconcepibile che due esseri umani, due arbusti di rose selvagge siano identici… La vita si estingue lì dove ci si industria a cancellare le differenze e le particolarità con la violenza.
Vasili Grossman

Il libro narra le esperienze che Rosalba Piazza ha vissuto nel corso di tre lustri — tra il 1989 e il 2004 – a Totonicapán, cittadina indigena dell’altopiano occidentale del Guatemala, come ricercatrice e responsabile di un progetto di cooperazione internazionale realizzato dal GRT (Gruppo per le Relazioni Transculturali), una ONG italiana.


Prima di entrare in tema, è utile ricordare alcuni dati. Il Guatemala è un paese ricco di risorse naturali come biodiversità, acqua, petrolio e gas naturale. Con 12 milioni d’abitanti, è il paese più popoloso dell’America Centrale; circa la metà della popolazione è composta da indigeni appartenenti a 25 gruppi etnici, quasi tutti di origine maya. Tre quarti di loro vivono in una situazione di povertà o di povertà estrema secondo cifre della Banca Mondiale.
Paese di vulcani addormentati, acque cristalline e quegli stupendi paesaggi tropicali descritti con precisione e poesia dal poeta e guerrigliero Mario Payeras in Latitud de la flor y el granizo, il Guatemala non è solo “la terra dell’eterna primavera” che dipingono gli annunci turistici.
Come il Chiapas, che gli appartenne durante la Colonia e ben avanti nel secolo XIX, è anche la terra dell’eterna tirannia, un paese di disuguaglianze spaventose che esibisce una storia d’oppressione, sfruttamento e sofferenza senza uguali nel panorama generale del Continente, peraltro poco allegro.

Questa realtà ebbe inizio con la Conquista, si protrasse durante la fase della costruzione nazionale e si esacerbò tra il 1954 e il 1996, quando il paese fu teatro del conflitto emisferico più sanguinoso del secondo dopoguerra: un’autentica guerra di sterminio che l’esercito nazionale condusse contro la sua stessa gente, e specialmente contro le popolazioni indigene.
Di questa guerra sono stato testimone negli anni ottanta, prima come giornalista indipendente, poi come collaboratore della rivista italiana Quetzal e infine membro della oggi estinta agenzia Noticias de Guatemala. Una guerra che lasciò un saldo di almeno 150,000 morti, centomila orfani, 40 mila vedove, un milione di profughi e circa 400 villaggi rasi al suolo.
Il 29 di dicembre del 1996, dopo quattro decenni di conflitto armato, il Governo e la Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (URNG) firmarono un trattato di pace “stabile e durevole”. Oggi, dopo quasi dodici anni e molti altri morti, non si superano ancora le cause che diedero origine al conflitto. La riforma agraria, che potrebbe gettare le basi di uno sviluppo socioeconomico partecipativo, continua a essere un tabù nazionale, e anche il castigo degli autori del genocidio, i militari, che continuano a considerarsi i coraggiosi trionfatori di una guerra di civilizzazione.
Non si sono fatti molti passi avanti neppure sul versante del riconoscimento dell’identità e dei diritti dei pueblos indigeni, pertanto il Guatemala continua ad essere un paese in cui domina una apartheid non così evidente come quella che esistette in Sudafrica e che continua a esistere in Israele —paese, bisogna ricordarlo, che sempre offrì aiuti considerevoli ai militari guatemaltechi – ma non per questo meno insidioso e duro a morire.

La segregazione non si esprime solo con la polarizzazione sociale, ma presenta molte sfaccettature: culturali, scientifiche, psicologiche e persino emotive. Il libro di Rosalba Piazza si occupa di una di esse: la gerarchizzazione dei saperi medici in quanto conseguenza di una situazione coloniale.
Il tema centrale è lo scontro tra il sistema curativo occidentale e la medicina tradizionale, intesa questa come l’insieme delle pratiche di curanderos (levatrici, aggiustaossa, medici generici, guide spirituali…) chiamati a servire la comunità in virtù di un dono soprannaturale.
Nelle parole dell’autrice, lo scopo è “sfidare il rogo voluto dal sapere universalizzato” (p. 258), questo sapere che — come scrisse Vasili Grossman rispetto ai totalitarismi della prima metà del XX secolo, ma si adatta perfettamente alla realtà guatemalteca — cancella le differenze e le particolarità, spegnendo la vita.
Il tentativo non è privo di rischi. Gli anni che l’autrice ha trascorso in Guatemala sono di gran complessità. Abbracciano l’ultima tappa della guerra, la euforia iniziale della pace, e l’amara disillusione del dopo. Uno dei meriti del libro è di evocare questo sfondo in modo persistente e, allo stesso tempo, discreto, senza stancare il lettore con un’informazione eccessiva, però senza dimenticarla.
Anche se Totonicapán non fu tra le aree più colpite, l’ “oggetto di studio” sono donne e uomini in carne e ossa, che vissero dentro una realtà marchiata dalla morte e dalla violenza. Si tratta, inoltre, di un municipio ricco di tradizioni artigianali — in particolare tessuti e ceramiche di gran qualità — e pieno di storia. In tempi preispanici fu la seconda provincia del regno k’iche’, e svolse sempre un ruolo importante nella difesa della cultura indigena.

Rosalba sa che essere indigeni in Guatemala significa trovarsi immersi in una trama di relazioni di potere che ha le sue origini nella Colonia. Il libro denuncia con argomenti efficaci l’etnocentrismo che emargina ed esclude, senza cadere nella tentazione di mettere l’una contro l’altra le due medicine, quella occidentale e quella indigena.
Servendosi della transdisciplinarietà — in questo caso un dialogo intenso tra storia, filosofia antropologia, etnografia e medicina — difende il punto di vista pluralista e interculturale che valorizza il “meticciato” non in senso etnico, bensì epistemologico: la possibilità di arricchirsi a partire dalla scoperta dell’“altro”, non in quanto inferiore (o superiore) ma in quanto interlocutore.
Tra le pagine più convincenti si trovano quelle che parlano proprio della relazione che l’antropologo stabilisce con l’altro. Seguendo la tradizione di Ernesto De Martino — però anche del palestinese Edward Said e dell’attuale etnopsichiatria europea – la risposta dell’autrice è chiara: per non riprodurre all’infinito lo sguardo equivoco dell’antropologia imperialista, lo studioso deve iniziare con l’interrogare se stesso, sondare il suo luogo nel mondo, scrutare le sue ragioni ed emozioni. Solo mettendo in scena la storia propria e quella altrui, solo mettendo in discussione lo sguardo che si presume scientifico dell’osservatore, si può raggiungere quel fondo “universalmente umano” nel quale sia l’occidentale sia l’indigeno sono interpretati come due possibilità storiche di essere nel mondo. Due possibilità che non c’è ragione siano antagoniste, e che potrebbero essere complementari.

A partire dalle esperienze narrate in prima persona dagli interessati — ilonel, kunal ak’alab, ajkunanel, chapal b’aq, ajq’ij e altri specialisti — l’autrice suggerisce domande importanti: Cos’è la salute? Cos’è la malattia? (p. 249). A prima vista le risposte — evidenti quanto la capacità di qualunque essere umano di esprimere la differenza tra uno stato di benessere e uno di malessere— dovrebbero essere uguali dappertutto e in tutti i tempi. Rosalba non è d’accordo: né la salute, né la malattia né le sue cure sono categorie universali, bensì storiche e culturali.
Prima che si universalizzasse l’attuale modello biomedico nelle culture del mondo — nell’America preispanica, però anche in Cina e in India e perfino in Europa — esistevano sistemi di credenze che Rosalba definisce “transnazionali” perché, nonostante le grandi differenze relative alla storia di ciascun popolo, presentavano alcuni aspetti comuni. Prevalevano le concezioni olistiche e si tendeva a considerare sani quei corpi che manifestassero una giusta armonia tra dieta, ambiente e azione soprannaturale. La malattia implicava un qualche squilibrio che bisognava correggere eliminando quanto in eccesso, restituendo ciò che mancava o riorientando le relazioni con l’aldilà.
Agli albori dell’era moderna, insieme alla nascita del capitalismo e alle imprese coloniali, iniziò a imporsi in Europa un nuovo paradigma di salute e malattia — monoteismo medico lo chiama Rosalba, citando Arthur Kleinman — che definiva se stesso come “veritiero”, la cui genealogia è tracciata da Michel Foucault in Nascita della clinica e Storia della follia. L’auge di questo paradigma corrisponde bene — non bisogna dimenticarlo — allo sterminio delle culture non occidentali da parte di invasori occidentali.
Sotto la categoria di ragione, la scienza andò arrogandosi la pretesa di captare la “vera” natura di tutti i fenomeni. Contemporaneamente, si andò imponendo l’idea che esistano regole di comportamento universalmente valide, sulla base delle quali si stabilirono tassonomie, catalogazioni e classificazioni che andavano oltre l’ambito della medicina. Secondo Paul Feyerabend, questo razionalismo occidentale rappresenta l’ultima incarnazione della coscienza religiosa e così si può formulare: esiste un modo giusto di vivere e tutti devono adeguarsi.

La ricerca di Rosalba offre nuovi argomenti alla critica di questo imperialismo scientifico e all’idea, così comune, che esista qualcosa come un progresso cumulativo e in qualche modo ineludibile.
Rosalba segnala che, come tutte le storie, anche quella della medicina è il risultato di relazioni di potere, dinamiche, contraddittorie, guerre delle armi e delle idee. E ci ricorda che, accanto al missionario e al militare, il medico fu un importante agente del processo di colonizzazione.
Le prove abbondano. In un recente lavoro, Piero Coppo – etnopsichiatra e collega di Rosalba nella Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute (ORISS) – ricorda che in Africa i medici europei spiegavano le rivolte anticoloniali come fenomeni patologici della psicologia primitiva, “scoprendo” la loro origine nel desiderio frustrato dei dominati di essere simili ai dominatori (!). Naturalmente, quelle ricerche non dicevano nulla del diritto — perfettamente “razionale e sano” — che i popoli avevano di lottare per conquistare la parola e l’indipendenza.
Oggi, non si tratta di chiedersi se la medicina tradizionale funzioni ancora, se sia migliore o peggiore della medicina allopatica, bensì di intendere che nessun sistema medico può soddisfare da solo le diverse maniere di star bene e di star male che riflettono le nostre società multiculturali e plurietniche.

Nel caso del Guatemala, l’azione congiunta della dominazione economica, amministrativa e religiosa paralizzò un incontro, che avrebbe potuto essere fecondo, tra i sistemi di cura dell’Europa premoderna e quelli delle popolazioni mesoamericane. Anche se, come spiega Rosalba, la colonizzazione medica è successiva a quella sociale (pp. 212-13), a un certo punto il sistema medico europeo acquistò uno status che pretendeva d’essere scientifico, emarginando i saperi tradizionali sia europei, sia mesoamericani.
Si consumava così l’invenzione di quella falsa coscienza nazionale magistralmente analizzata da Jean-Loup Herbert e Carlos Guzmán-Böckler negli anni Sessanta. Una coscienza nazionale espressione di una società altamente segregata, in cui le relazioni di classe si intrecciano con quelle etniche. Una coscienza nazionale che, temo, non ha ancora smesso di esistere. Secondo la versione ufficiale, in Guatemala esisterebbero due culture, una “indigena” e l’altra “ladina”; alla prima quest’ultima, erede della cultura ispanica, sarebbe superiore. La soluzione del “problema” passerebbe per l’acculturazione, vale a dire il genocidio culturale — senza escludere la possibilità del genocidio tout court come, di fatto, accadde negli anni Ottanta -, l’omogeneizzazione e la rinuncia ai caratteri distintivi della cultura maya per il bene della patria o, attualmente, della globalizzazione neoliberale.

In questa situazione, è legittimo chiedersi come un sistema di credenze così articolato come quello che descrive Rosalba sia potuto sopravvivere. Mi sembra che se si può muovere una critica al libro è non porre questa questione nella sua giusta dimensione. Sebbene la colonizzazione scardinasse la società preispanica, produsse anche l’effetto di costruire una specie di barriera contro la quale s’infranse la cupidigia di dominatori sempre minacciosi e sempre voraci.
Ciò non significa, evidentemente, che la società preispanica rimase uguale a sé stessa. I maya resistettero e, al tempo stesso, cambiarono integrando e rifunzionalizzando gli elementi della cultura dei dominatori di cui potevano servirsi.
La resistenza non fu solo militare. Sconfitti sul campo di battaglia, i maya cambiarono di strategia, e preservarono la loro cultura evitando lo scontro aperto con le strutture del potere, senza mai rinunciare al loro essere profondo né all’eventualità — mai abbandonata – della ribellione armata.
La spiritualità, i racconti, le canzoni, gli scherzi, il teatro e le feste popolari si trasformarono in forme di resistenza per esprimere la critica al potere proteggendosi con l’anonimato. Questa resistenza è la stessa che alimenta le parole poetiche di uno dei personaggi de libro, don Miguel: “i vulcani spenti si attiveranno di nuovo” (p. 267).
Quali sono gli elementi che hanno permesso ritenere, attraverso tutto un succedersi di traumi storici e in condizioni materiali durissime, il filo di una comunità organica tra esseri umani, e tra questi ultimi e la natura? Come si collocano questi saperi tradizionali nel contesto di più ampie strategie culturali? Ecco alcune domande alle quali Rosalba potrebbe rispondere in un libro successivo.

Molto opportuno mi sembra, invece, lo scetticismo sui risultati della cooperazione internazionale, oggi nelle mani di tecnoburocrazie governative e imprenditoriali generalmente in collusione con i poteri locali nella perpetuazione del saccheggio neocoloniale.
Dalla complicità tra industria farmaceutica e libero mercato nasce il business dei venditori di malattia, che trasformano le persone sane in pazienti per incrementare le vendite di medicinali che a volte risultano essere dannosi.
Di fronte a questa situazione, è ovvio che la medicina indigena offre alternative. Qual è il suo futuro? L’autrice risponde che, come altri aspetti della cultura maya, le pratiche di cura dipendono dal futuro dei guatemaltechi. Il loro futuro è il futuro del multiculturalismo e presuppone la volontà della società nazionale di riparare il danno che ha inflitto e continua a infliggere alle sue popolazioni indigene.
Rosalba non è ottimista. La sua esperienza di ricerca le dice che mentre i terapeuti tradizionali, interessati a interagire con il sistema medico egemonico, regalarono il loro tempo e le loro conoscenze, la risposta dei medici accademici è stata del tutto deludente.
Concludendo, mi pare che il libro vada ben oltre i confini della letteratura specializzata, per imbastire domande importanti non solo sulle relazioni tra la cultura occidentale e le altre culture, ma anche sulla condizione umana in questo inizio di millennio. L’ “altro” che, con notevole perizia letteraria, Rosalba mette in scena è il fratello, non il nemico. E offre una risposta alla crudele maledizione di Jean-Paul Sartre: “l’inferno sono gli altri”. No. Gli altri non sono l’inferno. Sono la possibilità di incontrare noi stessi, qui e ora.

[Una versione dello stesso articolo, corredata questa volta da un apparato di note, apparirà prossimamente su Selvas.org.]