di Claudia Boscolo*

L’importante saggio di Wu Ming 1 New Italian Epic traccia un confine fra gli autori appartenenti all’area postmoderna da un lato, e gli UNO (Unidentified Narrative Objects) dall’altro. Le tirature di UNO come Gomorra di Roberto Saviano e del romanzo Manituana dei Wu Ming forniscono un dato molto chiaro riguardo il gusto del pubblico, e la presa che il senso epico di queste ampie narrazioni esercita sul lettore contemporaneo. Come sottolinea giustamente WM1, la cesura storica si identifica in due eventi drammatici che hanno aperto il secolo, i fatti di Genova da una prospettiva italiana, e il 9/11 in un contesto internazionale. Ma la riflessione stilistica dei Wu Ming sui contenuti e sui modi della narrazione si è articolata negli ultimi anni attraverso percorsi paralleli, apparente scollegati, che alla fine hanno trovato una cifra comune nella denominazione di New Italian Epic. Nessun altro termine potrebbe prestarsi meglio a raccogliere oggetti narrativi di varia natura, ma uniti almeno da un elemento comune: il senso epico che emanano.

Con Manituana si è verificata una svolta nel riutilizzo dell’epica nella letteratura italiana contemporanea. Uno dei massimi generi nostrani ha finalmente ritrovato una collocazione specifica. Nell’affrontare un’analisi del romanzo, è possibile ora di fatto inserirsi nel quadro di una discussione sulla narrativa metastorica, affrontata ottimamente da Amy J. Elias in Sublime Desire [1] con riferimento alla narrativa contemporanea americana. Elias prende in esame Don DeLillo (Libra, Underworld), Thomas Pynchon (Mason & Dixon), John Maxwell Cotzee (Foe), Madison Smartt Bell (All Soul’s Rising). Il saggio fornisce un’interpretazione che si differenzia dalla definizione fornita da Linda Hutcheon di “historiograhic metafiction” [2], che accentuava l’elemento della metanarrativa, e inquadrava il genere come una delle derive del postmoderno. La Elias distacca nettamente la narrativa metastorica dal postmoderno, e la pone piuttosto in un contesto culturale nel quale le valenze etiche si fanno fortemente presenti.
Dei punti elencati da WM1, sono veramente connotanti il NIE la diversa tonalità emotiva rispetto al postmoderno, “una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente” e la dichiarazione di “rinnovata fiducia nella parola” [3], che implica necessariamente la fusione di etica e stile [4].
La dinamica creativa che ha generato Manituana, gli elementi stilistici e linguistici che lo caratterizzano, e la vis epica che veicola suggeriscono un raffronto argomentato con la tradizione epica italiana, che, come spero, aiuterà a chiarire la scelta di WM1 del termine di NIE contro quello più in uso di narrativa metastorica.

Innanzitutto, l’etichetta di “narrativa” sta forse stretta ad un’opera come questa. È vero che racconta una storia, che intrattiene, che ha una coerenza narrativa interna, e molto altro; ciò nonostante, come si è parlato spesso e impropriamente di romanzo storico per Q, inglobare Manituana nel corpus della narrativa metastorica (e quindi difendere implicitamente le valenze etiche che contiene) significa tuttavia evitare di operare una distinzione fra il contesto sociale italiano nel quale il romanzo è venuto alla luce, e quello più globale nel quale si inserisce appunto la metahistorical fiction.
Il NIE veicola una necessità contingente, mentre la narrativa metastorica dà forma a una presa di posizione ideologica dettata un desiderio (come spiega bene Elias). Il nocciolo della questione è che il metastorico non ha il carattere di urgenza che ha il NIE.

dante3.jpgQuando si parla di epica italiana, tradizionalmente ci si riferisce a qualcosa di molto specifico, cioè a un genere che trasmette istanze fortemente politiche, etiche e di rappresentanza delle categorie normalmente sottorappresentate (i saraceni, le donne, i mercanti). L’epica italiana ha una storia lunga, sfaccettata, che attraversa varie epoche, ma ciò che mantiene immutato attraverso i secoli è la sua versatilità, anche nelle sue manifestazioni più alte. Questa storia ha inizio da una affermazione di Dante, arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse (“non ho ancora trovato nessuno che abbia scritto epica in italiano”). Da lì, ci provarono un po’ tutti. Tuttavia, la grande stagione dell’epica italiana inizia in un contesto molto preciso, con l’elaborazione di personaggi italiani che finalmente rappresentavano le caratteristiche e il gusto nazionali. Dice WM1 parlando del NIE: “L’eroe epico, quando c’è, non è al centro di tutto ma influisce sull’azione in modo sghembo. Quando non c’è, la sua funzione viene svolta dalla moltitudine, da cose e luoghi, dal tempo stesso” [5]. Si potrebbero trovare molti esempi di questo nell’epica italiana, ma basti qui osservare che la funzione dell’eroe epico è principalmente quella di incarnare una causa. Quando Orlando abbandona il campo di Carlo Magno, o si distrae, o impazzisce, insomma non c’è, il suo spirito resta, la moltitudine, o chi c’è, porta avanti quello che lui rappresenta. In ultima analisi, è un’icona, un mito, un veicolo per un’ideologia precisa. Questo è lo spirito epico.

Ma un ruolo importante nella genesi dell’epica italiana lo svolse anche la ricerca di un intrattenimento popolare che offrisse l’occasione di intervenire sulle narrazioni dal basso. Narratori popolari di mestiere diedero vita ad un corpus vivace, passato poi nelle mani di autori più esperti. Il minimo comune denominatore di queste narrazioni è il conflitto, rappresentato variamente a seconda degli autori, dei contesti di produzione, del secolo, ma che riporta sempre allo stesso sistema politico accentratore che fu la Signoria. La domanda che si poneva Dante non poteva tenere conto del fatto che la nostra letteratura nazionale vide la luce in periodo comunale, cioè in un’epoca di reazione immediata e spesso violenta a qualsiasi imposizione di autorità, e per quanto a Verona potesse avere avuto un assaggio di transizione verso l’accentramento del potere, Dante non soffrì mai di privazione della libertà di espressione, come dimostrano certi passaggi molto disinvolti della sua opera poetica. È quando la libertà di espressione viene limitata dal “patronage”, cioè quando si impongono, mutatis mutandis, modalità comunicative simili a quelle che si stanno verificando oggi, che l’epica diventa un genere letterario gravido di potenzialità espressive. L’epica italiana ha accolto nei secoli diverse esigenze estetiche e contenutistiche, spesso si è fatta contenitore di questioni di etica sociale, di responsabilità, di scelte. In altre parole, è stata in passato, e continua evidentemente ad essere, il genere politico per antonomasia.
Questa variante italiana della narrativa metastorica con cui ci confrontiamo oggi, quindi, riporta in auge una responsabilizzazione dello scrittore nei confronti del suo lettore, e soprattutto offre l’opportunità di adottare microstorie esemplari, che in un contesto macrostorico danno voce a temi con forte connotazione politica e sociale.

WM1 dimostra con i fatti quella rinnovata fiducia nella parola di cui si fa teorizzatore. Per esempio, ci indica le allitterazioni in De Cataldo, ci offre una lettura dell’ossimoro “materico” nell’anacoluto fortemente epico: “polvere di sangue e sudore chiude la gola” in Q, romanzo che si presta ad un raffronto esteso e puntuale con le caratteristiche tipiche dell’epica romanza, come il verso prosastico visto dall’altra parte, cioè della prosa epica.
In Manituana, la frase breve e compiuta, e la selezione accurata delle parole sulla base del suono producono l’incedere epico, caratterizzano fortemente la narrazione. Non c’è frase che non possa essere scomposta e ridotta a segmenti versiformi di varia lunghezza. C’è un ricreare sonoro dell’ambiente per via onomatopeica, come l’incipit del capitolo 13:
“Echi di martello, rintocchi di chiodi che bucano legno. Stridore di seghe, sbattere di travi. Sgorbie che intagliano e pialle che lisciano. Canti di lavoro, grida e imprecazioni”; o allitterativa: “Un enorme uomo nero che arrotolava una corda sul gomito le mostrò i denti candidi” (p. 114).
Ma sono solo esempi di questa qualità letteraria, perché in realtà tutto il romanzo è un insieme coerente, che riproduce il canto epico.

elsa_durlindana.jpgIl riferimento all’epos classico è senza dubbio il più immediato, e fornisce l’occasione per discutere il transmedia storytelling. “[…] Dall’Iliade partiva un grande ciclo epico oggi perduto: oltre all’Odissea esistevano altri nòstoi (poemi sui ritorni degli eroi da Troia). Dèi dell’Olimpo e reduci di Ilio erano protagonisti di tanti altri episodi, che con ogni probabilità incrociavano e perturbavano altre storie”. [6]
Lo stesso si può dire dell’epica italiana, figlia della tradizione dei cantari in ottava rima, nei quali gli eroi dei numerosi cicli dell’epica romanza sviluppano un epos individuale, frutto di una mitopoiesi a forte connotazione territoriale. La nostra tradizione volgare, tuttavia, ha in più rispetto all’epica classica che da sempre cova in seno connotati politici, di cui anche il NIE si fa portavoce.
La questione della riappropriazione transmediale offre un altro spunto per un raffronto con l’epica italiana. L’appropriazione e il riutilizzo di temi epici da parte di altre forme d’arte non necessariamente alta (affreschi di fattura popolare, cantari, la tradizione dei pupi siciliani), li espone a continue rielaborazioni, adattamenti, rivisitazioni. Lo stesso cantare in ottava rima è una testimonianza dell’incessante attività dei cantastorie sulle piazze italiane, attività documentata per la prima volta da un notaio trevigiano nel tredicesimo secolo. La scelta del copyleft come metodo di divulgazione di Manituana, quindi, restituisce l’epos al suo utente privilegiato, il lettore, che se ne approprierà esattamente come è sempre avvenuto nell’epica italiana, evolutasi continuamente proprio in ragione della sua malleabilità e adattabilità agli ambienti, mantenendo sempre fermo un unico proposito, cioè quello di veicolare un messaggio.

Il senso profondamente epico che scaturisce dal corpus analizzato da WM1 proietta questi autori all’interno di un discorso più ampio, che affronta di petto la necessità di recuperare la dimensione filologica del testo e restituire dignità al ruolo dello scrittore, togliendola, una volta per tutte, a quello del narratore. Come rilevava già due anni fa un giovane autore, Angelo Petrella, “non si tratta di cristallizzare tale epos, bensì al contrario di condividerlo, renderlo accessibile, ‘pubblicizzarlo’, trasformandolo in un’arma culturale efficace, potenzialmente egemonica e quindi vincente, oltre la semplice testimonianza […] È con questa nuova forma narrativa che il romanzo riesce a riacquistare il vigore delle grandi narrazioni. È con l’epica della “moltitudine” che probabilmente la letteratura dovrà fare i conti per uscire definitivamente fuori dall’impasse della postmodernità”.[7]

*Dottore di ricerca in italianistica presso Royal Holloway, University of London. Sta per pubblicare un libro sull’origine dell’epica cavalleresca italiana e sulla sua componente di critica sociale e politica.

NOTE

1. A. J. Elias, Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2001.

2. L. Hutcheon, “‘The Pastime of Past Time’: Fiction, History, Historiographic Metafiction”, Genre, 20 (Fall-Winter 1987); “Historiographic Metafiction”, in Metafiction, a cura di M. Currie, New York, Longman, 1995, 71-90.

3. Wu Ming 1, New Italian Epic, cit.

4 Ibidem

5 Ibidem

6 Ibidem

7. A. Petrella, Dal postmoderno al romanzo epico. Linee per la letteratura italiana dell’ultimo Novecento, “Allegoria” 52-52 (2006).

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