dallagobusiness.gifdi Igino Domanin

Negli anni Ottanta studiavo filosofia all’università. Fiorivano le pubblicazioni sulla crisi della metafisica e sulla fine del soggetto. Nel clima postmoderno, segnato dalla presenza di autori come Lyotard o Derrida, si sottolineava come stesse accadendo una trasformazione profonda della natura dell’esercizio filosofico. Le grandi narrazioni, le visioni del mondo, le sintesi ideologiche erano crollate miseramente. Per non cadere più nei drammatici errori della teoria novecentesca, bisognava avere un atteggiamento più umile e disincantato. Anzi, il compito critico dell’intellettuale postmoderno consisteva in lettura ironica e secolarizzata del mondo, mirata a dissolvere le certezze di ogni visione del reale e a decostruire ogni pretesa di fondazione metafisica del discorso filosofico. Il declino della teoria era segnato.

Nel corso di due decenni alla sfiducia nelle teoria è subentrata la fede nella pratica filosofica. Dopo il postmoderno, segue il business. La pratica filosofica si trasforma in mestiere, in libera professione per aspiranti consulenti che operano nel travagliato universo dell’economia immateriale.
Quella visione depotenziata e , a tratti, conciliatoria della filosofia postmoderna di qualche anno fa è diventata la premessa di un fenomeno sociale che si afferma nella nostra contemporaneità: la trasformazione del pensiero in un’opportunità di lavoro. Se, infatti, la teoria si assottiglia fino a quasi sparire, allora si crea una casella vuota. Se non è possibile fare progressi nella teoria, resta allora la possibilità di buttarsi, senza troppe preoccupazioni, nel mare della prassi. L’importante è tenersi a galla. Bisogna diventare pragmatici. Bisogna cercare il successo applicativo, l’efficacia comunicativa, il consenso sociale.
Accade così che sorge l’ondata della”pratica filosofica”, un movimento che intende rivalutare e riscoprire la filosofia intendendola innanzitutto come una pratica di vita, come un cura di sé. Un atteggiamento che può, per esempio, riassumersi nell’ossessione contemporanea per l’autobiografia. Praticare la filosofia, secondo loro, vuol dire rinunciare all’atteggiamento accademico che sterilizza i concetti, riducendoli a forme ripetitive e mnemoniche, per riscoprire che la filosofia è guida dell’azione umana, della difficile e tormentata nostra quotidianità.
Tutti valori edificanti e zuccherosi che si possono sostituire alle antiquate pretese di verità della metafisica. Mi pare, però, che nei fatti la vague della cosiddetta “pratica filosofica” sia la figlia, un po’ bruttina e sfortunata, del nichilismo postmoderno. Nel senso che mentre le concezioni dissolutive della filosofia erano un appannaggio snob d’intellettuali raffinati, di eleganti professori universitari dotati di sense of humour nei confronti della loro cultura umanistica, i “consulenti filosofici”, al contrario, appaiono molto simili a dei salesman un po’ sfigati o a dei goffi promotori finanziari. In perenne affanno, come tutti i lavoratori flessibili, per vendere le proprie prestazioni.

Lungi dalle mie intenzioni, opporre alle radici postmoderne della nostra contemporaneità il ritorno a un pensiero forte. Come viene pericolosamente auspicato in certe visioni neoconservatrici. Mi sembra, invece, necessario riflettere sulla possibilità di affermare o meno una filosofia come critica della cultura, capace di problematizzare i poteri esistenti nella nostra società.
Si tratta di un affare serio, poiché è chiaro che tutto quel che sta accadendo investe il destino stesso del legame della filosofia con la società. Proprio nella congiuntura storica in cui molti filosofi sembrano non credere più al loro compito teorico, almeno nella sua efficacia concreta. Da un lato, perciò si assiste a uno stato agonizzante e quasi “terminale” della filosofia intesa come scienza della verità e come fondazione dei saperi, dall’altro, invece, si verifica una moda sociale della filosofia che si traduce nell’organizzazione di festival e di conversazioni mondane, nell’allestimento di corsi su” Socrate per manager”, o, addirittura, nella realizzazione di terapie filosofiche sostitutive della psicoanalisi. Vengono perfino fondate imprese che portano l’impegnativo nome aristotelico di Phronesis. Figure note della cultura filosofica contemporanea come Umberto Galimberti dirigono collane specializzate ( come quella pubblicata per i tipi di Apogeo) sui temi della consulenza filosofica. Pier Aldo Rovatti scrive un libro, che fa capolino nella classifica dei testi più venduti della saggistica, tutto dedicato all’esame delle valenze terapeutiche della filosofia. La pratica della filosofia gode, infatti, paradossalmente di grande attenzione e rispetto. Ci sono molti spettatori pronti a pagare il prezzo del biglietto o di copertina per assistere alla rappresentazione del pensiero.
La gente accorre per sentire parlare i filosofi nei teatri, nei caffè, nella pubblica piazza. Mi è capitato, per esempio, qualche tempo fa, di assistere a una fila lunghissima di persone che desideravano ascoltare una discussione sull’eredità di Heidegger. Non erano sicuramente attratti dal conoscere le novità scientifiche sulla pubblicazione della Gesamtausgabe del grande autore tedesco. No: erano attratti, invece, dall’incontrare la parola viva, in carne e ossa, del filosofo. Un pubblico che, probabilmente, non leggerebbe mai un testo classico, ma che è disposto a spendere faticosamente il proprio tempo libero per trovarsi di fronte a un gruppetto di saggi che conversano su argomenti come “La ricerca della felicità”. Come se la filosofia dovesse riscoprire, per tornare efficace, la propria provenienza dalla cultura orale e dal dialogo socratico-platonico.
Nel frattempo, i convegni accademici sono deserti. Nemmeno gli studenti ci vanno. Come se in quel caso il discorso filosofico perdesse la sua forza concreta e diventasse puro e insignificante fatto specialistico. La “pratica filosofica”, insomma, trionfa, mentre la ricerca universitaria si deprime. Anche per colpa del fatto che è evidentemente colpevole di un’assoluta e afasica autoreferenzialità.
Il libro di Alessandro Dal Lago frecciabr.gif Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri ( pubblicato per le edizioni de Manifestolibri, € 14) consente di mettere a fuoco i contorni paradossali di questa realtà. L’autore, infatti, esamina con uno sguardo impietosamente etnografico la vicenda contemporanea della filosofia. La tratta come un fatto sociale, cercando di descrivere e comprendere quali sono gli attori di questo processo che ha portato alla nascita del counseling filosofico . Il testo, però, non è neutrale nei confronti del proprio oggetto. In effetti, l’autore dichiara fin dall’inizio che il suo scopo è anche quello di salvare la filosofia da se stessa, dal suo lento e inesorabile scivolare nel gorgo dei meccanismi dell’economia della conoscenza. L’analisi di Dal Lago mette a nudo, con grande lucidità e penetrazione, il dispositivo sociale su cui poggia la pratica del counseling filosofico. L’autore esamina quali siano le premesse politiche che fanno da sfondo alla pratica filosofica contemporanea. In particolare, la concezione edificante della filosofia, il suo proporsi come forma esemplare di vita, come paradigma di saggezza, nasce appunto dalla frammentazione e dalla degradazione dello spazio pubblico nella contemporaneità. La realtà sociale diviene sempre più astratta e spettrale. I legami col mondo non sono più immediati e riconoscibili. La teoria non può più, quindi, rappresentare in modo tangibile la società. Per questo tende inesorabilmente a declinare. In questo vuoto, perciò, s’installa il dispositivo sociale che rende possibile un fenomeno come il counseling filosofico. Qui viene messa in scena una rappresentazione conciliatoria e buonista della filosofia. Viene obliterata la dimensione conflittuale e agonistica che è propria della tradizione filosofica; s’ignorano le sue contraddizioni e le sue discontinuità interne, a favore di una concezione molle e idealizzante. La filosofia diventa un repertorio di argomenti, privo di uno spessore storico e di un’autentica problematicità, che risultano sempre buoni e utili ai fini di un applicazione concreta, alla definizione di uno strumento di lavoro che può offrire una discreta remunerazione alla massa di giovani intellettuali precarizzati e senza prospettive che vengono sfornati dalle facoltà umanistiche.
Dal Lago ci offre, in un divertente capitolo intermedio, non privo d’interessanti risvolti letterari, dove possiamo leggere una simulazione di quel che accade durante una consulenza filosofica. E’ scritto con una punta di cattiveria. Senza dubbio. Tutto in questo dialogo ra il consulente filosofico e il suo cliente, alla fine, sembra essere immerso in un alone di agghiacciante nonsense. Tutto il presunto dialogo socratico scema in una grottesca scena di vita quotidiana, nella quale l’autenticità e la radicalità del discorso filosofico è completamente annichilita. Polverizzata..
Al termine, di questa ricognizione il libro indica una strada promettente e, a mio avviso, decisiva: il potere nelle mani della filosofia è quello di costruire una filosofia del potere. La filosofia non può certo riproporsi nella chiave spoliticizzata e ideologica della metafisica. Questo esercizio mi pare appunto stare nelle mani dei brillanti (e un po’ anziani) saggi che discettano di fronte alle platee dei festival. Una filosofia postmetafisica auspicabile e salutare non potrà essere edificante, non potrà trasmettere immagini consolatorie e destoricizzate di saggezza, semmai ci preparerà al conflitto, c’insegnerà la strategia attraverso cui resistere all’offensiva dei poteri esistenti.
Dobbiamo tentare di prendere posizione, solo così troveremo il nostro orientamento nel mondo. La filosofia qui potrà tornare necessaria.