Nel Seicento in Italia era diffuso un modo di dire che anche oggi non ha perso la sua forza: “Franza o Spagna purché se magna”. Parliamo de I sentieri del cielo (Rizzoli “La Nuova Scala”, pagg. 327, euro 19,00) quinto romanzo di Luigi Guarnieri, che per lo stesso editore ha pubblicato nel 2006 La sposa ebrea. Tutt’altro registro stilistico per questo affresco sanguinario sulla prima guerra combattuta dalla neonata Italia unita, nell’anno del Signore 1863, nella terra di mezzo di una Calabria primordiale: gole montane cupe come leggende di un pantheon pagano, vallate ampie e ricoperte da foreste edeniche e tramonti infuocati alla Caspar Friedrich.
Si tratta della guerra al brigantaggio, contro i ribelli ex soldati borbonici che allo sbando si sono uniti a mandriani, contadini disperati e “cafoni” nel senso latino della parola per commettere nefandezze e scorrerie di una disumana brutalità contro i proprietari terrieri, nobili spesso solo per il pedigree, il cui sangue (che fin da subito scorre a fiumi) è tutt’altro che blu.
Il romanzo di Guarnieri è un’opera di eccellente documentazione su un periodo della nostra storia che si presta benissimo a essere espanso ad allegoria dello stato attuale della frammentazione in cui il nostro Paese si ritrova, ossia gli anni subito posteriori al “tradimento” degli ideali garibaldini, con l’alleanza del nuovo governo italiano con i grandi proprietari terrieri (che lasciò i ceti mediobassi e la popolazione contadina letteralmente senza proprietà personali) e la violenta repressione dell’esercito dei piemontesi per inculcare a suon di moschetto e sciabola nella popolazione il “nuovo ordine” delle loro esistenze. Diciamo che il principio base, al di là della lotta al brigantaggio, è lo stesso dei soldati blu con gli indiani d’America: stragi deliberate da entrambe le fazioni, in cui il concetto di “umanità” si disintegra in nome di un’efferata violenza proclamata con leggi e decreti per giustifiarla. È l’imbattibilità del Male a guidare le azioni dell’uomo, e in questo il romanzo di Guarnieri rivela molti punti di contatto con il Cormac McCarthy di Meridiano di sangue (Einaudi), di cui condivide la non partecipazione e l’assenza di compiacimento e retorica nella descrizione degli eccidi compiuti dai soldati piemontesi e dai briganti calabresi, in cui non viene risparmiato nessuno, uomini, donne e bambini, giovani e vecchi, a volte nemmeno dopo la morte (come nella sequenza dello stupro del cadavere di una donna incinta, annegata in un rivo dal caporale Malgara dopo la terribile scena della strage di Santa Reina). Come nel citato romanzo di McCarthy, che si misura con l’epica virile di Melville trasponendo la caccia alla balena bianca nella Frontiera del 1859 (forse rappresentato dal suo giudice Holden, palla di grasso glabra e imponente che si porta dietro un taccuino su cui annota e disegna il mondo prima di distruggerlo, perché niente può esistere all’infuori di ciò che viene trascritto su quelle pagine), I sentieri del cielo è anche uno splendido libro di viaggio, una carneficina itinerante che avvicina la Sila Grande al Rio Grande, uno spazio mentale e dell’anima in cui l’unico valore esistente è una pietà che ogni personaggio descritto cerca e rinnega allo stesso tempo, ringhiando a denti stretti la delusione per un Dio ormai inesistente, che la Natura sovrana dei luoghi selvaggi in cui la storia si manifesta (anche quella con la “s” maiuscola) non dà segno di conoscere. Anche qui come in McCarthy – ma il paragone finisce in questo confronto – la Natura contempla impassibile il corso degli eventi, è immane e indifferente ai travagli dell’uomo, si mostra a volte di un superiore cinismo, magico per certi versi, e non teme di esporre i suoi figli deviati all’occhio dell’epoca illuminista (come nella splendida scena in cui i soldati trovano il corpo di un “licantropo” e il maggiore Albertis, uomo moderno per eccellenza, cede al folclore decapitandolo con un colpo d’ascia).
Provate a leggere il romanzo di Guarnieri con una mappa della Calabria, seguite il tragitto di Albertis e dei suoi soldati, uomini semplici e spesso ignoranti come i banditi a cui danno la caccia, che si ritrovano in un meridione oggettivamente e geograficamente parte dello stesso territorio, ma in realtà distante dal cuore e dall’immaginazione come può esserlo l’Africa nera. Lo stile di Guarnieri è eccellente, riesce a essere descrittivo con poche pennellate, senza insistere nei particolari macabri seppur descrivendoli perché è necessario che sia così, per entrare nella dimensione infernale dell’istinto umano. A tutto soggiace un discorso che vogliamo definire politico perché lo è in nuce: la legittimità dello Stato italiano coniata da poteri superiori e imperscrutabili come l’opera divina, ma a un livello molto più basso, come l’interesse delle classi legate alla casta sovrana. In questo l’epos di Guarnieri, che fornisce tutti gli strumenti per documentarsi – per chi ne avrà voglia e tempo – su quella fase di transizione della nostra storia nei primi anni dell’Unità, richiama modelli western (o per meglio dire anti-western) che risalgono alle celebri ballate cinematografiche di eroi perduti come il Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah e per certe scene anche Il mucchio selvaggio dello stesso, oppure il bizzarro e affascinante Missouri di Arthur Penn (già cantore dell’amore violento e disperato di John Dillinger con uno dei road movies più significativi del cinema americano anni settanta) e per arrivare a esempi più vicini il Clint Eastwood de Gli spietati (soprattutto per la trasformazione del vecchio pistolero William Munny nell’ultimo terrificante quarto d’ora del film) e de Lo straniero senza nome, che vernicia un’intera cittadina di rosso e la ribattezza HELL, inferno, prima di compiere la sua spaventosa vendetta.
Anche l’amore, nel romanzo di Guarnieri, vive di una luce disperata, una zattera male in arnese che cerca di resistere alle bordate di una civiltà deflagrata, simile al monumentale dipinto di Théodore Géricault; un amore di tanto in tanto alleggerito da bellissimi versi in dialetto calabrese, canzoni popolari dei braccianti che intonano un sentimento che vive solo nelle parole, perché nel mondo reale domina il sangue. In ultimo, conscio del fatto di ripetermi, senza dimenticare che in fin dei conti è un romanzo bellico, in certe situazioni ho ritrovato il Fuller de Il grande Uno Rosso di cui ho già avuto modo di segnalare la levatura, soprattutto nel parallelo tra il maggiore Albertis e il Sergente dei Marines dell’opera citata: quando Albertis si prende a cuore e porta con sé una ragazzina, unica sopravvissuta al massacro di Santa Reina, rapata a zero e in condizioni cagionevoli, è impossibile non farsi venire in mente la scena del romanzo di Fuller in cui il Sergente cerca di curare una piccola sopravvissuta, spaurita e prossima a spegnersi, del lager nazista di Falkenau, nella Cecoslovacchia della seconda guerra, perché entrambi sono militari che non temono la morte o il giudizio divino, ma sono alla ricerca di un’innocenza forse perduta per sempre.
I sentieri del cielo è davvero un romanzo a sé nel panorama letterario nazionale, una vera chicca, che merita un’attenzione diversa a quella cui finora è stato sottoposto.
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