amicizia.jpgdi Enzo Fileno Carabba
[Illustrazione di Liza Schiavi – cliccare per ingrandire]
frecciabr.gif Tutte le puntate di Discese estreme

11. L’ Amicizia

Per qualche strano motivo la parola amicizia mi fa pensare all’infanzia. Dico strano perché non posso certo affermare che i miei unici amici appartengano a quel tempo, e che dopo basta. D’altra parte i fatti che accaddero allora hanno lasciato in me un segno così profondo che non posso dimenticare chi li ha vissuti con me. Il bello è che io questi fatti non li ricordo se non a sprazzi – forse perché portavano un peso o una forza insopportabili.

Nei campi attorno a casa di mia nonna a San Gaggio, praticamente in campagna, raccoglievamo le olive ancora verdi da usare per le cerbottane. Poi in autobus tornavamo nel nostro quartiere, dall’altra parte della città – un lungo viaggio per tre bambini sempre insidiati dal controllore, questo maniaco del biglietto – e lì le usavamo. Combattevamo per le strade, con ragazzini che usavano palline di stucco come munizioni – volgarissima cosa. Un ‘altra attività che nutriva la nostra amicizia nell’avventura consisteva nello staccare col cacciavite gli stemmi dalle automobili – e ricordo come i trofei occultati sotto il sedile posteriore della Cinquecento di mia madre fossero per noi il più prezioso dei tesori, quando li guardavamo di soppiatto, disposti in file ordinate, luccicare nel nascondiglio che ci appariva geniale. Un giorno il padre di una mia compagna di classe scoprì la cosa (avevamo staccato lo stemma anche dalla sua macchina, per questo si agitò tanto: gli uomini sono mossi da impulsi meschini). Reagì in maniera subdola. Fui invitato in casa dalla bambina, che si chiamava Claudia e mi piaceva. Io tutto esaltato passai il pomeriggio in giardino con lei, a spremere il succo delle rose. Alla fine, però, il padre mi prese da parte e mi disse con durezza che dovevamo rendergli lo stemma della sua Alfa Romeo (Lo stemma dell’ Alfa Romeo, con quel serpente verde coronato che serpeggia verso l’alto, era in assoluto il più ambito, più di quelli delle auto di lusso, non so perché), altrimenti, ricordo benissimo le parole del bruto, “avrebbe fatto un macello”. Se ci ripenso!, un povero bambino che fino a un attimo prima coltivava sogni romantici viene traumatizzato con tanta durezza da uno squallido genitore che rivuole indietro il suo stemma. E la bambina che si era prestata a quello sporco gioco: senz’altro una poco di buono – si comincia a ricevere bambini per uno stemma e si finisce ricevendo uomini per denaro. Il giorno dopo io Vanni e Nicola gettammo nel giardino della famiglia di criminali ricattatori lo stemma dell’Alfa Romeo avvolto con della carta. Poi scappammo via, per strade che conoscevamo a memoria, in preda a un’eccitazione indescrivibile.

Questa sconfitta cementò la nostra amicizia e provocò una reazione. Sospendemmo per il momento le nostre attività abituali: come rubare nei negozi (una volta fummo persino inseguiti da una cartolaia che brandiva una pistola giocattolo per tirarcela in testa), o nei supermercati, o alle feste dell’Unità. Di questi furti ricordo soprattutto le fughe interminabili, forse superflue, a ripensarci, ma che ci sembravano vitali, di enorme importanza per evitare i mostri assassini che ci inseguivano e che noi stessi avevamo scatenato con il nostro eroismo in grado di disturbare il Male. Certe corse nei recessi più segreti di Campo di Marte, che era un luogo enorme e avventuroso, pieno di insidie e meraviglie, attraverso buchi nelle reti e prati spelacchiati pieni di riviste porno, nelle lancinanti serate estive, erano per noi la forma definitiva della vita felice. Ci fermavamo ansanti all’ombra di qualche siepe o di qualche muretto sbrecciato per dividerci il bottino. Una volta che invece non ci eravamo nascosti, ma ci stavamo spartendo delle gomme da cancellare vicino allo scivolo e al venditore di lupini, cioè in piena zona “civilizzata”, vidi lo sguardo impaurito di Nicola che disse “Eccolo”. Infatti c’era un tipo grande e grosso, avrà avuto diciotto anni, coi capelli rossi e le lentiggini, spaventoso, che ogni tanto ci picchiava. Fummo costretti a cedergli una gomma. A ripensarci ora doveva essere un povero deficiente, dato che faceva sempre pipì sul sellino del suo motorino (o meglio: se la faceva addosso, e allora la pipì passava dai vestiti e bagnava il sellino). Ma allora ci sembrava l’incarnazione violenta del Male, e quindi il nostro motto per molto tempo fu “Meglio una gomma della morte”.

Ma dicevo che la delusione di dover restituire lo stemma dell’Alfa Romeo, invece di farci rinchiudere in noi stessi, ci spinse a fare meglio, e la nostra amicizia fiorì. Dalla finestra del bagno di casa mia, un condominio in una zona residenziale ai piedi delle colline, riuscivamo a colpire le persone sui balconi del condominio di fronte, che era separato da noi da un cortile molto largo. Ci appostavamo sul davanzale e, con le cerbottane e una fionda, sparvamo proiettili di ogni tipo, non solo olive acerbe, per la verità. Col tempo arrivammo alla conclusione che era sbagliato colpire indiscriminatamente, e ci concentrammo su un solo balcone. Questo aveva un senso.

Qui voglio fare una precisazione. Potrà sembrare poco bello bersagliare una famiglia come facevamo noi, ma la maggior parte dei ragazzi faceva di peggio. Noi per esempio ci astenevamo rigorosamente dall’andare in giro a colpire i pensionati soli che strascicavano i piedi sui marciapiedi, in una triste parodia di oltretomba, in cui le porte dell’ Ade erano le cacche dei cani. Invece per la maggior parte dei ragazzi i bersagli abituali erano proprio questi pensionati. Tutt’oggi non riesco a reprimere la tristezza se ripenso a quei vecchi con un avvenire fin troppo certo davanti a sé. E mi chiedo: dove sono andati a finire? Non incontro quasi più persone del genere. Mi verrebbe da pensare che la società attuale ne produce di meno, ma so che non è così. Evidentemente erano i miei percorsi di ragazzino che mi portavano a incrociare questi sputacchianti passanti con la testa china e i vestiti di un’altra epoca. Comunque, noi li rispettavamo.

Nel bagno da dove colpivamo c’era, ovviamente, un rubinetto. Da piccolo il mio volto deformato, rispecchiato dal metallo del rubinetto, mi faceva paura. Cercavo di non guardarlo, ma il mio sguardo era attratto proprio lì, non riusciva a fuggire a lungo. Vedevo un volto allungato e storto, che di sicuro non ero io, e che di sicuro non mi voleva bene. Vedevo quegli occhi strani che mi guardavano con interesse, un interesse eccessivo che io non riuscivo a spiegare. Ogni tanto, quando bersagliavamo i vicini dalla finestra, io pensavo che il volto sul rubinetto era lì, accanto a noi. Certo, ero cresciuto rispetto al tempo in cui quel volto mi terrorizzava, eppure una certa inquietudine rimaneva. E, se è per questo, rimane tuttora.

Comunque una volta raccontai la storia del rubinetto a Nicola e Vanni. Mi pentii subito di averlo fatto, sapevo che mi avrebbero preso in giro per una settimana. Invece non avvenne. All’inizio risero, ma poi sembrarono capire che c’era qualcosa di vero – o forse era solo una forma di rispetto. L’ apprezzai. Scherzavano, ma non mi deridevano. Quando vagavamo nei campi incolti davanti alla casa di mia nonna, avventurandoci tra montagne di rovi, erbacce, piccoli canneti, fiori gialli e giunchi, ogni tanto qualcuno diceva di aver visto “la faccia nel rubinetto”.

Una volta sbucammo dietro una villa, e dei ragazzi che abitavano là, infastiditi dall’invasione, ci tirarono delle pietre. Una di queste, lanciata con violenza, mi stava per colpire la testa, anche perché io per fare il superiore guardavo da un’altra parte, quando Nicola mi fece abbassare e, a suo dire, mi salvò la vita. Certo esagerava, comunque questo passò alla storia come un altro caso in cui avevamo visto “la faccia nel rubinetto”. Un’altra volta ancora, vicino a casa mia, tiravamo oggetti vari contro dei ragazzini. Ci separava una siepe. Io preso dall’entusiasmo afferrai un bidone della spazzatura e lo scagliai verso i nostri avversari. Il tiro risultò lungo: il bidone andò a schiantarsi su una macchina tutta pulita (fino ad allora) che ospitava dei ragazzi e delle ragazze grandi. Le ossa di pollo si sparsero sul parabrezza insieme ad ogni genere di schifezza. Scappammo a più non posso. Fu allora che capimmo quanto possano diventate violenti degli uomini quando vogliono impressionare delle donne e decidemmo, seduta stante, che non avremmo mai cercato di fare bella figura con nessuno. Non so se ci siamo riusciti, non credo. Ma il sentimento eroico che provocò in noi tale risoluzione lo ricorderò per sempre.

Gradualmente le munizioni che sparavamo dal bagno di casa mia divennero sempre più pesanti. Noi non lo sapevamo, ma i malcapitati presi di mira avevano già diversi lividi. Un giorno con la fionda tirammo una vaschetta metallica che serviva a contenere i colori per dipingere (si vede che per noi la pittura era un’arte minore). Il giorno dopo una ragazza che conoscevo venne a chiedere il mio numero di telefono. Io, con intuito sovrumano, capii che chiedeva il numero per conto della famiglia bersagliata, quindi con mossa leggendaria affermai che non lo conoscevo e richiusi la porta. Pochi minuti dopo mi detti alla fuga. Ma non si può fuggire per sempre. La vicina bersagliata non telefonò, ma andò direttamente a casa mia e alzando la maglietta mostrò a mia madre la schiena piena di lividi – uno particolarmente grosso, doveva essere il frutto del contenitore di colori. Mia madre non pensò che la donna vivesse con un pervertito sadico e dette credito alla sua versione. Quello che successe dopo non lo racconto nemmeno.

Era “la faccia nel rubinetto” che aveva ispirato le nostre azioni? Non diciamo cazzate. Ma certo era da quando avevo raccontato la mia paura ai miei amici che la nostra azione si era fatta più decisa, come se l’ inquietudine avesse smosso qualcosa di vitale dentro di noi. Chissà se Nicola e Vanni ripensano mai a quel rubinetto, sopito dentro di loro.

Ricordo la fontana di Campo di Marte. Con la bella stagione, ci bagnavamo sotto l’acqua delle fontana, nelle pause delle partitelle di calcio. In quinta elementare io cominciai a prendere lezioni di inglese, di pomeriggio: la classe era gestita da una certa signora Vaccarino. Dovetti abbandonare i miei amici che giocavano – stupitissimi che me ne andassi dal Paradiso Terrestre dell’ Avventura e delle Riviste Porno per prendere lezione di inglese (infatti, forse per questo, non lo ho mai imparato), nella penombra triste della scuola. L’acqua e la luce e il sudore e il ghiacciolo appoggiato sul muretto polveroso mi parvero così belli che me li ricordo ancora perfettamente: potrei descrivere la posizione delle gocce d’acqua sospese nell’aria. Anche la rubinetteria della fontana brillava, senza nulla di pauroso, come una promessa di incontrarsi ancora.