di Giulia Gadaleta

ReginadiFiori.jpgGabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, 2007, pp. 264, € 16,80.

Etiopia, tra il 1935 e il 1941. E’ in corso l’occupazione fascista dell’unico pezzo di Africa rimasto indenne dal colonialismo. Ma anche della più antica realtà statuale del continente. Un soldato italiano lascia il suo plotone per raggiungere il dentista di cui ha bisogno. Abbandonata la strada percorsa da camion militari e dai mezzi delle imprese impegnate a costruire le infrastrutture della colonia italiana in fieri, tenta una scorciatoia. Lungo il sentiero vede una donna. Nera. Bellissima. Che si lava in una pozza d’acqua. Non parlano la stessa lingua, ma il militare le fa intendere le sue intenzioni. Giacciono insieme in una grotta, come direbbe un romanzo dell’epoca. Durante la notte, in modo del tutto accidentale, l’uomo la uccide.

Così inizia Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano, uno dei pochi romanzi italiani a riflettere sulla nostra esperienza coloniale. Forse da quella donna il tenente ha contratto un male incurabile, e così inizia un errare febbricitante che si conclude con la guarigione, per mano del padre della donna. Che conosce la verità ma cura ugualmente l’uomo. Dagli indigeni – che il tenente giudica essere semplici, privi del senso del tempo e di moralità – apprenderà una lezione indelebile: non solo la saggezza, la bontà e il perdono ma anche la conoscenza della parte più oscura di sé. E così alla fine i ruoli di colonizzato e colonizzatore si invertono. E’ l’esperienza coloniale che rende così propenso al male e alla incomprensione il tenente? Questo Flaiano non ce lo dice. Ma dove finisce Flaiano inizia Ghermandi.
Etiopia, tra il 1935 e il 1941. Il paese non è tutto in mani italiane, come la propaganda del regime vuol far credere. C’è una resistenza nascosta sulle montagne e nei boschi. Un gruppo di donne arbegnà si sta rifornendo d’acqua presso un torrente. Sono armate e portano con sè Tariku, figlio della loro condottiera Kebedech Seyoum. Una di loro si lava nel torrente. All’improvviso compaiono due talian sollato e la donna imbraccia il fucile e spara. Li uccide entrambi.
Difficile non notare la specularità delle due scene: come in tanta letteratura post-coloniale, Gabriella Ghermandi parte da un romanzo coloniale, smontandone i meccanismi e proponendo il punto di vista del colonizzato.
I fiori e le perle del titolo sono le storie che Mahlet, alter-ego della scrittrice, colleziona, le storie del tempo degli italiani, le storie dei vecchi partigiani, gli arbegnà. Ma Regina di fiori e di perle non è solo l’assunzione ogogliosa di un punto di vista etiope per un’autrice che, si badi bene, è italo-etiope-eritrea, che porta cioè nella sua identità il conflitto e il confronto. E’ la storia del percorso di formazione interiore di una bambina che si fa donna, di una fanciulla che cresce nel cortile protetto della famiglia allargata ascoltando e spiando le storie dei grandi, ma poi va all’estero a studiare, prova la nostalgia e la lontananza del migrante e torna per tenere fede a una promessa: quella di raccontare storie, di farsi cantora. Il mondo che ci racconta Ghermandi è regolato dalle feste religiose, dai riti del caffè, dal susseguirsi delle stagioni, dal rispetto degli anziani. Le sue parole sono dominate da un linguaggio poetico che accarezza, da metafore impensabili in italiano. Di una lingua italiana abitata dall’amharico. Quello di Mahlet è un percorso di formazione interiore, è percorso spirituale, che conduce alla consapevolezza. Perchè farsi cantora è gesto di grande responsabilità, “parlare di qualcuno equivale a renderlo ospite” e l’ospite è sacro.
Ogni storia raccontata a Mahlet è una storia che ci racconta Ghermandi: quella del vecchio Yacob e quella di Abbaba Igirsà Salò, quella di Kebedech Seyoum e quella della signora della tartaruga. E quella di Mahlet, nata a Debre Zeit, “a cinquanta chilometri da Addis Abeba”, che nel 1991, anno della caduta di Menghistu, ha sedici anni. E che contiene tutte le altre storie. Regina di fiori e di perle è un romanzo polifonico che conserva il senso dell’oralità attraverso la sua perfetta circolarità. E lascia a noi lettori la responsabilità di saper ascoltare.