poliziapostmoderna.bmpdi Salvatore Palidda
[Mentre ondate di allucinante leghismo transregionale, divenuto ormai norma antropologica nazionale, si scagliano contro lavavetri e immigrati di ogni tipo, amnistiati e rifugiati politici, riteniamo opportuno riproporre un brano da quello splendido libro che uscì per l’altrettanto splendida collana che fu InterZone di Feltrinelli, frecciabr.gif Polizia postmoderna. Per un’etnografia del nuovo controllo sociale – € 16,53]

Polizia, controllo e disciplina sociale possono essere considerati come attività di fondamentale importanza per l’organizzazione della società. In altri termini, senza tali attività non esisterebbe regolazione delle relazioni, delle contraddizioni o dei conflitti tra individui e tra gruppi, e tra ognuno di questi e l’insieme della società. L’azione della polizia può essere pacifica se riesce a essere praticata attraverso la persuasione e la subordinazione a regole di comportamento condivise da tutti i membri della società. Invece, essa implica necessariamente il ricorso alla forza quando alcuni attori sociali non vogliono, non possono o non sono in grado di condividere tali regole. La trasgressione viene allora considerata come minaccia, violenza e lesione degli interessi o dell’integrità dei membri o dell’intera società. I trasgressori appaiono dunque come nemici di singoli individui o gruppi e dell’intera società, che tuttavia non fa che riprodurli adottando regole non condivisibili da tutti.

Ogni trasgressione, anche la più banale, ha di fatto un carattere politico nel senso che è un atto contrario alle regole di comportamento su cui si fonda l’organizzazione politica della società. La definizione di queste regole e l’attività pratica volta a farle rispettare (con tutte le conseguenze economiche, sociali e culturali sui singoli) possono ampliare o restringere il numero di individui che le trasgrediscono. La sicurezza non è dunque un concetto politicamente “neutro”, ma un privilegio riservato agli individui, ai gruppi sociali che hanno fatto prevalere le regole corrispondenti ai loro interessi, alla loro morale, alla loro concezione del mondo.
Con l’avvento dello stato moderno, la sicurezza è diventata soprattutto difesa dell’ordine costituito, intesa tout court come difesa del potere politico e della classe dominante. La polizia è stata organizzata e orientata per assolvere questa missione sino a considerare sospetta se non nemica la maggioranza della società, quando questa era costituita principalmente dalla classi popolari. L’avvento della cosiddetta “società postmoderna” ha profondamente cambiato questo assetto. Il dualismo “di classe” è stato superato a favore di una più larga ricomposizione sociale, che partecipa al potere grazie anche a una nuova ridefinizione del rapporto non solo coloniale e postcoloniale tra paesi dominanti e paesi dominati, ma anche, in generale, tra dominanti e società dominate. La protezione dei privilegi (reali, promessi o immaginari) dei cittadini dei paesi dominanti può essere considerata come uno dei principali elementi che caratterizzano l’attuale ordine mondiale. Non si tratta più solo della protezione del potere e dei potenti, delle grandi proprietà, imprese, multinazionali e finanziarie ma anche della protezione dei cittadini riconosciuti tali e del territorio in cui risiedono. La costruzione dell’Unione europea dopo gli accordi di Schengen è assai eloquente. Tale protezione, anche quando implica azioni di forza all’esterno del territorio dei paesi dominanti, è concepita come azione di polizia, con una progressiva conversione poliziesca delle forze militari. La polizia della società dominante postmoderna non è più solo lo strumento di difesa del potere e della classe dominante, cioè lo strumento per sorvegliare e reprimere la società, ma l’istituzione sociale che insieme ai cittadini, riconosciuti effettivamente tali, esercita il controllo sociale, il disciplinamento della vita quotidiana e la repressione di ogni comportamento e atto contrario alle regole condivise dai cittadini. In altri termini, nella società dominante postmoderna l’attività di polizia, di controllo sociale e di disciplinamento è incarnata da un rapporto nuovo tra polizie (pubbliche e private) e cittadini effettivamente titolari di questo status.
Le polizie, le politiche e le prassi della sicurezza tendono a dipendere dal potere politico nazionale sempre più solo in termini formali, mentre sono sempre più condizionate dagli input provenienti dai poteri sovranazionali e dalle società dominanti locali. Le rappresentazioni delle insicurezze e della sicurezza sono forgiate innanzi tutto come espressioni della cittadinanza dominante, inevitabilmente in antagonismo all’universo dominato, dunque in rottura con i miti universalistici formalmente accettati dopo la seconda guerra mondiale. La sicurezza dei cittadini delle società dominanti sembra non poter essere che antitetica a quella dell’umanità, così come in passato la sicurezza del potere economico e politico non poteva che essere insicurezza per le classi subalterne degli stessi paesi dominanti. Le norme che nell’ordinamento giuridico dei paesi dominanti prevedono ancora il rispetto di alcuni diritti universali appaiono di fatto residui formali di quel periodo di apparente tendenza allo sviluppo della pacificazione, dell’uguaglianza e del benessere che è stato il secondo dopoguerra. Ma questo sviluppo ha prodotto una situazione in cui i diritti dei cittadini dei paesi dominanti non possono conciliarsi con quelli universali. Come mostrano sia la “guerra umanitaria” nei Balcani, sia le “vicende della guerra sicuritaria” contro nomadi e immigrati e a volte persino contro marginali nazionali e l’istituzione dei centri per espellendi, l’azione di polizia a difesa del nuovo ordine mondiale e locale tende inevitabilmente a violare norme di diritto costituzionale e internazionale, pur godendo del consenso attivo dell’opinione pubblica. Sono sempre più rari gli interrogativi intorno alla “giustizia” delle norme, poiché prevale il privilegio che i sistemi di controllo pretendono rispetto ad un ambiente percepito come minaccioso. Sino agli anni ottanta i democratici e la sinistra chiedevano che la politica di sicurezza fosse orientata a beneficio di tutti i cittadini e non più solo a difesa del potere politico e del patronato, chiedevano che da “sorvegliati” i cittadini diventassero “garantiti”. Oggi che l’opinione pubblica democratica è stata o è al potere, l’attività di polizia sembra più o meno corrispondere alle aspettative dei cittadini inclusi sino a far emergere una convergenza tra il controllo sociale endogeno (interno alla società locale) e quello esogeno (da parte dello stato). Le forze di polizia dello stato e la politica pubblica di sicurezza tendono a essere sempre più condizionate dalle pressioni della cosiddetta “opinione pubblica locale”, in particolare quella che si produce nelle grandi e medie agglomerazioni urbane grazie alla circolarità delle interazioni tra senso comune dei cittadini, media e imprenditori della sicurezza. La diffusione della logica della “tolleranza zero” in quasi tutte le società dominanti sembra però un fenomeno che non ha solo il carattere congiunturale di soluzione perversa dei malesseri e dei problemi di una “società inquieta” perché sconvolta da profondi mutamenti. Il sicuritarismo postmoderno sembra imporsi come una “soluzione” anche perché riproduce un sentimento di insicurezza, che funziona anch’esso come “soluzione”, in quanto elemento di straordinaria forza nella ricerca di ricomposizione sociale e nel produrre l’identità della nuova società dominante. In altri termini, il sicuritarismo e il modello neoliberista sono indispensabili l’uno all’altro e si alimentano reciprocamente. Uno sviluppo che gioca sull’estensione della libertà economica degli attori dominanti, della flessibilità di ogni attività, dell’instabilità e della mobilità su scala anche globale: insomma, il “nuovo spirito del capitalismo” implica un nuovo management del controllo sociale. Questo nuovo sviluppo produce infatti nuovi problemi dal punto di vista del controllo. Per “controllare l’incontrollabile” la soluzione prevalente è che gli attori diventino controllori di sé e degli altri. Nel campo del controllo sociale e quindi della “polizia della società”, le polizie tradizionali non bastano più; si afferma allora “spontaneamente” il nuovo ruolo del cittadino che partecipa al nuovo governo della sicurezza. L’ordine viene allora legittimato sempre più dalle pratiche concrete degli attori che svolgono il ruolo di controllo sociale, ben al di là delle norme o dei valori formalmente istituiti.
Tuttavia, sul piano formale le norme comprendono ancora gli elementi universalistici. Quando i soggetti a cui si attribuisce la trasgressione delle regole non sono cittadini (nazionali) l’azione repressiva è semplice e sicuramente approvata dall’opinione pubblica. Il non rispetto delle norme universalistiche e anche costituzionali non fa scandalo e in ogni caso si impone come prassi abituale nel caso dei centri per espellendi, anche se poi buona parte degli stranieri oggetto di misure di polizia non vengono poi espulsi dal territorio nazionale. La possibilità concreta di sospendere le norme universalistiche e costituzionali appare allora come una delle caratteristiche salienti della prassi del governo postmoderno. Meno semplice è invece la repressione di individui che ancora hanno la cittadinanza nazionale. Di fatto l’unica differenza tra “destra” e “sinistra” (oggi tra Polo e centro-sinistra) sembra consistere nel fatto che la prima propone una politica repressiva dura sia nei confronti degli immigrati, sia per i marginali nazionali (sino al lavoro coatto e al trattamento sanitario obbligatorio per i tossicodipendenti); la seconda propone invece sia la politica repressiva dura nei confronti degli immigrati e dei nazionali (si pensi al “pacchetto sicurezza”), sia alcuni spazi di rispetto delle garanzie e un trattamento sociale della devianza riservato solo ai nazionali. Questa stessa differenza lascia forse ancora spazi che impediscano l’instaurazione di una società autoritaria. In altri termini, come in passato, la solidità del governo della sicurezza nei paesi dominanti si manifesta anche nella possibilità sia di atti tipici di una prassi violenta, sia di atti rispettosi delle norme democratiche. Ci si può allora chiedere se sia possibile immaginare alternative effettivamente democratiche rispetto alla “tolleranza zero” e in genere alle derive autoritarie che con l’avvento della postmodernità sembrano trionfare. Le riflessioni sulle tendenze della società contemporanea contenute nelle opere di autori come Bauman o Bourdieu non inducono all’ottimismo. È assai difficile immaginare, almeno a breve e medio periodo, sviluppi economici e sociali diversi da quelli attuali, che favoriscono l’inasprimento del dominio delle minoranze sulla stragrande maggioranza della popolazione mondiale, dei paesi cosiddetti “democratici sviluppati” sulle società dominate. La logica della “tolleranza zero” corrisponde alla logica di questo tipo di dominio, di questo “tipo di civiltà”. L’indignazione del cittadino perbenista per i cosiddetti “atti di inciviltà urbana” non è dettata dal desiderio di sicurezza intesa come effettiva pace sociale ed effettiva limitazione di tutte le insicurezze e incertezze. Essa sembra invece fortemente marcata dal disprezzo se non dall’odio per i soggetti percepiti come non-cittadini e per le società dominate percepite appunto come barbare e incivili. Per certi versi sembra di assistere a una sorta di ritorno agli atteggiamenti tipici del periodo coloniale, con l’aggravante che oggi questi atteggiamenti sono però adottati non solo da persone che si dichiarano apertamente razziste o neocolonialiste, ma anche in nome della democrazia e persino dell’umanitarismo o della “terza via”. In tale contesto la questione del rispetto dei diritti universali di ogni essere umano sembra tornare a essere cruciale tanto quanto fu quella del diritto di voto e dei più elementari diritti civili e sindacali sin dalla seconda metà del XIX secolo, proprio perché questi stessi sono minacciati o inesistenti per milioni di persone in diverse parti del mondo.
Dopo anni che lavoro sulla polizia e sul governo della sicurezza, mi sembra che non si possa assolutamente accettare di discutere di tali problemi senza assegnare la priorità al rispetto dei diritti di ogni essere umano, nazionale o straniero, vittima o autore di reato. È quindi questa la questione che mi sembra politica per eccellenza. In Italia, l’assenza di una vera e propria tradizione liberal-democratica ha fatto trascurare questi aspetti e insieme la ricerca sulle polizie. È assai probabile che le cosiddette “questioni di sicurezza” e di polizia continueranno a essere in primo piano per ancora vari anni. Non è neanche da escludere che un nuovo “movimento” favorevole al rispetto dei diritti civili, magari con nuove modalità e forme di mobilitazione, possa emergere anche per rivendicare quella libertà e quell’uguaglianza che l’umanità non è ancora riuscita a conquistare.