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di Wu Ming 1

Seppure in buona fede, il 26 agosto scorso Vittorio Zucconi ha ripreso e amplificato una vetusta e diffamatoria leggenda urbana su Stokely Carmichael / Kwame Ture.
Procediamo con ordine.

Carmichael, morto di cancro nel 1998, fu uno dei più importanti intellettuali e leader politici afroamericani del XX° secolo, protagonista delle lotte per i diritti civili nel Sud degli Stati Uniti, collaboratore di Martin Luther King, grande comunicatore, testimonial dello slogan “Black Power”, marito della cantante Miriam Makeba, dirigente dello SNCC (“snic”) e del Black Panther Party, ponte vivente tra il movement e le rivoluzioni anticoloniali africane, tanto da trasferirsi in Guinea come consigliere e braccio destro del presidente Ahmed Sékou Touré, e ribattezzarsi col nome pan-africano “Kwame Ture”.

Tra i leader neri degli anni Sessanta e Settanta, Carmichael fu tra i più perseguitati dall’FBI attraverso il programma illegale COINTELPRO. Contro di lui fu condotta una crudele guerra psicologica, ogni diceria sul suo conto venne ingigantita e distorta fino a rendergli la vita impossibile. Per screditarlo agli occhi dei suoi compagni furono prodotti falsi documenti “certificanti” il suo ruolo di infiltrato e spia in seno al movimento. Tutto ciò è ampiamente documentato.

La vita di Carmichael/Ture è ripercorsa nella magnifica, struggente, monumentale “autobiografia a due voci” Ready For Revolution: The Life and Struggles of Stokely Carmichael (Kwame Ture), scritta con l’amico Ekwueme Michael Thelwell e uscita nel 2003.
Affermo da anni, e lo ripeto qui, che Ready For Revolution è uno dei libri più belli che io abbia mai letto. Purtroppo non c’è speranza che venga tradotto in italiano: quale editore nostrano scommetterà mai su un tomo di 800 pagine fitte su una figura poco nota nell’ex-Belpaese attualmente Ecomostro?

Carmichael è uno dei personaggi raccontati nel mio “oggetto narrativo” New Thing (2004), a lui dedicato in memoriam.

Domenica 26/08 il “domenicale” del quotidiano La Repubblica ha dedicato due pagine (a firma Zucconi) alle utopie degli anni Sessanta e al quarantennale della “Summer of Love”. L’occhio mi è subito caduto sul box riportato sopra. Cosa?! Ma vuoi vedere che hanno ripreso quella vecchia frottola…

L’avevano ripresa.

Nell’argomentare – a ragion veduta – che flower power, controcultura e rivoluzione sessuale furono lungi dal far piazza pulita del vecchio maschilismo, Zucconi passa a fare un esempio. Eccolo qui:

“La posizione delle donne nel nostro movimento”, avrebbe detto il leader delle Pantere nere Stokely Carmichael, “deve sempre essere una sola: sdraiate sulla schiena”.

Non è una delle mistificazioni più gravi tra quelle che il leader nero dovette affrontare in vita (e noialtri sorbirci post mortem), ma di certo è la più persistente e “appiccicosa”.
La frase originale, “The position of women in SNCC is prone“, fu detta da Carmichael all’interno di un monologo satirico improvvisato durante la pausa di una lunga riunione, monologo basato sulla parodia di vari tipi di neri e di militanti, ivi compreso quello (diffusissimo allora come oggi) che partecipa alle lotte solo per cercare la figa.
Ekwueme Michael Thelwell chiarisce questa storia alle pagine 431-435 di Ready for Revolution, e dopo aver ricostruito il contesto scrive (traduzione mia):

Da lì in avanti, vidi [quella frase] prendere vita propria. “Cazzo, è incredibile”, pensavo. Di tutte le battute divertenti fatte dal fratello quella sera, questa è l’unica rimasta impressa a un qualche idiota? A dir poco deprimente.
Questa triste storia, ad ogni modo, ha una confortante nota a pie’ di pagina, che riguarda il necrologio di Carmichael sul New York Times. Quando il fratello morì nel 1998, attesi il necrologio con insolito interesse. Riempiva due terzi di pagina e, nell’inimitabile maniera di quel giornale, riusciva a dare tutte le date e i nomi giusti, e tutte le interpretazioni sbagliate. Come c’era da attendersi, riproponeva uno dopo l’altro tutti i clichés e i giudizi dati dall’establishment, al fine di negare qualunque minima influenza, conseguenza o rilevanza del contributo dato dal fratello. Al punto che veniva da chiedersi: come mai la redazione ha dato tanto spazio a una vita che a loro dire è stata tanto insignificante?
Eppure rimasi stupito e contento di non trovare quello che andavo cercando: un riferimento alla fandonia sulla “posizione delle donne”. Poiché era l’unica leggenda urbana assente dal pezzo, la sua assenza dava nell’occhio. L’avevo cercata dopo aver saputo dell’intervento di due donne dall’etica rigorosa, che per puro caso era anche intellettuali bianche.
Quando la malattia di Ture era entrata in fase terminale, Mary King [attivista bianca dello SNCC] e Francesca Poletta – giovane sociologa della Columbia University che ha condotto ricerche approfondite e scritto saggi importanti sullo SNCC – avevano contattato il settore necrologi del NYT, fornendo prove ed elementi concreti sulla questione e ammonendo a non riciclare per l’ennesima volta quella merda. Era chiaro che ce l’avevano fatta, dato che, a dispetto del tono dell’articolo, la bubbola era rimasta fuori. Mary, Francesca: massimo rispetto.

Qui di seguito, a mo’ di nota biografica, alcuni estratti da New Thing.

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Furono battesimi del fuoco: insulti, manganellate, tentativi di linciaggio… Ma è il giugno del ’66 il vero spartiacque della mia vita: la “Marcia contro la paura”, da Memphis, Tennesse, a Jackson, Mississippi. Duecento miglia coi militanti neri che mordevano il freno, non si accontentavano più della non-violenza. La marcia era pacifica ma protetta dai Deacons for Defense and Justice, con le armi ben visibili. Sono sicura che questo salvò delle vite. Nemmeno il dottor King ebbe niente da obiettare alla presenza dei Deacons. Durante la marcia Stokely lanciò lo slogan “Black Power”.

“Potere nero” voleva dire autodeterminazione, ad esempio il diritto dei neri a governare le comunità in cui erano maggioranza. Nel Sud c’erano contee in cui i bianchi erano appena il 10% degli abitanti ma nessun nero aveva il diritto di voto. La parola giusta è “apartheid”. “Black Power” era anche uno slogan polemico verso i liberal che dettavano la linea al movimento, predicavano docilità e rispondere “Sì, badrone”, ma i media lo spacciarono per uno slogan “anti-bianchi”, ne distorsero il messaggio, cominciarono ad accusare lo Sncc di “razzismo al contrario”. Si inventarono dissidi tra Stokely e il dottor King, che invece rispettava lo Sncc. Il dottor King criticava lo slogan ma non la sostanza, e non condannò mai Stokely o l’organizzazione.

s-sncc.jpg“Black power” riassumeva in due parole un processo durato anni: la riscoperta dell’Africa, un’Africa della mente, l’essere neri, che non era tanto il colore della pelle, ma l’esperienza che teneva insieme la comunità. Nell’anno che era portavoce nazionale dello Sncc, Stokely attraversò il Paese in lungo e in largo, parlando tutti i giorni, anche più volte al giorno. Assemblee, conferenze, programmi alla radio e alla tv, ogni volta spiegava il significato dello slogan, se ne fregava degli attacchi e ripeteva quelle due paroline, “Black” e “Power”, acido nitrico e glicerina, e bombardava il pubblico con l’aggettivo: black, black, black, black, ovunque andavi Stokely diceva “black”. Alla fine di quell’anno, la parola “Negro” apparteneva al passato.

Nel ’67 Stokely aveva venticinque anni ed era il nero più odiato dall’America bianca, secondo solo a Muhammad Ali. Lo accusavano di odiare i bianchi, di essere razzista, ma lui era cresciuto in un quartiere di italiani, s’era diplomato in una high school bianca, aveva fatto lavoro politico con attivisti bianchi. “Potere nero” significava organizzare le nostre comunità, non distruggere quelle altrui. Stokely diceva sempre: “Costruire la propria casa non significa buttare giù quella dall’altra parte della strada”.

Il numero di attivisti neri uccisi dai razzisti era già alto prima che ci si mettesse l’Fbi, e Stokely era il prossimo, in cima alla lista. Eravamo tutti preoccupati che non arrivasse ai trent’anni. In compenso, era uno dei neri più amati dalla sua gente. Nelle contee del Mississippi dove lo Sncc aveva fondato il Freedom Democratic Party, e in Alabama dov’era nato il simbolo della pantera nera, c’era chi l’avrebbe sfamato con l’ultimo tozzo di pane, avrebbe ricevuto la pallottola che gli era destinata, si sarebbe strappato un braccio e l’avrebbe usato come clava per difenderlo.
Non so quanto ne fosse consapevole, ma Stokely aveva una galassia di buone stelle, angeli custodi sparsi per il mondo che si mossero per sottrarlo al pericolo. Nella primavera del ’67 gli organizzarono un tour mondiale. Londra, Cuba, la Cina, Il Vietnam in guerra, l’Algeria post-coloniale, infine la Guinea dove sarebbe andato a vivere.
Da quei paesi continuava a denunciare l’oppressione dei neri negli Stati Uniti, facendo impazzire di rabbia i nostri media. La Cia cercò più volte di catturarlo e riportarlo in patria, o almeno di rubargli il passaporto. Esiste un discorso di Fidel Castro in difesa di Stokely. La Guinea inoltrò agli Usa una protesta diplomatica ufficiale per le intimidazioni da parte di membri dell’ambasciata americana. Kwame Nkrumah lo prese come segretario.

Mentre il fratello Stokely faceva il giro del mondo, la stampa americana lo trasformava in un demonio, un Satana negro, la personificazione dell’antiamericanismo e del “tradimento”. Ma fammi il piacere, questo Paese non ci aveva mai dato un cazzo, ci gassava e bastonava nei ghetti poi ci mandava a crepare in Vietnam, e se un nero lo dice, e spiega che gli Stati Uniti rubano la ricchezza del pianeta, quello è un traditore?
In Guinea incontra Kwame Nkrumah, l’ex-presidente del Ghana, deposto da un golpe appoggiato dagli Usa. Nkrumah non è solo un esule di rango, Sékou Touré lo ha nominato co-presidente del Paese. Nkrumah ha studiato in America, conosce bene le lotte dei fratelli di qui, è un panafricanista e per lui sono tutte battaglie del popolo africano, sul continente e nella diaspora atlantica. Beh, per farla corta, Nkrumah chiede a Stokely di diventare il suo assistente. Stokely, che nel frattempo si è messo con Miriam Makeba ed è in pieno trip africano, accetta, ma prima vuole tornare negli Usa per finire del lavoro. Tutti gli africani della diaspora che incontra gli dicono: – Brother, is you crazy? Se torni, chissà che ti fanno! L’uomo bianco vuole il tuo culo! – ma lui ha deciso che torna, non può lasciare a metà i suoi progetti. Appena atterrato al Jfk, gli sequestrano il passaporto. Lui se lo aspettava, ha già chiamato i suoi avvocati, è disposto a fare il diavolo a quattro per riaverlo.

Miriam MakebaNei mesi che trascorse negli Usa, Stokely diventò dirigente onorario delle Pantere, sposò Miriam Makeba, si sbattè per riavere il passaporto e cercò di organizzare le comunità nere di Washington D.C. Poi venne ucciso il dottor King. Nel Paese scoppiarono più di cento rivolte, la situazione era ormai fuori controllo, organizzare la nostra gente era quasi impossibile. Da un giorno all’altro i ghetti si riempirono di tossici, l’eroina dilagava. Stokely, dal canto suo, passò brutti momenti: il Cointelpro pedinava e sorvegliava lui e Miriam, e faceva di tutto per distruggere la reputazione di entrambi. Un’intera tournée di Miriam saltò senza spiegazioni dopo che l’Fbi disse ai promoters due paroline. Il Cointelpro sparse nel movement, soprattutto tra le Pantere, la falsa voce che Stokely era un infiltrato della Cia. Alla fine, prima che qualcuno gli facesse saltare le cervella per un qualunque motivo, Stokely riebbe il passaporto. Lui e Miriam tornarono in Guinea per un pelo.

La Guinea indipendente era la base operativa di tutte le guerriglie dell’Africa nera. C’erano gli angolani, i mozambicani, quelli della Guinea-Bissau e Capo Verde, i sudafricani dell’African National Congress. Tutti i movimenti di liberazione nazionale prendevano il volo da Conakry. Stokely cambiò nome, si chiamò “Kwame Ture”, in omaggio a Kwame Nkrumah e Sékou Touré. L’acqua in cui si immerse per il secondo battesimo fu la cultura africana. Entrò nell’All-African People’s Revolutionary Party e si occupò dei rapporti tra i movimenti africani del Continente e quelli nella Diaspora. Non si fermò mai un secondo.

Stokely CarmichaelQuando scoprirono il tumore alla prostata, Kwame accettò il verdetto e disse: – Quel che mi resta da vivere appartiene alla mia gente, continuerò a lavorare e organizzare finché avrò la forza di muovere la lingua.
Combattè la metastasi come aveva combattuto il razzismo. Dentro quel tribuno su sedia a rotelle c’era lo spirito dello Stokely di trent’anni prima, anche più fiero di allora. Ripeteva: – Il cancro tira fuori il meglio di una persona.
Contese gli anni al male senza farsi assediare, anzi, contrattaccando, riconquistando terreno, piantando la bandiera della vita su ogni collinetta, celebrando il buon esito di ogni sortita. Lo circondava l’amore della comunità, medici e guaritori lo curavano gratis. Diceva: – Se ti sacrifichi per le persone, le persone si sacrificheranno per te.
Strappò alla morte tre anni. Quando il momento si avvicinò tornò a Conakry, tra le braccia di Madre Africa. L’ultima riunione la fece la sera prima di morire, talmente debilitato da non poter rimanere seduto. Lo appoggiammo a una pila di cuscini, parlò, ascoltò, sorrise, toccò a lui consolare noialtri. Ci salutò dicendo: – Siate sempre pronti, e quando arriverà il momento non dovrete prepararvi.
Nostro fratello Kwame ci lasciò il 15 novembre 1998.
Dopo il funerale, chissà come, mi tornò alla mente un aneddoto. Me l’aveva raccontato Stokely, riemergeva dalle nebbie di un’altra America, un altro mondo, ormai quasi un altro secolo.
La notizia della morte di John Coltrane gli era giunta mentre era a Londra, per una conferenza sui movimenti di liberazione. Prima di cominciare il suo discorso, fece alzare in piedi gli spettatori e chiese un minuto di silenzio per quel grande artista nero e guerriero culturale. Nessuno se l’aspettava, era una conferenza molto politica nell’accezione più stretta, piena di intellettuali seriosi, e che c’entrava il jazz con la rivoluzione? Eppure tutti rimasero in piedi e in silenzio.
Quei due fratelli avevano molto in comune. Due vite dedicate allo spingersi avanti, sempre più avanti. Ed erano instancabili. Solo il cancro riuscì a fermarli, ma non potè impedir loro di muoversi fino all’ultimo minuto, l’ultimo secondo prima di danzare e raggiungere gli antenati.


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