di Carlo Gazzotti

CarloGazzotti.jpg4. La scena meccanica (1991-1992)

All’inizio dell’anno scolastico 1991/92 venni avvicinato da una serie di funzionari del teatro stabile locale che mi proposero di partecipare alle iniziative attraverso le quali l’ente voleva ‘lanciare in città’ il proprio allestimento del Pinocchio di Collodi
In cambio, la più importante istituzione teatrale della regione si impegnava a metterci a disposizione gli spazi necessari all’attività laboratoriale essendo a conoscenza del fatto che il gruppo non poteva più utilizzare la sala SGB chiusa per gli interventi di ristrutturazione e di messa a norma dei quali s’è già parlato.

La presenza di un tema universalmente noto, la credibilità del committente, il nutrito gruppo di partecipanti che il successo dei due precedenti lavori aveva finito per orientare verso di noi, consentirono di lavorare con maggiore lena e con più ordine inducendo la scuola a modificare il proprio comportamento (quantomeno nella facciata).
Contemporaneo all’attività di alfabetizzazione teatrale che avrebbe continuato a svolgersi due volte alla settimana, venne per la prima volta intrapreso un percorso letterario e drammatico di avvicinamento al testo.
Rammentai ai ragazzi come Pinocchio di Collodi fosse l’opera italiana più letta e più frequentata al mondo, ovvero ancora che non trovandosi di fronte solamente a un libro per ragazzi ci si sarebbe potuti orientare proprio intensificando questa sua marcata caratterizzazione adulta. In esso, in fondo, stavano la stessa vocazione polemica, la stessa delusione che anche noi avevamo avuto modo di sperimentare nei confronti dell’istituzione scolastica e di quella politica.
Pinocchio, dicevo loro, era però prima di tutto un romanzo, un romanzo di formazione, d’iniziazione ed era anche e soprattutto una favola. Rammentai ai ragazzi come lo stesso Carlo Lorenzini avesse avuto modo di tradurre le famose fiabe francesi di Perrault e come anche lì avesse fatto capolino quel suo stile insieme polemico e arguto.
A tutti fu oltremodo chiaro che in Pinocchio la favola non era per l’appunto quella di un re, bensì quella di un burattino le cui peripezie procedevano dalla ‘casa’ alla ‘strada’, passando sovente per il ‘teatro’, secondo una logica di crescite e di ricadute, di prove superate e di precipitosi scivoloni regressivi. Chiarii inoltre cosa dovesse intendersi per contratto di finzione e come a questo scopo consentisse d’addivenire l’uso sapiente dell’indicativo imperfetto, del “c’era una volta”, rammentando inoltre che Pinocchio era stato da tempo letto e capito come un’opera drammatica in fieri, portatrice di un intrinseco messaggio insieme teatrale e meta-teatrale. Ricordai che Carlo Lorenzini era stato uno tra i più acuti e taglienti critici drammaturgici del proprio tempo e che simile amore per il teatro traspariva in Pinocchio un po’ dappertutto: dalla compagnia del ‘drammatico vegetale’ ai monologhi e ai dialoghi in odore di commedia dell’arte (commedia dei cui canovacci, della cui sintassi, feci notare, il romanzo mostra esempi in dosi sovrabbondanti). Per me, ultimo insignificante interprete di un’intera ermeneutica nazionale, Pinocchio era prima di tutto ‘Stenterello’, ovvero un attore marionetta. Da lì il passo per pensarlo come un organismo meccanico ‘maraviglioso’, come un robot con tanto di voce incorporata fu relativamente breve.
La discussione e la ricerca presero così piede proprio da questa duplice premessa, che cioè Pinocchio avrebbe consentito di procedere nella direzione della pre-espressività di tanti esercizi e insieme aiutare una riflessione sulla civiltà post-industriale e telematica (qui da noi allora poco più che agli albori).
Se Pinocchio era un attore/marionetta, un robot, era però anche, come il grosso di loro, un giovanissimo emarginato, un disoccupato, uno studente svogliato e senza alcuna prospettiva. Del tutto simile a certe loro futili devianze, a certe loro ingenue marginalità, a certe loro ‘carognate’ e insieme capace di trascendere la condizione umana in quanto, come aveva saputo argutamente sottolineare il cardinal Biffi, a suo tempo, un blasfemo “figlio del falegname”.
Proposi così agli studenti del gruppo, un’ottantina in tutto, di lavorare solo sui primi quindici capitoli del romanzo. Quelli del Pinocchio originario, procedendo per logiche di sottrazione e di sottolineatura del testo, ovvero togliendo la narrazione e conservando i dialoghi e i discorsi diretti. Andando a capo ogni volta che c’era il punto ed eliminando ogni riferimento esplicito relativo ai personaggi e ai nomi di persona. Ciò consentì d’ottenere una partitura di frasi dirette, serrate, essenziali, la quale rappresentò la prima trama fonetica sulla quale imbastire il lavoro più propriamente attoriale e i ritmi degli interventi individuali e del coro.
Il lavoro di montaggio di detto materiale si basò sul sistema delle improvvisazioni stimolate da domande, ovvero ancora sul fatto che i singoli attori, individualmente e/o a gruppi, avrebbero dovuto costruire situazioni, movimenti, azioni, capaci di rispondere alle richieste del capogruppo o dei singoli attori stessi. Ciò avrebbe reso oltremodo importante il rendersi elastici, disponibili, pronti a qualsiasi gioco, come nella logica stessa del tessuto narrativo e drammatico dell’opera poteva essere detto di Pinocchio medesimo.
Fasi successive nelle quali ripetere quanto già prodotto portarono via via alla ricerca ulteriore di semplicità, pulizia, decisione, trasparenza dei significati, e ciò attraverso l’ulteriore sottrazione e semplificazione dell’ordito. Lo spettacolo nasceva in codesta maniera senza alcuna attribuzione di parti fisse, dal semplice esercitarsi, dal semplice rispondere dei corpi, dalla ricerca di un ordine, di un’armonia, di un gesto minuzioso e dettagliato, sia nelle azioni che nelle parole.
A ciò andò sovrapponendosi una trama ulteriore la quale, pur partendo dagli stessi primi quindici capitoli del Pinocchio di Collodi (sino a quando cioè “il figlio del falegname” viene impiccato) rendesse possibile raccontare una storia ‘altra’ rispetto a quella propria del romanzo. Una storia per la quale il burattino Pinocchio diveniva il replicante Nipocchio e Collodi, letto alchemicamente alla rovescia, in maniera speculare, si ritrovava ad essere ‘I.D.O.L.L.O.C.’, al secolo una fabbrica giapponese di componenti bioniche nella quale l’ingegnere cibernetico ‘Lady Cobalt’ (destinata a coniugare insieme fata turchina, Geppetto e Mastro Ciliegia) andava partorendo una nuova generazione di automi, tra i quali per l’appunto ‘Nipocchio’ e ‘the cat & the fox’ (il gatto e la volpe).
Al posto di Mangiafuoco un certo ‘Fire’ suo equivalente e proprietario di questa sorta di ‘drammatico vegetale’, di questa ‘Società per limitati’. Un termine caricaturale con il quale indicare la I.D.O.L.L.O.C., una ‘limited’ necessariamente a responsabilità limitata, e insieme la capitalistica riduzione alienante a merce di ogni biologia, umana o meccanica che fosse. In quanto nello spettacolo era palese come il concetto di ‘limitazione’ passasse indifferentemente dal campo giuridico-economico della ‘factory’, della ‘company’, alla natura limitante e alienata del lavoro salariato. Lo stesso al quale venivano costrette le suddette maestranze, dette per l’appunto di ‘limitati’ e qui rappresentate dal coro.
Il personaggio di ‘Fire’ avrebbe a sua volta incarnato l’imprenditore ottocentesco trasposto in una società matriarcale e futuribile, post-industriale e distopica. Una società, un mondo, entro i cui confini Nipocchio diventava la favola per mezzo della quale poteva forse risultare possibile inscenare alcune ‘tirate polemiche’ sulla natura bestiale del capitalismo contemporaneo, ovvero ancora il luogo nel quale far convergere richiami marxisteggianti e considerazioni sulla rivoluzione industriale nel nostro paese, riflessioni sui processi di globalizzazione, automazione, informatizzazione in corso, comprese certe nostalgie e certi vilipendi post-sovietici. Lo so che sembra di essere di fronte a un delirio allucinatorio, ma a noi piaceva proprio per questo, come si fosse trattato d’aggredire la dimensione sociale dell’animale politico facendo leva su di una vitale, liberatoria vocazione infantile. Su di una criticissima (suo malgrado) carica idiota.
Un problema ulteriore fu quello riguardante il naso di Pinocchio. Naso che Nipocchio sembra sottolineare nel proprio stesso vertiginoso anagramma. Nipocchio infatti comincia per ‘N’ come Nippon, ma anche come naso.
Si provò di tutto e inutile sarebbe elencare sequele di tentativi e di trovate maldestre. La scelta finale fu di rappresentare il naso di Pinocchio con un personaggio che ‘recitasse’ brani di grandi nasi letterari, essendo possibile concepire proprio il letterario quale inesauribile fonte di bugie, di ‘spiritose invenzioni’ e insieme simbolo evidente delle medesime.
Il naso di Pinocchio divenne così il ‘naso’ filosofico di Vitangelo Mostarda, l’eroe pirandelliano di Uno, nessuno e centomila, lo stesso dal quale prende casualmente le mosse la defatigante riflessione filosofico – esistenziale dello scrittore agrigentino; Il naso di Gogol e dell’omonimo racconto surreale, il cui personaggio principale, tale Kovalòv, di mestiere faceva tra l’altro l’ispettore collegiale; il proverbiale naso di Cyrano di Bergerac; il ‘profilo greco’ di Dante Alighieri, e ancora quello di Walter Zenga (allora estremo difensore dell’Inter f.c., quello dell’elefante, ecc. ecc. ecc.).
Del resto, proprio intorno a Dante era costruita una delle ipotesi di fondo che reggevano lo spettacolo, ipotesi a suffragio della quale però non mi è a tutt’oggi possibile fornire alcuna testimonianza scientificamente apprezzabile. Che cioè Carlo Lorenzini proprio all’Alighieri pensasse quando, al quindicesimo ed ultimo capitolo della prima stesura di Pinocchio, fece finire il burattino impiccato al proprio stesso legno, “al pruno dell’ombra sua molesta” analogamente a quanto Dante aveva congegnato per Pier delle Vigne, il consigliere di Federico II morto suicida.
Ad accompagnare il tutto le musiche di Andrea, un ex studente della scuola, eseguite per l’occasione dalla band carpigiana dei ‘Sigmund Freud’ capeggiata da Paolo, il più bello, il più corteggiato dalle ragazze, il più etilico pluribocciato della scuola.
Il libero ingresso a entrambe le rappresentazioni (delle ore 10 per la scuola, delle ore 21 per il pubblico) favorì il tutto esaurito in entrambi i casi e l’entusiastica accoglienza ricevuta dallo spettacolo al quale finirono con l’assistere oltre duemila spettatori.
La consapevolezza dello stare in scena adulto (garantito dalla pratica laboratoriale) e l’indiscusso talento naturale di alcuni ragazzi particolarmente dotati avevano fatto dell’esperienza teatrale della quale stiamo parlando una pratica alchemica matura capace di cogliere, oltre la magia, la natura canagliesca dello spettacolo, il suo essere costitutivamente un meraviglioso e seducente imbroglio stregonesco.
Ogni verità si fosse azzardato toccare poteva così, con pochi colpi bene assestati, essere dipinta nei suoi stessi elementi fallaci, posticci, arbitrari, menzogneri.
La facilità del gioco apparente nascondeva a sua volta (bugia nella bugia) il rigore e la fatica dell’esercizio continuo, ma questo era forse meno facile da apprezzare .
Certo è che negli anni avevo finito per mettere insieme una sorta di vero e proprio eserciziario, un prontuario, utile all’occorrenza, al quale poter facilmente ricorrere in ogni fase di lavorazione. Ogni nuovo ragazzo disposto a entrare nel gruppo lo seguiva quasi si fosse trattato di un vero e proprio percorso iniziatico attraverso il quale venire invitati ad addentrarsi nelle segrete ‘cose di teatro’.
Una vera e propria vulgata drammaturgica per me necessaria all’alfabetizzazione dei nuovi ‘corsisti’ durante le prime fasi del loro apprendistato teatrale e capace di rappresentare negli anni serbatoio di continue idee e trovate per gli spettacoli da realizzarsi. Un lessico di nozioni, concetti, schemi ai quali far velocemente riferimento nelle prove per tirarsi fuori dalle secche di qualche difficoltà interpretativa, a cominciare dai limiti attoriali dei tanti adolescenti che venivano da me per ‘recitare’. Per questo ho deciso di riportarlo per esteso qui di seguito, indicando eventualmente tra parentesi la fonte ispiratrice e la pratica drammatica eventuale dalla quale avevo tratto l’esercizio. Per alcuni versi lo si potrebbe anche leggere come capace di ingenerare un’intera proppiana morfologia di azioni. Azioni idiotissime: narrative o drammatiche poco importa.

– Seduti, si apre una mano in inspirazione, poi la si chiude in espirazione. Lo stesso con l’altra mano; poi solo con tre dita della mano, le altre due rimangono aperte. Questo per produrre la concentrazione necessaria al cerchio magico creativo (Stanislavskij).
– Andare in cerca del segno più semplice e produrre unità minime di senso.
– Misurare il tempo necessario per compiere un tragitto, uno spostamento. Poi, in un secondo tempo, metter ostacoli e imporre di eseguire lo stesso spostamento nel medesimo tempo. Oppure, al contrario, avvicinare i due punti dello spostamento e chiedere venga impiegato lo stesso tempo.
– Chiudere gli occhi e fare annusare profumi e odori. (fonte potentissima del ricordo e vari gradi della memoria, giù giù, sino a quella ‘rettile’) (Marco Baliani).
– Toccare oggetti e produrre reciprocità con le cose.
– Tasteggiamento e reciprocità con le persone.
– Il pigia — pigia.
– Le mani parlanti.
– Toccarsi i piedi con le mani, a terra.
– Modulare le voci come strumenti /sugli strumenti. Emettere la”O” della tigre all’alba. La “A” dell’oca dopo il pasto. La “I” del pavone di notte.
– Interrogare, intrattenere il pubblico: “Buonasera!”; “Che ore sono?”;
– Presentare gli altri personaggi al pubblico. Essere confidenziali con i singoli spettatori, colloquiali. Discorrere di loro.
– Provare passioni – attrazioni – repulsioni.
– La boxe.
– La cavallina.
– Massimizzare lo sguardo a destra e sinistra portandolo da una parte all’altra.
– Il volto è neutro e lo sguardo cerca una linea ipotetica all’orizzonte.
– Correre l’un contro l’altro con decisione arrivando al centro della scena, vicinissimi l’uno all’altro, senza però toccarsi.
– Camminare sulla scena. Sull’interno, sull’esterno, sulla punta, sul tallone del piede, indietro tra improvvisi stop.
– La terza gamba e l’abbassamento pre-espressivo del bacino con movimenti tendenti a creare circonferenze del bacino. Stretti poi larghi, poi larghissimi e al contrario. Da una parte e dall’altra, disegnando circonferenze col tronco, con le spalle e le mani.
– Imitare andature e movenze di animali, ovvero imitare qualcuno nella camminata e nei gesti: studiarne e riprodurne i centri (Lecocque).
– Il burattino/scheletro. Tre gesti minimi in avanti e a ritroso.
– Muoversi in direzione della sorgente di luce.
– I centri di attenzione di Stanislavskij (il più intimo, il proprio corpo, il partner, la scena, l’universo). Passaggi dall’uno all’altro e viceversa, poi a salti.
– Suddividere in maniera tripartita ogni azione: rispettivamente in preludio, in uno sviluppo, in un finale; farlo sulla parola, la frase, il periodo, la battuta, e ancora, sul movimento, sul gesto, sull’azione, sulla sequenza drammatica, sull’intera performance (Zeami e il Nò Giapponese). Inscenare la potenza e l’incanto sottile del fiore: ovvero il segreto dell’arte attoriale.
– Ripetere una battuta attribuendo a ogni attore una parola. Ad esempio: “Essere o non essere, questo è il problema”. Sostituire poi singole parole e per ultimo tutte le parole, arrivando ad articolazioni di suoni, a puri significanti. Ovvero, un attore inizia con una parola, gli altri ripetono le parole dette e ne aggiungono un’altra (da Peter Brook).
– Il gioco del puntare il dito verso qualcuno: “Sei stato tu!”, “No! E’ stato lui!”, “No, lui!” ecc.
– Il gioco dello scimmione ammaestrato. Uno fa lo scimmione, l’altro il suo padrone (M. Cechov)
– Passarsi una sedia di mano in mano come si fosse in una tragedia, in un melodramma, in una commedia.
– La marcia dell’attore. Marciare intorno alla stanza seguendo un capo. Dire: “Sono forte, sono sano, le mie mani e i miei piedi sono liberi e belli, le gambe sono forti.” (M. Cechov).
– Essere divisi in tre parti: in testa c’è il senso dello spazio e la forza del pensiero; nel busto la forza del sentimento; nei piedi la forza di volontà. (M. Cechov).
– Con le mani e con il corpo tracciare linee e figure in aria e per terra. Eseguire gesti ampi, espressivi e belli con tutto il corpo. I movimenti non devono essere meccanici (M. Cechov) Eseguire movimenti senza senso né scopo (M. Cechov).
– Produrre altrettante statue viventi. Al gruppo viene assegnato un argomento (l’amore; à la guerre!; l’Italia) Gli attori entrano uno per volta e si bloccano in una posizione dinamica creando una scultura vivente. Ogni nuovo allievo quando entra deve osservare attentamente la composizione e inserirsi (Pina Baush).
– Lanciare una palla vera a chi viene dopo di noi nella recitazione; oppure dopo averlo nominato. L’ Euritmia delle vocali di M.Cechov: Ah! con braccia sollevate sul capo a forma di ‘V’, la sensazione è di timore reverenziale; l’immagine è quella di un uomo che scopre il sole. Aaaa: braccia incrociate sul petto, la sensazione è di contrazione, l’immagine à di protezione. Eeee: braccio destro sollevato in segno di saluto, sensazione di forza, immagine di energia che si riversa in cielo. Oooo: braccia all’infuori in forma di cerchio, sensazione di simpatia, immagine che abbraccia il mondo. Uuuu: Braccia parallele distese in fuori, sensazione di ansietà, immagine del lacerante mistero. Trasformare il suono di ogni parola in un movimento dimenticando il significato della parola medesima per cercare le sfumature spirituali nascoste nella sua fonetica. Scandire le singole lettere di una parola. Muoversi come ballerini, con leggerezza (M. Cechov).
– Seduti supini sul pavimento con il viso rivolto verso l’alto. Contrarre per un po’ di tempo tutto il corpo, poi rilassare soltanto i muscoli del lato destro. Tenere sotto controllo le tensioni che ritornano sul lato destro. Isolare le aree contratte e rilassarle una per volta. Ripetere l’esercizio con il sinistro. Poi con tutto il corpo (Stanislavskij sul rilassamento).
– Eseguire mentalmente un’operazione matematica o leggere ad alta voce un libro mentre un compagno ne legge un altro. Lo stesso si può fare con una battuta. Spostate l’attenzione sul compagno poi di nuovo sul libro (Stanislavskij sulla concentrazione).
– Camminare come se il pavimento fosse una pozzanghera o una distesa di sabbia infuocata. Inventare uno strano rituale ed eseguirlo con la massima serietà (Stanislavskij sull’ingenuità).
– Improvvisare su una parola, quindi aggiungere i toni del dolore, della gioia, del mistero.
– A un’esposizione di quadri una folla di persone si ferma a guardare i dipinti, esprimere le proprie impressioni, osservare l’abbigliamento degli altri e scambiare pettegolezzi.
– Ripetere l’espressione “Che ora è”? dicendosi ora “Sono in ritardo?” ora “Perchè non te ne vai?” Ora “Mio Dio, che noia!”. Ora “Per favore!”
– Stendere le mani e trasmettete i raggi dalla punta delle dita a un unico destinatario scelto tra una fila di compagni seduti di spalle con le mani dietro la schiena, pronti a riceverne i raggi (Suler a detta di Stanislavskij).
– Vestirsi pensando di avere a propria disposizione: cinque ore prima dell’inizio di uno spettacolo / un’ora / cinque minuti. Scoprire la canzone preferita del proprio personaggio e tradurla in un’azione ritmica. Pronunciare la propria battuta con dieci ritmi differenti (M.Cechov).
– Concentrare la propria attenzione su di un oggetto in scena, poi passare ad un altro oggetto.
– Colpirsi, schiaffeggiarsi, spingersi ripetendo all’ossessione una parola, un nome.
– Consegnare all’insegnante un oggetto di valore e uscire, poi rientrate e cercare l’oggetto ricordando che s’ha da ‘rappresentare’ l’azione come fosse in una tragedia. Spostate i mobili e le suppellettili della sala. (Stanislavkij).
– Scrivere una lettera come se… ovvero leggere una lettera come se… (Stanislavskij).
– Con gli occhi bendati toccare un indumento di un proprio compagno e cercare di stabilire al tatto l’identità della persona. (Stanislavskij).
– Cercare di seguire come un ombra il proprio compagno in tutte le sue azioni. (Lecocque)
– Cantare mentalmente una canzone poi ad un cenno dell’insegnante cantarla ad alta voce. Ad un nuovo cenno riprendete a cantarla mentalmente. Lo stesso può essere fatto con una battuta.
– Chiedere all’insegnante il permesso di uscire prima della fine della lezione poi rifarlo con: malizia/ gioia/ disperazione/ piacere/ apatia / ironia.
– Seguendo il tempo di un metronomo posare dei piccoli oggetti su di un vassoio. Poi camminare con il vassoio in mano a ritmo del metronomo e posare via via i singoli oggetti. (Stanislavskij sul ritmo).
– La mano passa dietro la testa e si alza in verticale. Prima una poi l’altra, ritmicamente, cercando di massimizzare. Non nuotare a crawl. Può divenire un saluto mimico. Le braccia in alto (inspirazione) calano verso il basso (espirazione udibile). In un secondo tempo cercare l’aderenza con il mare. (Lecocque)
– Fare camminare qualcuno. Nessuno cammina bene. Si cammina in avanti, all’indietro, seduti, rigidi, con grandi passi da “montagnard”, con eccessivo trasporto all’attitudine, alla Pierre Chardin, con propensione di testa. Con i piedi all’esterno (marcia larga). Con i piedi all’interno (marcia timida). Charlot diviso in due: largo sotto e stretto sopra. (Lecocque)
– Il gondoliere (esempio di azione mimata in cui azioni fisiche tracciano circuiti fisici nei quali si innestano delle emozioni che nulla hanno a che fare con il vogare del gondoliere. Prendere il remo e portarlo in alto. Disequilibrio verso destra (o sinistra) a cercare la massima possibilità. Poi la barca va e il remo tocca il fondo. L’azione è ora al centro del corpo. La barca prosegue e si è dall’altra parte, a sinistra (o a destra se si è cominciato a sinistra). Ora le due mani spingono il remo ancor più giù nell’acqua, allontanandosi dal corpo verso il basso, come schifati da qualcuno che si getta via da noi, e/o in basso, poi lo si riprende e l’azione inizia da capo con il disequilibrio in alto verso destra (o verso sinistra). (Lecocque)
– Due persone si incrociano. Questo basta a produrre una relazione drammatica e il teatro! Teatro nel quale si mettono a nudo tutti i complessi dell’individuo. Recitare è ricevere dall’altro e reagire. Reagire a qualcuno, a qualcosa. Occorre evitare la pantomima con la quale si usano i gesti al posto delle parole, per illustrarle. Bisogna cercare qualcosa di molto più sensibile e di non intellettuale, di non pensato. L’importante è creare dei punti fissi, essere dei punti fissi perchè gli altri possano recitare, reagire a noi, e noi a nostra volta reagire agli altri. Evitare l’effetto zuppa. Ricerca e bisogno dell’immobilità’. Immobilità che fa recitare l’altro. L’importante è l’altro. Dopo i primi due entra in scena una terza persona, poi una quarta, una quinta, l’ennesima…
– La sala d’attesa. Il silenzio dell’attesa. Il mondo del silenzio è un mondo formidabile. Due sedie vicine una di lato, o tre sedie unite. Fare attenzione al timing, al tempo d’entrata (gong del regista a chi entra troppo tardi). E’ l’azione non l’atto ad essere importante. E’ la situazione che crea i disequilibri e gli equilibri. Il salutare: esempio del mobilizzare il vuoto. Guardare l’orologio è invece esplicativo ed è un deprecabile stato drammatico pantomimico.
– Scivolare con le braccia aperte da una parte all’altra del palcoscenico senza muovere la testa. Tenendola alla stessa altezza dal suolo. Immobile. Poi fare lo stesso manovrandosi con le mani. Palmo in verticale al pavimento; quello di destra poi quello di sinistra, poi entrambi. Senza espressione del viso e senza ballare.
– Ancora della maschera del neutro o per meglio dire della calma. Non ha un nome quotidiano, è uno spazio nebuloso, non ha un passato. Quando si lavora con la maschera la prima cosa è la perdita degli occhi. E’ la maschera che ora rappresenta gli occhi.
– Ancora sugli esercizi con la maschera neutra. Da terra, cercando una posizione facile per rialzarsi, ovvero evitando posizioni fetali, da Saint Tropez e simili/ Dorme/ si sveglia/ cerca di penetrare nello spazio tenebroso/ va verso il mare, verso l’orizzonte/ lancia sassi nel mare. La maschera non ha bisogno di guardare, cercare i sassi. Il sasso, la pietra è la dove vuoi che sia. La maschera, in questa ed in mille altre occasioni, contiene in sè poesia. Il viso è assente. Il corpo assume maggior importanza. Il pubblico ora guarda il corpo mentre di solito guarda il viso, così come avviene nella vita. Provare per credere togliendo le maschere agli attori che le indossano. La maschera sviluppa nell’attore la possibilità di ricevere dall’esterno. Sviluppa la capacità di recitare.
– L’albero: piantare i piedi nel terreno. bloccare il tronco, tendere le mani in alto, oscillare.
– Massaggiare il partner/Articolazione sbloccata del polso/Concedere una stimolazione: dietro, davanti, ovunque/Compiere rotazioni col polso./ Vivacità del massaggio/Per ultimo massaggiare i piedi/ Essere disposti a ricevere/Svegliare tutto! Seduti di schiena/ Cosce vicine/ Gambe ordinate/ Una dà, l’altra accoglie/ Restare aderenti col bacino alla schiena dell’altro/ Quattro tempi per salire/ Ottenere l’aderenza dal tratto lombare/ Non spinte secche ma pressioni elastiche/ Mantengo e regalo!/ Mi aiuto coi piedi e con mani a salire e riparto/ Lavoro di ascolto sulla respirazione/ La respirazione dell’altro diventa mia/ Dare peso al terreno per salire.
– Il suolo/ Peso, aderisco, sprofondo/ Concedersi totalmente al terreno/ Tenere le mani in alto, a terra/ Il primo impulso dal bacino alle anche/ Ruotare, girare su di sè/ Veloci!/ Senza perdere tono nel corpo/ Poi, la stessa rotazione a terra, a coppie. Srotolo – scendo (espirazione). Rotolo, salgo (inspirazione)/ Immaginarsi una corda alla quale appoggiarsi in quattro tempi. Da seduti cercare di salire senza appoggio delle braccia/ sto per… /prima a destra poi a sinistra.
– Parte il capo, tutti lo seguono. Dritto, a destra, a sinistra, a sinistra, a destra, dritto.
– Con il maestro di fronte camminare, fare qualcosa, uscire. Andando verso di lui. Senza pensare.
– Il lavoro del non appariscente. L’attore Kabuki Sawamura Sojuro Kanze citato da E. Barba diceva di sé che suo padre non gli diceva mai di usare più energia insegnandogli semmai di che si trattasse facendolo camminare mentre lui lo tratteneva per le anche. Per vincere la resistenza il torso sarebbe stato costretto a piegarsi leggermente in avanti, le ginocchia si flettono, i piedi premono sul terreno e strisciano piuttosto che alzarsi in un passo normale: un modo artigianale per ottenere la camminata di base del No.”, ovvero dell’energia come risultato di forze contrapposte.
– Tirare a sè qualcuno che tira a sua volta. Lo stesso verso l’alto e verso il basso.
– La tecnica della “miniaturizzazione” con la quale Mejerchol’d nell’Ispettore di Gogol sistemò i trenta e più personaggi su una piattaforma di dimensioni ridotte (4m x 5m) con una pendenza tale che era difficile tenersi in equilibrio.
– Ancora dagli esercizi di Michail Cechov: Aprirsi! Chiudersi! Distensione a destra e a sinistra! Fare un movimento ritmico, come il fabbro che batte col martello sull’incudine. Gettare un oggetto, sollevandolo da terra, tenendolo sospeso sopra la testa, trascinandolo, spingendolo, lanciandolo. Fare in modo sempre che il movimento sia originato dal tronco, dal petto e non dagli arti e ancora: creare forme definite. Fare una pausa dopo ogni movimento. Cambiare ritmo al movimento.
– Utile per iniziare le sedute di prove compositive, nelle quali si aggredisce il testo per trovare idee utili in sede di montaggio è il partire dal caos brechtiano Far muovere gli attori da una indeterminazione mobile totale. Questo stato di voluto subbuglio permette alle idee di moltiplicarsi in mille tentativi, punti di vista, fino al paradosso. E’ il momento di fare guerra a tutto quel che si sa. La fase successiva sarà invece quella del lavoro di associazione e di sintesi. Brecht diceva del regista che il regista per l’appunto non desidera realizzare un’idea. Il suo compito è suscitare e organizzare il rendimento degli attori. Egli deve scatenare delle crisi e non lasciarsi inibire dal timore di confessare che non ha già bell’e pronta la soluzione giusta. Egli deve sollevare dubbi, problemi, proporre una quantità di possibili punti di vista, di confronti, ricordi, esperienze. Deve organizzare l’atteggiamento stupito degli attori. L’attore Bunge su Brecht ricordava come il drammaturgo tedesco creasse il solito caos e come da quella stessa confusione il più delle volte uscisse qualcosa di nuovo.
– Evitare titoli e temi astratti! Evitare i movimenti che partono dalle articolazioni! Combinazione e selezione delle azioni! Cantare lo spazio! La voce si allarga sino a giungere al muro e poi ritorna. Striscia sul pavimento, si arrampica sino al soffitto, esce dallo stomaco/bocca, dalla nuca/bocca, dalla pelle/bocca, dal corpo/bocca, dal viso/bocca. Viene trattenuta sino al bisbiglio. Fino a dialogare con semplici azioni vocali. Senza voler esprimere qualcosa. Recitare è reagire a qualcosa! Scegliere un oggetto e trovate quattro modi per usarlo. L’oggetto parla, agisce) e ha da essere ascoltato, reagendogli. Negare le definizioni del regista creandone di vostre! Fare degli scherzi insieme (Jacques Copeau).
– Produrre il procedimento di rigenerazione degli gli attori su di un testo da loro già conosciuto per evitare che, tenendo il testo, essi perdano la scena, per far si che lo vivano di nuovo in maniera fresca, originale, convincente, ex novo. (Louis Jouvet)
– Un attore insegna ad un altro a fare qualcosa. Il gioco delle definizioni richiede all’attore di definire qualcosa coi gesti e con le parole. Ciò svilupperà la “parlantina”, ovvero, le capacità classificatorie e a “nomare” dell’attore. Gli consentirà di pervenire ad un formulario di concetti, idee, immagini: ad un armamentario di “frasi fatte” e interiorizzate come avveniva per i comici dell’arte: all’improvviso.
– Generare il punto di partenza: da ottenersi con il silenzio e la calma in se stessi. L’esercizio concreto prevede di partire dall’immobilità assoluta per arrivare all’immobilità drammatica, alla posizione da “tenere”. L’attore del resto fa sempre troppi gesti, quando in realtà un attore immobile e in silenzio, che pensi e che senta, impressiona il pubblico per la sua sola presenza, senza dover necessariamente esteriorizzare il pensiero con smorfie e gesticolazioni varie.
– Far leggere i testi senza affettazione, senza intonazione. Espirare. Sincerità, spontaneità del grande attore, sua purezza, prima e senza i tanti, troppi, atletismi di moda. Leggere senza ascoltarsi. E poi, affinando la lettura, alla seconda, alla terza: iniziare ad ascoltarsi e a giocare con la propria voce. Le mani: aperte e chiuse, presa forte e lieve, l’uso separato delle dita.
– Ancora sui piedi. Camminare su superfici differenti: piane, ascendenti, discendenti, accidentate, dure, elastiche curve, a scale, ecc. L’angolazione del passo, i suoi gradi di intensità: pesante e leggero, rapido o lento, silenzioso o rumoroso.
– L’ingresso della musica alle prove: dall’azione ginnica all’espressione parlata, esclamata, cantata, dei cori, dei canoni, dei giochi danzati e cantati, del canto gregoriano.
– Fare raccontare storie, cronache, leggende, ricordi, un incidente al quale si è assistito. (B.Brecht)
– Lavorare sulle tendenze melodiche delle frasi: tragica/verso il basso, comica/verso l’alto, in accordo maggiore, in accordo minore, in modo legato, in modo spezzato, in maniera scorrevole, in maniera discontinua. (Mejerchol’d)
– Il gioco del botta e risposta, ovvero dell’inventar frasi, dialoghi, battute all’improvviso. Ciò aumenta gli stereotipi linguistici, le frasi fatte, un vero e proprio vocabolario, un prontuario per l’attore. Un po’ come avveniva per il comico dell’arte, buono per tutte le situazioni tipo. (Mejerchol’d)
– Provare gli ingressi e le uscite dei personaggi in vista al pubblico: l’attore cioè si muove dal proprio camerino, dalla propria postazione a lato del palco verso la scena entrando nel personaggio davanti agli occhi del pubblico. Ciò consente di marcare l’effetto di straniamento. (Mejerchol’d)
– L’”emploi” e il dare una “visione inattesa” che giochi sul contrasto tra attore e personaggio. Comico per tragico, flebile per forte, veemente per insicuro, ecc. Anche questo marca una distanza tra l’attore e il personaggio.
– Giocare agli uomini mascherati girati di schiena come a sottolineare la teatralità di questa situazione di per sè extraquotidiana come poche altre.
– Esercizi di composizione futurista, intervenendo sulla dimensione grafica di parole, segni matematici, grandezze fisiche e quant’altro. Gli allievi elaborino sottotesti scritti utilizzando le tecniche marinettiane e li restituiscano con parallelismi nell’uso dei risuonatori vocali, del tono, del timbro, dell’altezza della voce e o del gesto. Se ad esempio s’ingrandisce una parola nel testo scritto, detta parola dovrà essere pronunziata con un volume di voce maggiore, o con un particolare timbro, o con un ‘allargamento’ del viso e del corpo. Il tutto rispettando rapporti di tipo logico matematico che individualmente si deve iniziare ad impostare. Insomma, qualcosa di simile ad una scrittura musicale su spazi e righe.
– Far propria a tecnica, altrimenti nota come ‘zaum’, praticata dai cubo-futuristi russi.

(4-CONTINUA)