di Francesca Micheletti
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[Come spiegato da Babsi Jones, l’intervista realizzata da Francesca Micheletti è stata ‘pubblicata’ su PeaceReporter in versione notevolmente ridotta; questa che proponiamo è l’intervista integrale.]

Sei una dei pochi, pochissimi, a interessarsi di Balcani fin da giovanissima. Un interesse che potrebbe trovare spiegazione in "Padre", preghiera personale-familiare che dipinge le origini un viscerale legame con questa terra. Specificando meglio, da cosa nasce questo interesse, come si sviluppa, e come spieghi invece il disinteresse con conseguente ignoranza della maggior parte dei giovani, e non?

Non credo che l’ossessione per la ex-Jugoslavia nasca da mio padre, sebbene abbia origini tzigane e — forse inconsciamente  — possa avermi trasmesso la malìa.


In realtà "Padre" è una preghiera semilaica, un kaddish irriverente e sincopato, si sente Ginsberg che riecheggia, ed è scritto mentre mio padre era in chemioterapia e io partivo per l’ennesima volta verso la Serbia. Il mio amore per i Balcani nasce, come vuole una storiella che ormai è leggenda, incontrando Emir Kusturica, ma si tratta solo di un’occasione; amo la ex-Jugoslavia perché è un luogo contraddittorio, complesso, di una densità culturale e storica unica. Credo sia questa la ragione per cui moltissimi, e non solo fra i giovanissimi, non gradiscono il mondo jugoslavo né gli si avvicinano: viviamo in un’epoca in cui la complessità, la densità, la contraddittorietà spaventano. 

Nei tuoi racconti traspare molta violenza. La guerra è sempre presente, diretta o evocata, come un trauma mai superato. Secondo te è stato dimenticato tutto troppo in fretta? Qual è l’aspetto "dimenticato", del passato o anche del presente, che più ti preme sottolineare?

Per cominciare, la guerra è un trauma non superato e non superabile: ho cominciato a parlare di Post Traumatic Stress Disorder Syndrome nelle ultime settimane in rete, quando mi sono accorta che alcuni confondono una caduta dalle scale o una forte congiuntivite con un trienno a Saigon, equiparandoli; c’è una forma di rimozione della guerra che alcuni occultano dandole il nome di "pacifismo", ma è un pacifismo cieco, un pacifismo da anime belle, non è un’etica di non violenza: è, in questo caso, solo la cecità di chi non vuol prendere atto che la guerra c’è, dura, persiste, che non cessa. Ne parla Hillman in un saggio ("A terribile love of war") assai poco "politically correct", bollato come illeggibile e che molti invece farebbero bene a leggere. E’ un essay che non si schiera a favore della guerra né la legittima; piuttosto la spiega, mette il lettore davanti alla banalità del male, lo riporta sulla terra, fuori dal tubo catodico di veline e televendite. Spiega che esiste un pacifismo "dell’ignoranza travestita da innocenza", e ci mette in guardia. La guerra c’è anche se non accade sotto i nostri balconi, questo è il monito di Hillman. Lo storico Will Durant ha calcolato che — in tutta la sua storia — l’umanità ha conosciuto soltanto ventinove anni senza guerre. Ventinove anni in millenni: che pace è? La guerra è ovunque, ne sono infestati i cinque continenti; non è necessario che vi siano trincee e carri armati per definire uno "stato di guerra"; Enzensberger sostiene, e a ragione, che ogni vagone della metropolitana di una qualsiasi città europea è a un passo dal trasformarsi in una piccola Bosnia. La guerra è nella terra impunturata di mine antiuomo, è nel ricorso al nucleare che torna come uno zombie che credevamo di aver lasciato nella seconda metà del ‘900, è nelle bustine di zucchero con il volto di Hitler che la scorsa settimana appaiono in certi bar in Croazia; è nell’invito, sempre più pressante, a lasciar correre, a non far caso; la guerra è a Vicenza, così come è stata a Genova in Piazza Alimonda; sotto la sottile crosta di una pace artefatta il pus del conflitto fermenta, si conserva. Dell’Iraq crediamo di sapere tutto, l’infotainment ci tiene falsamente aggiornati, ma quanti di noi sanno da quante e quali guerre è devastata l’Africa, quanti conflitti civili mandano in frantumi l’Asia? L’America, che ancora non ha superato emotivamente il Vietnam, ricorre ai suoi trucchetti triviali per nascondere le sue body bags; noi ricorriamo alla banale indifferenza: "se non accade dentro il mio salotto non è affar mio". Questo è l’aspetto che più mi preme sottolineare: la mia è una scrittura che non cessa di indicare la guerra, di additarla, che non cessa di narrarla, anche quando racconto di musica rock o di oncologia: è necessario che la guerra resti sempre, come dici tu, evocata. Un rumore di fondo fastidioso, irritante, che sfibra, che non dà tregua. Del resto, questa pace non mi interessa, non la riconosco come "pace"; condivido le parole di Margherite Duras pronunciate nel ’45: "….Già si intravede la pace, cioè l’inizio dell’oblio." Io, finché ne ho facoltà, non dimentico.

Quando si parla della questione balcanica si apre una voragine interpretativa in cui è difficile trovare il bianco e il nero. Secondo te l’Occidente ha avuto fretta di distribuire colpe e ragioni? Da esperta della regione, qual è secondo te, l’ottica migliore con cui affrontare la questione? Ovvero la meno ipocrita e la più equilibrata? Quanto ha pesato nell’opinione che oggi abbiamo dei Balcani l’atteggiamento dei nostri media?

Semplicismo, semplificare: tutto deve essere digerito in fretta, in fretta scaraventato nelle discariche — viviamo nel mondo di Mac Donald’s e il nostro è ormai un fast thinking come il cibo che ci propinano è un fast food. Si chiama anche "junk food", cibo spazzatura, e non faccio fatica a definire il nostro modo di accostarci alle grandi domande e ai grandi dubbi come a quello di "pensatori-spazzatura". Distribuiamo colpe e ragioni con la stessa approssimazione e fatuità con cui a scuola si tracciava sulla lavagna una riga per stabilire chi fosse buono e chi cattivo; nozioni che richiederebbero anni di studi e di interrogativi, che richiederebbero la sopportazione dell’incertezza e dell’imprevedibile, del non ovvio, che imporrebbero la conoscenza dell’altro, vengono invece elaborate in tre sedute ONU, una risoluzioncina e via, verso nuove avventure. Nella questione jugoslava abbiamo sbagliato tutto quel che era possibile sbagliare: vuoi per questa faciloneria di cui sopra, vuoi perché badavamo ai nostri interessi e non a loro, che sono i parenti poveri e scomodi, i "barbari incomprensibili" da cui accomiatarsi in fretta. In una regione come quella slava del sud, cioè jugo-slava, che ha una percezione assai diversa della vita e della morte, della storia, dell’identità, di concetti basilari come quello di "patria" e di "nazione" non c’è un modo equilibrato per risolvere, per sanare, per costruire; ci vuole la volontà di andare fino in fondo, e di andarci senza ipocrisia; bisogna mettersi in gioco, e giocare pulito. Questa volontà, questa sincerità non c’è mai stata, in Occidente, né da parte delle istituzioni né da parte dei cosiddetti "intellettuali" che hanno maneggiato la questione — fatto salvo Peter Handke, che da anni ripete quello che io ho solo cominciato a dire.

In "Storia di ferragosto (al muro)" sembra che la guerra si rifletta violentemente dentro l’individuo, nel suo corpo, nella sua psiche e nella sua gestualità. Si incentra sui riflessi intimi, individuali del conflitto. Credi che far entrare la guerra "fisicamente" nell’intimo dell’individuo, evocandola anche attraverso sensazioni fisiche, sia un buon modo per trasmetterne gli orrori? È questo uno dei tuoi scopi quando scrivi?

Stavo leggendo di recente "Sulla malattia", il saggio in cui un’arguta Virginia Woolf, nel 1926 (!) si domanda come mai, pur essendo tanto diffusa, la malattia non abbia trovato voci letterarie. "Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza", scrive la Woolf, "poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti." E invece non è così. Io sono una di quelle voci se vuoi monotone, salmodianti, che vanno a investigare i lati oscuri, gli angoli infetti, le piaghe; mi piace, questa esegesi dell’infimo, ne ho bisogno. Un’eziologia generale, dell’umana specie, o una patogenesi universale sono impraticabili, sono un gesto vano, un narrare che procede verso il bello stile e la prosopopea, ma non è il mio, non è quel che cerco io; io voglio il fermo-immagine, la fotografia scattata in macro, lo studio al microscopio; ricollocando il dolore, il disagio, la paura, l’orrore in un singolo corpo, nei suoi dettagli così infimi eppure così orridi, mi avvicino a quel che intendo io per "verità". Che non ha esattamente a che fare con la Morale, l’Etica o banalmente con la veridicità: ha a che fare con la domanda "chi sono io?"…

…Quanto allo scopo della mia scrittura, sarebbe tranquillizzante, per me, riuscire a mettere in relazione con tanta abilità "scopo e scrittura"; io scrivo perché se non scrivo muoio. E’ un’urgenza, è un atto disperato di difesa. Cito Pavese: ho imparato a scrivere, non a vivere. Ecco, io ho forse imparato a scrivere, ci ho provato, e di certo ho avuto il bisogno assoluto, imperativo, di scrivermi, di ricostruirmi in parole. Non riesco a concepire la vita sottratta alla scrittura. La scrittura mi ha insegnato a sopravvivere.

C’è in fondo un intento "didattico" nei tuoi scritti? Una volontà di rompere l’indifferenza e l’oblio verso la questione balcanica?

No, non parlerei di intento didattico. C’è stato, forse, in tempi remoti, quando ero più ingenua, più naif. Invecchiando, imparando a scrivere, misurando il feedback di chi legge il mio blog o i miei racconti pubblicati mi sono accorta che la scrittura insegna solo a chi è già sulla strada per capire da sé, per porsi le domande essenziali; siamo in overdose di narrativa, di drammaturgia, di blogging, di informazione: se la scrittura ha mai avuto un potere, lo ha perduto in questo horror pleni, e casomai dovremmo incominciare a chiederci che fare per porre rimedio, per spalancare altri varchi. Io mi accontento di inoculare un dubbio, di creare microfratture, di sottolineare crepe e tagli con un evidenziatore, di far deragliare per un nanosecondo l’immaginario del lettore. Mi accontento, ovvero ci provo: raramente mi riesce, e accetto la beckettiana sconfitta. Scrivere per me è anche una continua accettazione della sconfitta.

Qual è infine, la tua opinione sulla situazione attuale di quell’area d’Europa? Ferite cicatrizzate, ferite ancora aperte? Rischio di nuovi scontri?

Ferite cicatrizzate male, e parecchie ferite ancora aperte, certamente. Rischio di nuovi scontri, anche. L’analisi richiederebbe pagine e pagine; se debbo darti una risposta succinta e diretta, forse scomoda, la pace nelle nuove Repubbliche ex-jugoslave passa per la questione del Kosovo: allo stato attuale è un piccolo narcostato che pretende la secessione e la pretende in modo brutale — basti pensare al pogrom del 2004, totalmente ignorato dai mass media occidentali, che ha di fatto legittimato la pulizia etnica di tutto quello che non è albanese. Se le istituzioni incaricate di gestire il problema-Kosovo continueranno a restar sorde agli appelli di Belgrado, alle proposte costruttive di Belgrado, se continueranno a considerare i serbi "interlocutori non credibili", come da sempre fanno per propaganda e per convenienza, l’area balcanica si troverà nuovamente destabilizzata. Forse è quello che i poteri forti desiderano. In Kosovo, dopotutto, è stata innalzata la più grande base militare americana dai tempi del Vietnam… Un porto franco, una zona scura che ospiti traffico d’armi, di droga e di uomini fa comodo a tutti, tranne alle migliaia di profughi e di desaparecidos di etnia "non conforme", naturalmente…

D: Si può avere qualche anticipazione sul "quasiromanzo" che uscirà in autunno? Si tratta di un racconto realistico o dai toni surreali? Qual è il tema centrale, e la tecnica scelta da te per "narrare l’inenarrabile", come ho letto in una recente critica?

R: La tecnica è lo sfondamento dei generi, l’ibridazione e la contaminazione, ma è una tecnica involontaria; io sono self-taught, ho imparato il gioco giocando, ho imparato a scrivere scrivendo: drammaturgia, poesia, linguaggio di rete, linguaggio di strada, taglio da cronista, narrativa, saggistica: io ho appreso tutto questo in modo tossico, stralunato, tachicardico. William Burroughs coniò il termine "faction", ibridando fact (fatto reale) e fiction (narrativa, invenzione). Ecco, "Sappiano le mie parole di sangue" è faction; del resto, mi riesce difficile separare il sur-reale dal real-istico, anche nella vita quotidiana: li percepisco in continua sovrapposizione. Lo chiamo quasiromanzo proprio per non intrufolarmi in una categoria a cui non appartengo: non sono un narratore puro, né un poeta puro, né un drammaturgo puro, né un cronista puro. Sono tutto questo miscelato, e sono tremendamente impura. Il libro esce a settembre per i tipi di Rizzoli, nella collana 24/7: è ambientato a Mitrovica ma potrebbe essere Sarajevo o Beirut o Kabul, le protagoniste sono quattro donne, e fra loro transitano, come schegge impazzite, lo spettro di Tito e il padre di Amleto, Syd Barrett e le truppe naziste di Pavelić. Il resto lo si scopre leggendolo.