di Michele Corleone

ManoSinistra.jpgPaolo Roversi, La mano sinistra del diavolo, Ugo Mursia editore, 2006, pp. 312, € 15,00

La mano sinistra del diavolo è la seconda incursione nella narrativa di genere noir dello scrittore suzzarese, ma milanese d’adozione, Paolo Roversi, dopo Blue Tango uscito per Stampalternativa nel 2006.
Ai consueti contenuti di natura sociale si affianca adesso il tema della memoria che da un tempo lontano ritorna inesorabile, avvolgendo l’intreccio del noir in un’aura di emozioni e inquietante mistero: il ritrovamento di un arto mozzato che cosa potrebbe mai avere a che fare con il funerale di un vecchio partigiano che apre il romanzo?

Lungo il tema storico si dilata dunque uno spaccato di vita moderna, da un lato la Milano metropolitana, tra omicidi e indagini di polizia, e dall’altro, la vita di un paesino immaginario, Capo di Ponte Emilia, un luogo di confine e di memorie sepolte troppo in fretta, un non luogo senza tempo per una serie di episodi di cronaca nera che attirano la curiosità del protagonista, il giornalista freelance Enrico Radeschi. Radeschi è per Roversi una sorta di alter ego, cronista di nera e hacker per necessità, trovatosi nel bel mezzo di una doppia inchiesta, al limite di due mondi, tra la metropoli milanese e un paesino di provincia, Capo di Ponte Emilia. A fargli da contrappeso nell’intreccio due interlocutori in divisa: l’amico vicequestore Sebastiani e una nuova conoscenza, il maresciallo dei carabinieri Boskovic che, procedendo in parallelo, districano e persino finiscono per complicare questa strana storia.
Al centro del romanzo, a dare peso a una vicenda che inizia nella normalità più assoluta per discendere passo dopo passo nel mistero, c’è proprio lui, il cronista di nera Radeschi, con il suo fare un po’ sentimentale, un po’ ingenuo che mette insieme nel calderone della vita i sentimenti, la passione per il mestiere, la vita privata, l’amicizia e perfino un pizzico d’infantilismo. E’ l’iconografia del freelance abituato ad accettare le sfide e ad incassare gli smacchi, senza mai perdere lo sguardo disincantato e per niente cinico sul reale.
Capo di Ponte Emilia, il piccolo paese (inventato) della Bassa Padana dove il tempo scivola lento e si plasma al ritmo tranquillo della provincia è l’altro inequivocabile e silente protagonista di questa storia. L’estate resta appiccicata addosso a questo buco di mondo sul Po quando inizia, quasi come d’incanto, una misteriosa serie d’omicidi con annessi alcuni macabri ritrovamenti di membra umane che gettano il luogo nell’incubo di un serial killer. L’eco degli eventi si espande a macchia d’olio attirando l’attenzione della stampa annoiata dal sole estivo e trascinano Radeschi, nativo per l’appunto di Capo di Ponte Emilia, in un’avventura attraverso le strade dell’entroterra paesano e della memoria.
La mano sinistra del diavolo come una nemesi si abbatte sul destino degli uomini, raccontando storie d’uomini, storie di vendetta e passione, storie che chiamano da molto lontano. L’indagine giornalistica e investigativa segue alternativamente i ritmi delle notti metropolitane di una Milano che “solo in quelle ore sembrava una città come tutte le altre…poco traffico, rumori ridotti al minimo e aria quasi respirabile”, e delle pacate e riflessive giornate della terra zavattiniana, aprendo e chiudendo scenari dietro i quali si celano i segreti del tempo: le violenze di oggi costrette a fare i conti con la violenza del passato. Il freelance Radeschi “il miglior segugio di disgrazie sulla piazza”, indaga nel presente e scava a fondo nel recente passato storico di un Italia mai redenta attraverso una scrittura che in Roversi unisce al ritmo frenetico dell’oggi quello rarefatto della tradizione letteraria ben radicata nel territorio. In questo senso Capo di Ponte Emilia ha davvero il dna di Suzzara, riflettendone le atmosfere nebbiose e umide, il richiamo a quel Cesare Zavattini che più di tutti ha espresso questo senso di estremo nell’essere provincia e frontiera in una volta.
La scrittura di Roversi riesce a colorirsi a tratti di una vena ironica ma la sua caratteristica è la densità a sottolineare il crescendo e la tensione intorno allo svelarsi lento e inesorabile degli avvenimenti. Un equilibrio musicale di note sincopate e ritmi distesi che mette in risalto la diversità tra le due partiture, la città accesa nelle sue luci artificiali, i locali minimalisti, i colletti bianchi con i loro ticket restaurant aziendali e le domeniche senza traffico, e dall’altra parte “una lingua di terra fertile e verde che costeggia da sotto il Po…affacciatasi all’onore dei riflettori grazie ai film in bianco e nero di don Camillo e Peppone”.
Sono due modi di essere e di vivere e di occupare lo spazio, due universi di pensiero totalmente opposti: vanno entrambi respirati e immaginati per essere compresi. Roversi li calca entrambi, scrivendo soppesa il rapporto dell’uomo con i suoi simili, del modo in cui la gente si rispecchia nel territorio, nei rituali sociali. Con la stessa duplice spinta fa sì che si evidenzino i due distinti modi di analizzare la realtà, le due forme di indagine intorno agli omicidi, la diversità nell’affrontare i casi, perché a luoghi diversi corrispondo omicidi di natura diversa.
Mentre nel paesino di Capo di Ponte Emilia gli omicidi si tingono sempre più di mistero, scatenando paure e dubbi, dall’altra parte dell’universo del racconto, a Milano, la metropoli dell’intreccio parallelo, i fatti s’interpolano tra delitti, sparizioni e scoperte di cadaveri, con un non so che di consueto, pronto per essere digerito in tutta fretta, senza che gli avvenimenti cambino per nulla il ritmo della vita, se non per una serranda abbassata in un ristorante giapponese.
Con questo romanzo Paolo Roversi affronta contemporaneamente le due classiche ambientazioni del genere noir. Se il suo precedente Blue Tango, che aveva dato vita ai protagonisti Radeschi e Sebastiani, era ambientato nel tessuto sociale della città, con La mano sinistra del diavolo Roversi genera il punto di sutura con la provincia unendo in un unico filo rosso le due serie di omicidi attraverso la figura di Radeschi stesso che si trova coinvolto sia nell’indagine a Capo di Ponte Emilia, come cronista, che a Milano, in veste di consulente “per forza” e per dovere della “spalla” Sebastiani. Ma in fondo i delitti, efferati in provincia come in città, hanno in comune sempre la medesima solitudine dell’individuo.
Una notizia, sepolta nell’oblio della storia, si ripresenta adesso sotto forma di intrattenimento di mezza estate, di una cronaca tanto più nera quanto più le pagine dei giornali si fanno avide di notizie da “vendere” sotto l’ombrellone e per questo la stampa finisce per perdere l’essenza delle cose tanto è che “la ricerca della memoria era stata messa da parte a beneficio dell’attualità”.
Sulla carta Roversi sa condurre il lettore per prima cosa a camminare per i luoghi della provincia e a respirare il tono delle notti di una Milano da cliché, tanto è realistica, ma il percorso vero che il lettore si trova a compiere è molto più spinoso e inquietante. Apre degli squarci su storie che appartengono a tutti e che non passano mai, tutt’al più mutano in altre forme. La genialità di questo noir è racchiusa anche in questo tocco magistrale che rituffa la storia passata nel mondo presente con un sentimento di vendetta che ha il sapore di una giustizia antica. Oltre “la mano sinistra del diavolo” c’è tutta una comunità umana che ha vissuto per lungo tempo obliando il passato e che continua a vivere fagocitando e triturando il presente.
Su questo legame ideale di sbagli umani e di storie di vite spezzate, Roversi collega la memoria che riemerge con le passioni violente dell’oggi. In questo senso non importa tanto il “chi è l’assassino” quanto il perché delle cose: “In quella terra di pazzi tutti avevano un soprannome: tu non ti preoccupi del perché; li chiami così e basta”.