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Il mondo conosciuto dai Greci nell'età arcaica e i viaggi di Odisseo secondo l'antica tradizione. Clicca per ingrandiredi Wu Ming 1 e Wu Ming 2

[Questo è il terzo articolo di una serie dedicata alla complessità dell’odierna popular culture, alle narrazioni trans-mediali e alle dinamiche di creazione collettiva nell’epoca della Rete.
Il primo testo, scritto da WM1, è apparso su L’Unità il 31/12/2006 ed è stato riproposto su Carmilla con il titolo
Stephen, Lisey e la complessità pop;
il secondo, scritto da WM2, è uscito sullo stesso quotidiano il 13/01 scorso ed è stato riproposto su Giap n.6, VIIIa serie, con il titolo
Create nuovi mondi e nutrirete il cervello;
quello che segue, scritto a quattro mani da 1 & 2, è uscito su L’Unità di ieri, 28/01, con il titolo “Crescete in Rete e moltiplicatevi”, integrato da un articolo di Renato Pallavicini sulla continuity nel mondo epico e mitologico dei supereroi.]

Se gettiamo uno sguardo ai rapporti tra narrazione e patrimonio mitologico nella Grecia antica dall’invasione dorica all’età classica (suppergiù dal XII al IV secolo a.C.), vediamo che il mito ha un carattere plurale e policentrico. La versione più celebre di ciascun episodio coesiste e s’incrocia con tante versioni alternative, sviluppatesi ciascuna in una delle molte comunità del mondo greco, cantate e tramandate dagli aedi locali. Aedi che non sono una casta chiusa, a differenza di quanto avviene nelle civiltà più a Oriente: i rapsodi greci non sono detentori esclusivi della facoltà di raccontare e tramandare, né selezionatori – autorizzati da un potere centrale – delle versioni “ufficiali” di ciascuna storia. La civiltà che si riorganizza dopo il crollo del mondo miceneo è (letteralmente) un arcipelago di città-stato, il potere è frammentato e non può garantire l’unitarietà del sapere né condensare l’immaginario a proprio uso e consumo. Le storie iniziano a cambiare e divergere, a diramarsi e intrecciarsi.

Per questo la mitologia greca ha una sola koiné ma “sparse membra”, cosa che non accade in altre tradizioni. C’è un nucleo centrale in buona parte condiviso (macro-eventi come la Titanomachia, la Gigantomachia, l’impresa degli Argonauti e la Guerra di Troia), e poi una nube di diramazioni, fastelli di vicende intersecate. Mille soluzioni di continuità perturbano l’andamento delle storie, sovente troviamo gli stessi dèi e semidei in luoghi e tempi incompatibili tra loro.
In diversi filoni narrativi, nel medesimo periodo in cui si impegna nelle dodici fatiche, Eracle trova il tempo di compiere altre imprese: combatte contro i Centauri, libera Prometeo, ha un corpo-a-corpo con Ares, uccide Busiride etc. Queste avventure sono ancora collocabili negli spazi tra una fatica e l’altra, in modo da salvaguardare una coerenza, ma ci sono pervenute anche storie incollocabili, come la partecipazione alla spedizione degli Argonauti o la sepoltura di Icaro caduto dal cielo. Eracle è protagonista di decine e decine di peripezie divergenti o innestate a forza sul corpo centrale della sua storia. Ciò testimonia la sua grande popolarità in un mondo plurale e diversificato.

Eracle combatte contro un'Amazzone (nona fatica)

Questo è solo uno degli esempi possibili: quasi ogni personaggio dei miti greci (e sono migliaia) si muove in un grande gioco di rimandi. Inoltre, dall’Iliade partiva un grande ciclo epico oggi perduto: oltre all’Odissea esistevano altri nòstoi (poemi sui ritorni degli eroi da Troia). Dèi dell’Olimpo e reduci di Ilio erano protagonisti di tanti altri episodi, che con ogni probabilità incrociavano e perturbavano altre storie.
Già così, i dizionari di mitologia classica sono vorticosi ipertesti, ed è forse la più importante eredità lasciataci dagli aedi: un precedente che aiuta ad allontanare e capire meglio l’odierno transmedia storytelling alimentato dalla Rete.

Lo scrittore Giuseppe Genna incita spesso i suoi colleghi – almeno quelli che sente più vicini alla sua sensibilità – a considerare le loro narrazioni nòstoi di un grande ciclo epico potenziale, unico e molteplice, coerente e divagante.
Molto bene, bella proposta, ma perché? Perché dovremmo riprodurre il modello omerico – tipico della cultura orale – in un’epoca digitale fatta di schermi, fibre ottiche e gigabytes? Chi ce lo fa fare?
Prima di tutto, i lettori. L’età della partecipazione, sostenuta da Internet, sta modificando il DNA del consumatore. Al cospetto di un prodotto, non siamo più una semplice risposta binaria comprare / non comprare. Possiamo far esistere la nostra opinione, grazie a un formato stabile (scripta manent) e accessibile.
Negli ultimi cinquant’anni la televisione ci ha combinato un brutto scherzo, dandoci a bere che il pubblico di massa è passivo per definizione e solo una nicchia può essere creativa. Al contrario, oggi sempre più lettori sperimentano l’interazione con un testo e con chi lo produce, fenomeno sinora ristretto ai fan di certi generi letterari, la fantascienza sopra ogni altro.

Eppure, l’introduzione in letteratura di un modello omerico e partecipativo procede con più fatica che in altri campi. John Tulloch, un ricercatore inglese, ha intervistato per oltre un decennio due distinti gruppi di patiti – quelli di Star Trek e quelli di Cechov – con domande sui personaggi delle due narrazioni. Le risposte dei trekker variavano moltissimo da un appassionato all’altro; quelle dei cechoviani erano uniformi, prevedibili, poco intime. Strano: la cultura popolare non era uno schiacciasassi per livellare le differenze? E la cultura alta non dovrebbe impegnare il cervello in vorticose elucubrazioni?

Worf, personaggio delle serie Star Trek The Next Generation e Star Trek Deep Space Nine

Di sicuro c’è un problema di approccio. I Classici – e più in generale la Letteratura – ci sembrano più sacri e inviolabili di una serie televisiva. Molti amano Cechov, ma nessuno di loro si comporta da fan. Nel suo saggio Highbrow/Lowbrow: The Emergence of Cultural Hierarchy in America (Harvard University Press, 1990) Lawrence Levine descrive il processo che in un secolo ha portato l’opera di Shakespeare dalle stalle alle stelle. Dall’essere cultura viva – e dunque oggetto di modifiche, riappropriazioni e riletture continue – al far parte di un museo polveroso. Da un testo che si poteva amare d’istinto a una Sacra Scrittura che solo un sacerdote può insegnarti ad apprezzare. Lo stesso si potrebbe dire per le opere di Verdi, Wagner e molti altri.
Esiste tutta una categoria di appassionati che pratica il nitpicking, ovvero fare le pulci a una fiction da un punto di vista tecnico: fisici in erba che cercano spiegazioni più realistiche per la fantascienza di Battlestar Galactica, studenti di medicina che indagano la verosimiglianza di Doctor House etc.
In letteratura accade più di rado. Forse l’approccio dipende dal contesto: siamo abituati a considerare un romanzo qualcosa di compiuto e definitivo. Un palazzo da visitare, ma non da abitare.

Se si cambia il contesto, può cambiare l’approccio. Un esempio è la mailing list di The Wondering Minstrels. Chi la amministra spedisce agli iscritti una poesia al giorno (ma valgono anche testi di canzoni, rap e simili). Chi la riceve può postare un commento – di solito legato al modo in cui i versi hanno interagito con la sua giornata – oppure inviare una poesia per l’archivio. Il risultato è una comunità che si confronta e discute, intrecciando competenze diverse, su Lorca e su Eminem, in una maniera che l’aula di un liceo non riuscirebbe a riprodurre.

Poi c’è una distorsione percettiva: i fan non ci sembrano gente seria. Sono barbari, li conosciamo da quando si andava a scuola, erano quelli che si compravano i gadget e le figurine, che conoscevano la filosofia vulcaniana ma non la prima declinazione. Erano plagiati, indottrinati, imbevuti come spugne dei loro cult, dunque un po’ scemi. Oggi sono cambiati – ma in realtà erano già diversi, la Rete ha soltanto esaltato certe caratteristiche: i fan sono critici, partecipi, creativi e vitali. E soprattutto: non sono più una nicchia. Sono la punta dell’iceberg di una sensibilità sempre più diffusa.

Se dunque noi narratori vogliamo produrre una cultura viva, dobbiamo capire questa sensibilità e incentivare scambi e interazioni. Che fare?
La prima indicazione l’abbiamo appena trovata: cambiare i contesti. Far uscire le storie dai libri, trasformarle in fumetto, cortometraggio, pagina web, lettura, concerto rock, videogioco. La tavolozza del cantastorie non è mai stata così piena di colori, perché continuare a usarne soltanto uno?
La seconda indicazione non può che essere: creare mondi, come dicevamo nel secondo articolo di questa serie. Henry Jenkins, professore del MIT e autore di Convergence Culture, sostiene che l’atteggiamento del fan è una strana alchimia tra fascino e frustrazione. La mitologia greca è così complessa anche perché al fascino delle storie principali si univa la frustrazione per dettagli non chiariti, personaggi secondari troppo sacrificati, diramazioni possibili ma appena accennate. Ebbene, un mondo nuovo affascina ma è sempre imperfetto, incompiuto, dunque genera la frustrazione benefica che spinge a integrarlo e spesso a renderlo migliore.
Poi occorre aprire la mente ai diversi contributi, per valutarli nel modo migliore. Se un appassionato di Guerre Stellari gira un suo episodio del ciclo, come deve comportarsi la Lucas Art? Deve bloccarlo? Deve lasciarlo fare purché non ci guadagni sopra? Deve decidere in base alla qualità del prodotto? O alle ricadute che potrebbe avere sul futuro della saga?
E’ anche necessario fornire il “codice sorgente”. Per interagire con una storia e partecipare alla sua narrazione, non basta leggerla nella propria lingua. Occorre un bagaglio di conoscenze, perché ogni racconto è parte di un ipertesto più vasto, fatto di nozioni ed emozioni. E’ possibile isolare un pacchetto minimo, un manuale per la co-creazione di un mondo?
Infine, si tratta di educare, fornire competenze, allenare alla trattativa, al pensiero collaborativo, all’uso della Rete. Completare la mutazione genetica: da consumatori a moltiplicatori.

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