Bild_Marquard__Odo_01-071105IT.jpgdi Odo Marquard

[Rispetto a molta filosofia tedesca,
il pensiero di Marquard
si presenta come un pensiero,
se non debole, certo leggero e
duttile. La concezione dell’imprescindibilità
delle scienze
dello spirito nella modernità,
che è anche la base dell’affinità
che Marquard individua tra
moderno e postmoderno, dà un contributo importante
alla determinazione di quest’ultimo – Gianni Vattimo]

Nella filosofia tedesca sembra
che le cose oggi stiano in questo
modo: vi sono sostenitori del
Moderno, sostenitori del Postmoderno
e poi ci sono io, dal momento
che sono sostenitore sia
del Moderno sia del Postmoderno.
E come può essere? Nell’ambito
di questa esposizione introduttiva,
farò al riguardo tre rapidissime
osservazioni: 1. Il Postmoderno non è il contrario
del Moderno; 2. Il Postmoderno è una parte del
Moderno; 3. Da dove viene il “post” del Postmoderno?

Il Postmoderno non è il contrario del
Moderno.

È la paroletta “post” a spingermi a
contrastare il concetto di “Postmoderno”. Non
credo infatti che il motivo, affermato con buone ragioni
dai sostenitori del Postmoderno, di venire “dopo” il
Moderno, ne sancisca la fine e apra a una nuova epoca.
Desidero menzionare alcune di queste ragioni, tra quelle
che anche a me stanno a cuore. Per esempio: il pensiero
ermeneutico ed estetico di contro al pensiero che vuole
controllare; la ragione osservante di contro alla ragione
del dominio; il senso del contingente di contro al senso
dei principi; la pluralizzazione di contro dell’universalizzazione;
e così via. Non penso dicevo che questi
motivi vengano “dopo” il Moderno e ne preparino la fine.
E su questo punto come su molti altri mi sembra che
Gianni Vattimo non sia proprio di tutt’altro avviso. In
ogni caso, trovo molto convincente l’argomento che
sviluppa nell’introduzione a La fine della modernità: chi
esalta il Postmoderno come il “nuovo” che abbatte e
oltrepassa il Moderno, elogia il Postmoderno come “progresso”
nei confronti del Moderno “progresso” è la
parola centrale del moderno e di conseguenza elogia il
Postmoderno in quanto particolarmente moderno e almeno
questo non sarebbe Postmoderno. Ma come deve
essere pensato il rapporto tra Postmoderno e Moderno, se
non in questo modo? Vattimo risponde ricorrendo a
Nietzsche e Heidegger: positivizza la previsione nichilistica
di Nietzsche e accetta l’ “oltrepassamento” della
filosofia del soggetto attraverso quello che definisce il
“pensiero debole”. Anch’io ho un debole per Nietzsche
e Heidegger: quasi sempre, la famiglia Marquard trascorre
le proprie vacanze invernali a Sils-Maria e grazie
al mio maestro Joachim Ritter e al mio relatore Max
Muller, posso essere considerato un nipote di Heidegger,
di cui apprezzo in modo particolare la fenomenologia
dell’ “essere-per-la-morte”. Tuttavia, rispetto a Vattimo,
inclino verso un altro tipo di risposta (ma è da dimostrare
se è davvero “altra”) che si presenta all’incirca come
segue: il Postmoderno non è il contrario del Moderno,
bensì una parte del Moderno. Con una formula approssimativa:
Razionalizzazione + Postmoderno (compensante)
= Moderno. Ma ciò deve essere spiegato.

Il Postmoderno è una parte del Moderno.
Voglio riferirmi al seguente esito storico: nel
mondo moderno i motivi “postmoderni” sorgono
contemporaneamente a quelle modernizzazioni che sono
le razionalizzazioni, sono coetanei. Vico è quasi contemporaneo
di Descartes; Rousseau è contemporaneo di
Turgot; Herder è quasi contemporaneo di Kant; Burckhardt
è quasi contemporaneo di Marx. L’ermeneutica e le
scienze dello spirito si sviluppano contemporaneamente
alle rigide scienze della natura; l’estetica sorge contemporaneamente
alla filosofia progressista della storia; lo
storicismo individualizzante si impone contemporaneamente
all’industrializzazione; la nostalgia per una natura
inviolata, spinta fino alla sensibilità ecologica, nasce
contemporaneamente alla artificializzazione tecnologica
del mondo; e così via. Questa contemporaneità testimonia
la coappartenenza che deve essere intesa come
“compensazione” reciproca. Proprio perché il mondo
moderno viene uniformato dalle razionalizzazioni, si
arriva contemporaneamente come compensazione alla
cultura della molteplicità, del variopinto e dell’individuale.
Proprio perché nel mondo moderno sbocciano le
universalizzazioni e i livellamenti, si giunge contemporaneamente
come compensazione alla congiuntura di
singolarità, particolarità e pluralizzazioni. Di solito sottolineo
questa coappartenenza richiamando l’ “essereper-
la-morte” dell’uomo. La nostra vita è breve. Per
questo motivo, da una parte non possiamo aspettare la
morte: non ce ne lascia il tempo; siamo condannati alla
velocità. Contemporaneamente, d’altra parte, non possiamo
raggiungere granché di nuovo: la morte non ce ne
lascia il tempo; siamo condannati alla lentezza. Il mondo
moderno radicalizza entrambe: velocità e lentezza. Non
possiamo rinunciare a nessuna delle due, tutte e due
fanno parte del mondo moderno: la velocità forzata del
cambiamento e la cultura della lentezza, propria dell’uomo.
E per questo che la mia filosofia della brevità della
vita, come filosofia della compensazione del mondo
moderno, accentua quella coappartenenza; proprio perché
nel mondo moderno aumentano la velocità dell’innovazione
e il ritmo dell’invecchiamento, si arriva contemporaneamente
come compensazione all’attenzione
per le lentezze, le continuità, le tradizioni, le varietà,
come motivi del “postmoderno”, grazie anche al “pensiero
debole” del “senso storico”. Il mondo moderno non
è unidimensionale, bensì un mondo dalla doppia vita, dal
doppio pensiero e va bene così. Agisce infatti come
divisione dei poteri e liberalizzazione della realtà. Chi
osserva soltanto le razionalizzazioni e spiega il mondo
solo a partire da esse, oppure chi vuole trovare solo le
pluralizzazioni e crede di poterle trovare solo al di fuori
e “dopo” il mondo moderno, come postmoderno: costui
dimezza la percezione del mondo moderno e può allora
facilmente maledirlo.
E’ necessario cogliere entrambe le tendenze del mondo
moderno e vedere che le razionalizzazioni moderne non
solo hanno bisogno come compensazione delle sensibilizzazioni
moderne (presunte postmoderne), per così
dire, del postmoderno come l’ “altra parte del moderno”.
Ma anche, al contrario, che le sensibilizzazioni hanno
bisogno delle razionalizzazioni e vivono di esse. Senza
la continuazione delle modernizzazioni, il Postmoderno
non è vitale: senza le prestazioni obiettivanti del soggetto
non c’è pensiero debole; senza universalizzazioni non
c’è pluralismo: senza progresso non c’è varietà alcuna.
In questo modo sono possibili entrambe le posizioni:
quanto più moderno diventa il mondo, tanto più inevitabile
diventa il Postmoderno e non come sua fine, bensì
come suo elemento costitutivo. E ancora: quanto più
inevitabile diventa il Postmoderno, tanto più quest’ultimo
ha bisogno delle razionalizzazioni modernizzanti del
mondo moderno come sua condizione di vita.

Da dove viene il “post” del Postmoderno?
Se allora il Postmoderno non viene “dopo” il mondo
moderno, bensì è dall’inizio “nel” mondo moderno
come suo necessario elemento costitutivo, perché
esso viene cercato al di fuori, cioè dopo il mondo moderno,
come un’epoca a sé, che subentra al Moderno? Detto
altrimenti: da dove viene questo “post”?
Sono dell’idea che ciò dipenda dal fatto che si vuole
superare la “società borghese”. La società borghese
viene considerata come un mondo falso: incoraggia il
“medio” rispetto agli estremi, le correzioni minime
rispetto alle grandi messe in questione, il quotidiano
rispetto all’avventura, il regolare rispetto al sublime,
l’ironia rispetto al radicalismo, l’ordinamento rispetto
al carisma, il normale rispetto all’enorme. Così il
mondo borghese anche perché i vantaggi di vita che
reca sono ritenuti ovvi non sembra molto eccitante,
bensì mediocre, noioso, alquanto ordinario e senza
attitudine per lo stato d’eccezione. E’ per questo che
lo si giudica male e lo si vorrebbe superare: non
soddisfa il nostro bisogno di eccezionalità.
Certamente, non penso che questo parli contro la società
borghese, bensì contro il bisogno di eccezionalità, contro
la smania della situazione eccezionale. Insomma, è ragionevole
chi evita lo stato d’eccezione. Nonostante ciò,
quello che viene sognato è tutt’altro mondo. E il “post”
del Postmoderno incoraggia tale sogno: grazie a questo
“post” esso si trasforma nella forma estetica del sogno di
un futuro antiborghese. Non penso che il rifiuto del
carattere borghese sia una virtù, ma un vizio cui si deve
resistere con coraggio civile: con il coraggio del carattere
borghese. Si disincanta, così, anche la discussione sul
Postmoderno e si rafforza quella tesi che ho cercato di
propugnare: il Postmoderno è legittimo non come controparte
ma come parte del Moderno, che a sua volta non
deve essere negato, bensì accettato.

[fonte, Informazione Filosofica, n° 17/18]