Difesa, ministro della. (I)
Il professor Parisi e la via militare alla democrazia

di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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Il professor Arturo Mario Luigi Parisi, approdato con indubbia vocazione al ministero eufemisticamente definito della Difesa, conclude ed esprime quasi con la sintetica efficacia di una maschera teatrale la sinistra ricomparsa nella vita politica italiana del vecchio, nefasto episodio dell’«interventismo democratico». Questo infatti, secondo tradizione, in aggiunta per buona misura alla santificazione della guerra in nome dell’Umanità, della Giustizia e del Progresso, si impegna ad accreditare democraticamente, contro ogni scetticismo, le ragioni di chi la guerra è deputato a farla, storicamente di solito altrimenti accreditato.

Il militarismo democratico è appunto il ruolo che il professor Parisi è stato chiamato ad esercitare al suo ministero, ma non giureremmo che non abbia finito per mettere il piede democratico in campo altrui per non dire peggio, come è appunto ricorrente in questo storico fenomeno. D’altra parte, nonostante il Parisi e i suoi partner interventisti vi si prestino assai, bisogna rinunziare alla tentazione di ripetere nella correzione di Marx l’adagio hegeliano sulla storia universale: è vero infatti che il farsesco non difetta alle attuali giustificazioni umanitarie della guerra infinita, ma erano già abbastanza grottesche anche le mistificazioni propagandistiche dei Bissolati e dei Salvemini, e parimenti tragica allora ed oggi, per quanto parodici ne siano gli interpreti, la rispettiva responsabilità ideologica e politica nelle stragi programmate. Almeno in un caso la storiografia professionale, solitamente restia al giudizio onesto sull’interventismo democratico, prende appunto atto di questa sanguinaria continuità. Un libro recente ed eccellente di Angelo D’Orsi individua infatti, per una volta senza omertose attenuanti, nei «sostenitori democratici delle guerre del XX secolo […] i più pericolosi ideologi della guerra. È dalla loro tradizione che il concetto di guerra giusta, di derivazione religiosa, giunge, proprio agli inizi di questo XXI secolo, alle estreme conseguenze».[1]

Il ritorno di Dracula. Dopo il prolungato silenzio al quale gli zelatori democratici dell’eccidio filantropico erano stati costretti dalle efferatezze della seconda guerra mondiale eccedenti la sua celebrata santità e il conseguente, pudico assopimento dei pruriti militaristi, un primo risveglio di spiriti guerrieri – una «svolta», racconta l’allora ministro della Difesa, il socialista Lelio Lagorio – si ebbe non a caso a conclusione di un decennio di passione libertaria, «a cavallo degli anni Ottanta», durante la farneticante presidenza Pertini e l’accelerazione del processo repressivo:

«Senza clamore, con ordine, in modo quasi invisibile la politica militare di quegli anni abbandonò la linea di pigrizia e di basso profilo praticata da sempre, rinnovò istituti, bilanci, leggi, consuetudini, mentalità e animus delle forze armate, rese possibile e concreta la svolta politica. La Difesa infatti, riformandosi, dava non solo consistenza e credibilità al mutamento di rotta del Paese, ma aiutava anche la formazione di una nuova opinione pubblica nazionale. […] una vera e propria ‘rivoluzione silenziosa’ o, meglio, ‘evoluzione’ per usare rispetto agli uomini in uniforme che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e che non ipotizzano fra i loro compiti alcuna forma di rottura traumatica dell’ordine costituzionale».[2]

Dopo aver dato «consistenza e credibilità al mutamento di rotta del Paese» mancava al restaurato animus militarista una bella guerra da sognare. L’occasione si presentò con la guerra del Golfo. Nel 1990 tuttavia, a ridosso della caduta del Muro, i politici orfani della democrazia progressiva, sebbene ormai unanimemente arruolati nella strategia di tutela degli interessi statunitensi nel mondo, si concessero una prudenziale pausa di attesa perché anche l’animus del popolo si scaldasse al punto giusto: mandarono in avanscoperta propagandistica, a sostegno della guerra petrolifera, gli opinion makers con più pelo sullo stomaco democratico, che a gara diedero euforicamente fiato alle antiche trombe interventiste sugli spalti bellicosi del Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, L’Espresso, MicroMega: da Enzo Biagi a Norberto Bobbio, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais, Vittorio Foa, Arrigo Levi, Piero Ottone, Mario Pirani, Alberto Ronchey, Gian Enrico Rusconi, Giovanni Sartori tra gli altri, tutti a persuadere che la guerra era necessaria e bella, proprio come l’ultima e anche la penultima e insomma tutte. Né poteva mancare, come nell’interventismo democratico d’antan, ma quanto a questo non diversamente dai nazionalisti e fascisti di sempre, la caccia ai «nemici interni» come definiva «in sostanza» i pacifisti Nicola Matteucci, fondatore del Mulino, la «più importante rivista della cultura laica […], schierata “naturalmente”, per così dire, a favore dell’intervento militare».[3] Ma nelle corde del nuovo interventismo democratico non c’era solo pathos, c’era anche scienza. Si veda per esempio sulla medesima rivista, così importante, il sibillino contributo analitico di imbarazzante levità del senatore del PDS Gianfranco Pasquino, «influente politologo»:

«Una delle motivazioni del conflitto, forse la principale, è derivata dall’imprescindibile necessità che l’area mediorientale, per la sua importanza economica, non cadesse sotto il controllo politico e militare […] di una sola potenza».[4]

Dopo il primo rigurgito militarista dell’era Pertini, con la campagna di stampa dell’interventismo democratico a dimostrazione della necessità e dei benefici universali della guerra del Golfo si apre più incisivamente un nuovo periodo nella storia dell’Italia repubblicana, in conformità con le esigenze dettate dai cambiamenti del quadro economico e politico internazionale. Due segnali indicano con grande evidenza, entrambi emessi appunto dalla Sinistra riorientata secondo opportunità, il nuovo corso sia nella politica interna sia in quella estera: la rimozione del tabù della guerra dalle credenze delle masse popolari, dopo mezzo secolo di fede inconcussa; la reinterpretazione, o piuttosto, l’abrogazione di fatto del divieto della guerra non meramente difensiva, sancito dall’articolo 11 della Costituzione. All’interno di queste coordinate molte condizioni cambiano nella nostra vita nazionale, sociali, politiche, culturali, militari, psicologiche, etiche: se ne è già variamente parlato. Cambia pure il ceto politico, per adattamento del vecchio o per la comparsa di nuovi personaggi, che si aggirano opachi o anche troppo trasparenti, mai del tutto rassicuranti, lungo la linea della Nuova Frontiera. Il professor Parisi è uno di questi.

Il modello Parisi. Poiché in Italia «quella che ci manca – dice un po’ restrittivamente il professor Parisi – è una cultura adeguata della difesa e della sicurezza»,[5] chi meglio di un professore potrebbe colmare la lacuna? In effetti a più di un titolo la democratica vocazione militarista di Parisi è ricca di implicazioni didattiche e non solo perché la scuola militare della Nunziatella, frequentata in gioventù, gli ha lasciato «nel cuore […] un segno profondo, un affetto ed una attenzione del tutto particolari verso il mondo militare»,[6] ma perché l’intera società gli si presenta come una aberrazione didattica e la milizia come lo strumento necessario della correzione. Mentre gli opinion makers democratici, inventando ciò che c’è da inventare e tacendo ciò che deve essere taciuto, proiettano sul Medio Oriente o dovunque sia necessario l’animus bellicista, il professor Parisi partecipa all’offensiva propagandistica[7] prendendo posizione sul fronte interno, dichiarando guerra alla scuola: certo per deformazione e frustrazione professorale, ma non solo, poiché anatemizza l’istituzione come cassa di risonanza dei «valori di cinismo politico e di slealtà nazionale trasmessi dalla famiglia e dalla società nel suo complesso», come «una formidabile agenzia formativa a quei disvalori tipici della cultura politica italiana che tanto peso hanno avuto, ed evidentemente continuano ad avere, nell’impedire la diffusione di un ethos di corresponsabilità e di identificazione con le istituzioni repubblicane».[8]
È caratteristico della rude Weltanschauung del professor Parisi che la critica della scuola, e dunque le relative deduzioni politiche e sociali, si innestino su una preoccupazione maniacale per forme e comportamenti e relativo simbolismo, mai scalfita da utopie pedagogiche di promozione dell’autonomia intellettuale dei discenti. Deluso nell’idea della scuola come esercizio disciplinare, introiezione della norma, addestramento all’obbedienza sociale e politica, la sua ossessione preferita è «la concreta pratica del cheating e la sua sostanziale impunità»:

«la semplice osservazione dell’abitudine da parte degli studenti italiani di “copiare” in classe – delle complicità e omertà che regnano in classe nella relativa tolleranza da parte dei docenti – consente di risalire alle implicazioni di valore sottostanti a una realtà che tutti abbiamo presente e che fa della scuola un’istituzione fondamentale per la diffusione della slealtà verso le istituzioni, dell’indisponibilità a riconoscersi al loro interno corresponsabili dell’attuazione dei valori comuni, del rifiuto della collaborazione con le autorità per la difesa della legalità».[9]

Altrettanto delusa e drastica, e per gli stessi motivi pedagogici, la critica delle altre «istituzioni pubbliche», responsabili «in questi decenni» di aver «progressivamente erosa la dimensione rituale della vita quotidiana», con un «minor ricorso alle divise», con «la sostanziale soppressione delle cerimonie di giuramento da parte degli impiegati pubblici e degli insegnanti», con una insufficiente promozione «del giorno di festa (festa nazionale)», che invece «nell’ambito dei riti della religione civile […] costituisce un’arma simbolica di straordinaria potenza».[10] È evidente che qui l’affettuosa memoria della puerilità nella Nunziatella ha effetti devastanti sulla sensibilità istituzionale del professore, per non dire della sua intelligenza sociologica: come se l’eventuale distacco dei cittadini dalle istituzioni «in questi decenni» – e su questo il professore non sembra avere dubbi – potesse davvero dipendere da insufficienza di sfilate, da nostalgie insoddisfatte di pennacchi, rulli di tamburo e gonfiori di patriottica oratoria. Quanto democratico disprezzo per i cittadini, nonché per i suoi scolari, deve nutrire un professore per pensarli in questi termini? Fatto sta che il professore li pensa proprio così, e anche peggio. Li pensa infatti come attoniti, succubi, inguaribili fondamentalisti del «calendario agonistico della nazionale di calcio» e la cosa non gli sembra affatto disdicevole. «Attraverso» la nazionale, infatti, «si ha l’unico caso di ascolto collettivo dell’inno nazionale (per quanto mediato dalla televisione) e di esposizione spontanea da parte dei cittadini di bandiere tricolori» e se anche «non è lecito decifrare questi comportamenti come manifestazioni autentiche di patriottismo […] tuttavia non se ne devono escludere possibili ricadute in termini di alimentazione di un senso di compartecipazione, di comune identificazione da parte di una quota maggioritaria della popolazione».[11] C’è da dire comunque, a vantaggio dell’imparzialità del professore, che la dubbia considerazione in cui evidentemente egli tiene tale quota maggioritaria e relativa liturgia fondamentalista non gli impedisce di accostarle alla «dimensione “corale” e sacrale delle elezioni». Infatti «non si deve dimenticare che, a conti fatti, le partite della nazionale rappresentano una delle due occasioni in cui i simboli della patria e dell’unità nazionale sono utilizzati a) in forma propria, b) secondo una precisa ritualità e c) di fronte ad un’amplissima platea di cittadini. La contemporanea presenza di queste tre condizioni non ricorre in pressoché nessun’altra occasione, eccetto che nel caso delle elezioni».[12] Si potrebbe desiderare un argomento più stringente contro l’astensionismo elettorale?
Nonostante tale eminente contributo civico della religione della Palla, ad allargare potentemente la gamma delle epifanie democratiche, e nonostante l’alacre, storico sostegno delle pubbliche istituzioni ad un tale culto, l’inesauribile ansia di religiosità del professore insiste a deplorare la «totale disattenzione che i vertici istituzionali del paese hanno dedicato alla costruzione di una religione civile».[13] A chi dunque potrebbe essere affidata «un’azione educativa ineliminabile, implicita e sotterranea nella sua quotidianità ma efficace nel plasmare le visioni del mondo degli individui, e nell’orientare le loro condotte di azione»?[14] Pura domanda retorica, si capisce, per chi ha plasmato alla Nunziatella la sua visione del mondo, la convinzione delle forze armate scrigno alquanto lugubre di quintessenza identitaria: «l’unica istituzione abilitata a richiedere a tutti gli individui la prova suprema dell’identificazione con la comunità: la difesa della patria in armi fino al sacrificio della vita», una «peculiarità» – non dimentica di precisare il professore nella sua ossessione per il cerimoniale – che «rende centrale il ruolo e la presenza delle forze armate nei riti in cui la nazione celebra se stessa».[15] Alla crisi didattica c’è dunque un’«unica soluzione realistica […]. Accanto ad una scuola che sappia assumersi il compito di formare il cittadino, le forze armate hanno mezzi e occasioni per svolgere un ruolo non secondario in quest’opera educativa, che affianchi con un’adeguata educazione civica l’istruzione militare del cittadino alle armi».[16] Insomma, in «una situazione critica del grado di interiorizzazione dell’interesse nazionale come criterio saliente di ispirazione degli orientamenti e dei comportamenti individuali», il modello Parisi dà al «servizio di leva» – esaltato negli «aspetti in cui più accentuata è la valenza didattica», negli «aspetti rituali che riverberano il rispetto per le istituzioni», nei «processi di socializzazione implicita» ed «esplicita» – il mandato di amplificare «la capacità integrativa della religione civile, che nelle nostre scuole appare ad esempio attraverso l’effigie del capo dello stato», «l’alzarsi in piedi degli alunni all’ingresso dell’insegnante» e l’apprendimento dell’«Inno di Mameli».[17]
Non sfugge al realismo del professore che all’auspicata simbiosi didattico-patriottica di scuola ed esercito si oppongono resistenze e difficoltà. In Italia infatti «le forze armate vengono a trovarsi in un ambiente culturale improntato all’indifferenza, quando non alla diffidenza. La legittimità dell’istituzione viene erosa sia per l’indisponibilità all’impegno collettivo indotto dagli orientamenti particolaristi, sia dalle utopie universaliste di ispirazione cattolica, socialista o postmaterialista».[18] La scuola a sua volta è «un fattore socializzante che agisce – in parte esplicitamente ma soprattutto implicitamente – in direzione contraria a quella auspicabile in vista degli obiettivi delle forze armate»,[19] sicché rispetto ai «coetanei europei […] i giovani del nostro paese sono di gran lunga i meno disponibili a sottoporsi ai sacrifici che la difesa armata della patria comporta»;[20] anzi, come risulta dalla scandalizzata inchiesta dell’Istituto Cattaneo, «quanto più prolungata è la permanenza dei giovani nella scuola» tanto più gli «orientamenti di valore dei giovani» risultano «confliggenti con l’idea di nazione».[21]
Tuttavia è proprio di fronte a tali difficoltà che si parrà, se non la nobilitate che non fa al caso, almeno l’utilità del modello Parisi, costruito sulla duplice ipotesi che le forze armate siano interessate alla correzione della devianza scolastica e che ne abbiano lo strumento adeguato. Adeguato sarebbe appunto «l’istituto della leva obbligatoria», nel quale si «produce un punto di frizione […] tra orizzonti di valore dissonanti», dando «l’opportunità» alle «forze armate […] di un’educazione civica effettiva». In vista dell’attuazione di un tale modello il professore, che ha pensato proprio a tutto o quasi, prevede la necessità che i militari siano puntualmente informati attraverso «un quadro aggiornato e attendibile dello stato degli orientamenti dei giovani che anno dopo anno si avvicendano nel servizio di leva», edotti degli «effetti dell’azione educativa (esplicita e implicita) della scuola sui giovani per comprendere se e quanto le nuove generazioni vengono sensibilizzate ai valori della nazione e degli interessi nazionali».[22]
Con questo lugubre, punitivo, delatorio modello il professor Parisi ha affilato le armi per la sua carriera di ministro. Ma le cose non sono andate così. Il modello Parisi non è più. Non ha retto la sua ipotesi costitutiva di una campagna pedagogica come di «evidente […] interesse per le forze armate».[23] Nel nuovo quadro globale, nello Stato che cambia pelle, senza avvertirne il professor Parisi anche le forze armate cambiano pelle,[24] la didattica nazionale, se mai le ha interessate, non le interessa più: il 29 luglio 2004 la Camera ha abolito la coscrizione obbligatoria, la suprema occasione della riforma parisiana. Chi non direbbe che una tale sconfitta, una tale dimostrata incapacità di leggere gli eventi non sia motivo sufficiente ad interrompere una carriera politica? E invece no, come tutti vedono. Evidentemente sono altre e misteriose le regole di una tale carriera. È certo comunque che nel prendere possesso del portafoglio della Difesa il professor Parisi non ha potuto portare in dote all’ingrato «mondo militare» il patrimonio obsoleto delle sue idee, gli indizi in proposito piuttosto convergendo appunto sul portafoglio. È lui infatti l’eroe eponimo della munifica erogazione di spese militari della Sinistra, a disdoro dell’avarizia della Destra,[25] un miliardo e quattrocento milioni di euro in più alle spese militari e alle «missioni di pace» nell’altrimenti devastante finanziaria del 2007. Non proprio nozze con i fichi secchi.[26]
Discrezione vuole tuttavia, anche al ministero della Difesa, che dell’equivalente generale si parli con parsimonia. Che cosa può dire dunque il ministro ai militari e al più largo pubblico, se anche la via didattica al militarismo democratico è preclusa? Si ha un bel fare gli schifiltosi, ma che altro rimane se non la collaudata, virile, colorita al punto giusto retorica militaresca e guerraiola di tutti i luoghi e di tutti i tempi? In questo il professore, democratico o no, è davvero un professore.

Bric-à-brac. Tramontata con la scomparsa della coscrizione obbligatoria l’ipotesi di educare il popolo con le armi, il ministro Parisi, «passato dalla condizione di studioso a quella per così dire di attore»,[27] non rinunzia del tutto al progetto di una «religione civile» sub specie militare. Coltiva ancora visioni di grandi parate e riti sacrali. Per esempio vorrebbe impegnare gli immigrati «ogni anno il 2 giugno in occasione della festa della Repubblica» a «un giuramento pubblico di fedeltà alla Costituzione», perché «la acquisizione della cittadinanza sia vissuta con orgoglio, come approdo di un cammino di integrazione reale. Nell’antica Roma essere civis romanus era una condizione di cui andare fieri. È questo orgoglio civico che dobbiamo proporre, chiedere e condividere con i nuovi cittadini», con l’ovvia esclusione di «clandestini» e «irregolari», individui sempre a «rischio» di «aggravare i problemi del terrorismo». Si otterrebbe così anche il risultato di «risvegliare» in chi «è già italiano […] la fierezza di essere cittadino della Repubblica».[28]
Si tratta certo di labili soddisfazioni, cadenzate dal grottesco di cerimonie marziali e solidali rendez-vous ad uso televisivo, quali l’ammainabandiera a Nassiriya o il pranzo di Natale con la truppa. Tuttavia, per quanto effimere, tali occasioni risultano funzionali al dispiegamento della propaganda bellica, attività cui il ministro si applica con dedizione e, bisogna ammetterlo, con notevole coraggio. Parisi agisce soprattutto sul piano del linguaggio, rispolverando la retorica di un vocabolario patriottico desueto ma nella sua virile rozzezza adeguato all’oggetto, poiché come recitava ineccepibile il manifesto dei carapintadas argentini in definitiva «il soldato è addestrato a mostrare i denti e a mordere. Combattere è la sua natura».[29] Così nei proclami del ministro è tutto un susseguirsi di reparti «carichi di storia e di gloria», di «Viva le Forze Armate! Viva l’Italia», di «fermezza e disciplina», di «dolorose perdite», di «ansia e trepidazione», di dare «la vita per la Patria ed il dovere», di terra «segnata dal dolore e dalla speranza», di «essere all’altezza delle sfide che la storia ci pone», di «riconoscere la morte nel volto dei morti», di «fratelli caduti alla loro ultima dimora», di «le cause per le quali non si muore più sono cause morte», di «caduti per la libertà», di «caduti per la Patria», di «ricordarli, perché un popolo che dimentica i suoi Caduti non ha diritto ad un avvenire», di «memore pensiero per una testimonianza di fede», di «uniti nel dolore», di «testimonianza definitiva dello straordinario e nobile impegno», di «pianto pubblico», di «contributo generoso di coraggio, di altruismo e di sangue», di «debito immenso», di «un’altra vita sacrificata a suggello del patto», di «usciamo con onore da questa missione», di «il sangue di tutti questi caduti rende indelebile il passaggio degli italiani in questa terra e ci lega ad essa per sempre», di «pervaso dall’emozione», di «un abbraccio forte e un sorriso amico», di «mano di ferro in guanto di velluto», di «abbiamo mescolato il nostro sangue con il loro».
È da notare che il rituale rivolgersi alle forze armate «a nome di tutti i cittadini» per esprimere «il sentire dell’intero Paese» che «guarda a voi con profonda ammirazione» non è formula da esaurirsi nel folclore delle precedenti.[30] Qui per contrasto si definisce il ‘nemico interno’ e lo si denuncia pubblicamente. Chi non si identificasse con «i nostri soldati […] in missione a nome e per conto della Repubblica» – che «quando sono all’estero hanno […] il diritto di sentire alle loro spalle l’Italia unita» e «quando tornano a casa hanno il diritto di trovare le loro famiglie, le loro comunità, gli amici del bar, uniti dall’apprezzamento per quel che fanno»[31] – si porrebbe fuori dal consesso nazionale, ne sarebbe escluso. È un tabù irrinunciabile in tempo di guerra: chi dissente è un traditore.

* * *

La Storia patria è luogo deputato alla celebrazione. Con la consueta enfasi militarista, Parisi ricorda ai soldati sardi di ritorno dall’Iraq le gesta «di quei fanti» di cui «voi siete degni eredi», perché «il vostro coraggio è pari a quello dei vostri padri»:

«novantuno anni fa la Brigata Sassari cominciava a scrivere la propria leggenda, con la conquista delle trincee “delle frasche” e dei “razzi”, azioni valorose nelle quali la Brigata si batté con grande coraggio, contribuendo a far sì che le Bandiere dei suoi reggimenti, il 151° e il 152°, meritassero la Medaglia d’Oro al Valor Militare. […] grazie ai loro sacrifici e al loro dolore […] voi sapete oggi pienamente di essere figli della Sardegna e cittadini della Repubblica».[32]

Anche la seconda guerra mondiale offre molteplici spunti. Per esempio «c’è l’abbraccio ai reduci, sull’attenti nel sacrario di El Alamein», dove, sostiene il ministro, «centomila uomini di ogni patria consumarono nella lotta la loro giovinezza. […] uomini inquadrati in schieramenti differenti e contrapposti, [che] riuscirono ad essere eguali esprimendo il meglio in quelle terribili condizioni». E chi pensasse che «il meglio in quelle terribili condizioni» sarebbe stato disertare invece di combattere per i nazifascisti? Un traditore, evidentemente. Ieri e oggi, perché l’obbedienza al comando non ammette eccezioni nella logica militare, fosse anche la turpitudine di difendere le camere a gas o i Savoia sul Carso.[33] Infatti con la medesima disinvoltura, storica e morale, Parisi durante la celebrazione del 63° anniversario della difesa di Roma sottolinea che nonostante «i valori» della «nostra democrazia» sembrassero «occultati durante la stagione fascista, ma non erano né morti né assopiti», «i soldati, i marinai, gli avieri italiani fecero ugualmente il loro dovere in tutti i Teatri di guerra, dalla Russia all’Africa, ai Balcani». Che il loro dovere fosse di massacrare milioni di persone, in proprio o insieme alla Wehrmacht e alle SS, a Parisi poco importa: «Fecero il loro dovere in tutti i mari e sotto tutti i cieli […] alla ricerca di un successo del quale di giorno in giorno si indeboliva la possibilità e il senso». E siccome «non poteva esserci fortuna, in quelle ore» e «nel contempo cresceva l’odio nazista per una scelta politica inevitabile, denunciata come un tradimento», «gli episodi di Porta San Paolo» sarebbero «da considerare come una prova estrema di amor di Patria, una testimonianza “nata dal basso”, la dimostrazione definitiva della spontanea avversione di popolo e Forze Armate nei confronti di un destino ingiusto». È assai dubbio che qualcuno allora se la prendesse con il «destino ingiusto» invece che con Mussolini, il re, Badoglio e il papa, ed è almeno altrettanto dubbio che i romani che il 10 settembre del ’43 imbracciarono spontaneamente i fucili contro fascisti e tedeschi lo facessero per «amor di Patria»: più facile il contrario. Sicuro è invece che se avesse vinto l’Asse, quelle «migliaia di giovani che sacrificarono la loro giovinezza bagnando col sangue il seme della nuova Italia»[34] sarebbero stati considerati traditori. In nome della Patria, of course.
[continua]

[1] Angelo D’Orsi, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 138.

[2] Lelio Lagorio, L’ora di Austerlitz. 1980: La svolta che mutò l’Italia, Polistampa, Firenze 2005, pp. 13 s.

[3] D’Orsi, op. cit., pp. 151, 167.

[4] Gianfranco Pasquino, Al di là del Golfo: scene di un dopoguerra, in il Mulino, XL, 1, gennaio-febbraio 1991, pp. 61-69, cit. in D’Orsi, op. cit., p. 167.

[5] Gerardo Pelosi, In Medio Oriente torniamo protagonisti, intervista a Parisi in Il Sole 24ore, 3 settembre 2006.

[7] È particolarmente significativa di questa solidarietà la sua cura, insieme col collega universitario Roberto Cartocci, del volume Difesa della patria e interesse nazionale nella scuola. Contenuti ed esiti dei processi di socializzazione in Italia, FrancoAngeli, Milano 1997. Il volume riassume una ricerca commissionata all’Istituto Cattaneo, di cui Parisi era allora presidente, dal CeMiSS, il Centro militare di studi strategici, per la propria Collana di sociologia militare, informata al minaccioso «presupposto che, nel mondo uscito dal bipolarismo e dalla contrapposizione tra i blocchi, lo studio delle tematiche militari è divenuto non meno ma più urgente» (ivi, p. 1).

[8] Cartocci – Parisi, Conclusioni, ivi, p. 174.

[9] Ibid. Cfr. anche Arturo Parisi, Compagni che copiano. Due modelli di società a scuola, in il Mulino, XL, 1, gennaio-febbraio 1991, pp. 91-100.

[10] Cartocci – Parisi, Conclusioni, cit., pp. 170, 172.

[11] Ivi, p. 166.

[12] Ivi, p. 166 e n.

[13] Ivi, pp. 172.

[14] Ivi, p. 174.

[15] Id., La nazione come valore: una prima messa a fuoco, ivi, p. 13.

[16] Id., Conclusioni, cit., p. 176.

[17] Ivi, pp. 150, 166, 169.

[18] Ivi, pp. 164 s.

[19] Ivi, p. 175.

[20] Ivi, p. 149.

[21] Ivi, p. 162.

[22] Ivi, pp. 175, 178.

[23] Ivi, p. 178.

[24] La concessione dell’autonomia all’Arma dei carabinieri nel marzo 2000 è segnale di grande evidenza del nuovo corso della politica italiana. Cfr. Gaspare De Caro – Roberto De Caro, La sventurata rispose. La Sinistra e l’Ordine pubblico, in AA.VV. Guerra civile globale. Tornando a Genova, in volo da New York, Odradek, Roma 2001, pp. 163-228.

[25] Cfr. la sua polemica contro i «tagli operati dal ministro Tremonti» e dal governo Berlusconi, che portò le spese per la Difesa dall’1,45% del Pil nel 2001 allo 0,84% nel 2006: «la capacità operativa delle forze armate è stata gravemente messa in causa»; «la situazione […] fortemente compromessa»; «nella scorsa legislatura […] nel momento in cui si varavano nuove missioni si indeboliva lo strumento che le rendeva possibili», avendo la Destra – «buone intenzioni, molte parole, e pochi fatti» – «inciso sulla efficienza dello strumento militare oltre il limite di guardia». Cfr. Parisi: non sarà una presenza dimezzata, intervista in Corriere della Sera, 13 agosto 2006; Pelosi, op. cit.; Monica Setta, In prima linea per la pace, intervista a Parisi in Gente, 14 settembre 2006; Maurizio Piccirilli, Arturo Parisi in difesa contro gli estremisti, intervista in Il Tempo, 19 settembre 2006.

[26] Per apprezzare adeguatamente i parafernali del professor Parisi occorre confrontarli con le cifre corrispondenti assegnate alle prestazioni sociali (disoccupazione, malattia, maternità) e all’Istruzione: rispettivamente quattrocentoventi e trecentoventi milioni. Cfr. Francesco Bei, Primo sì alla Finanziaria. Prodi: maggioranza compatta, in la Repubblica, 20 novembre 2006.

[27] Dimissioni Cossiga. Parisi: non conti sul mio appoggio, dichiarazione del 27 novembre 2006, in www.arturoparisi.it.

[28] Marco Nese, Parisi: non sarà una presenza dimezzata, intervista al Corriere della Sera, 13 agosto 2006.

[29] Cit. in Horacio Verbitsky, Il volo, a cura di Claudio Tognonato, Milano, Feltrinelli 2001, p. 144.

[30] Cfr. Arturo Parisi, Perché tanta pena? Ora la risposta, in Europa, 19 novembre 2003; Id., Discorso […] in occasione della celebrazione del «Memorial Day», 29 maggio 2006, in www.arturoparisi.it; Id., Saluto […] in occasione della visita al contingente italiano in Irak, cit.; Id., Saluto in occasione del 60° anniversario della Repubblica, 2 giugno 2006, ivi; Id., Discorso in occasione del rientro della Brigata Sassari, 26 giugno 2006, ivi; Marco Damilano, Il disarmo ci sarà, intervista in L’Espresso, 31 agosto 2006; Arturo Parisi, Intervento […] in occasione del 63° anniversario della Difesa di Roma, 8 settembre 2006, in www.arturoparisi.it; Setta, op. cit.; Iraq: Parisi, giornata dedicata ai due militari caduti, Ansa, 21 settembre 2006; 2 Novembre: 106 militari caduti all’estero dal ’60, Ansa, 2 novembre 2003; Arturo Parisi, La Memoria di Nassiriya, in Corriere della Sera, 12 novembre 2006.

[31] Piccirilli, op. cit.

[33] Giampaolo Cadalanu, Parisi: «Per l’Afghanistan nessuna exit strategy», in la Repubblica, 21 ottobre 2006.