di Alberto Prunetti

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[Più di un anno fa Carmilla ha pubblicato il racconto Teglie di rabbia, ispirato alle mie vicende di pizzaiolo. Propongo adesso ai lettori un estratto da un romanzo breve che segue le vicende del protagonista di quel racconto. Nel capitolo “Il grande artista”, pubblicato di seguito, il pizzaiolo è entrato nella società dello spettacolo: la sua rabbia se la fa pagare a peso d’oro, rovesciata in arte.] (A.P.)

Ho conosciuto A. P., pizzaiolo e grande artista, alla biennale di Venezia del 2010. Al primo incontro, dopo un breve scambio di battute, rimasi impressionato dal suo modo provocatorio di raccontare prodigi come se niente fosse, da quella maniera di tentare e caldeggiare l’assurdo che finisce per sedurre col fascino dell’ambiguità e del criptico.

Sorprendevano i suoi motti di spirito, le svirgolature con le quali motteggiava le ginocchia paludate degli intellettuali; sorprendevano certi suoi vezzi neo-maledetti, la svalutazione dell’erotismo ad una pura chimica di ghiandole e secrezioni che sembrava additare timidamente una pregenitalità che abbia qualche problema a genitalizzarsi completamente.
Tra le sue opere più inquietanti citerei “Infornata d’artista” (2003), insuperato saggio di videoarte che attraverso una fibra ottica applicata sul glande di un installatore documenta la decostruzione del culo di un pizzaiolo. Notevole in quest’opera è il passaggio dal vuoto al pieno attraverso i rigoni bianchi del seme, abbastanza denso e pastoso, e le infiltrazioni terra-di-Siena delle incrostazioni fecali, contrastanti a loro volta con le venature vermiglie dei grumi di sangue rilasciate dalle pareti rettali dell’ano. Il retto viene paragonato da A.P. a un forno di cui percepiamo la superficie screpolata e un po’ pasticciata. Ad ogni colpo di maglio cade un pezzo sconsolato di intonaco, screziato di sanguigni grumi. Forse l’interno del forno ha un aspetto percorribile, certamente un po’ di chiaro e un po’ di trasparenza azzurrina e persino un paio di dimensioni se non addirittura tre. Il mondo di villi intestinali che torno torno mura il forno non lascia presagire buone speranze: è impenetrabile, sordo, monolitico. Il rosso che lo macula si accorda come gioco appropriato di colore riproponendosi a filettare sottilmente il forno, insinuato com’è tra i rigoni bianchi e celesti.Prunettipizza.jpgUn’altra opera notevole è “Le torri di Sodoma”, collage del 2005. In quest’opera l’artista ha circondato una foto del proprio culo con i ritagli delle fotografie dei cazzi dei suoi più intimi collaboratori, aiutopizzaioli della pizzeria Sodoma. Alcuni di questi piselli, drammatici e fantomatici nel loro gustoso candore crivellato, ed un po’ buffi ed eterei benché spettrali, cadono a picco a testa in giù l’uno quasi a piombo dell’altro. Altri, decentrati, si stagliano sul gruppo di geometrizzate nerchie, e assomigliano a una serie di rocce turrite, quasi a una selva di grattacieli quasi ciechi. I piselli in primo piano possiedono un bruno-ocra aranciato, impreziosito da striature graffiate gialle orizzontali. Dietro le prime facciate antistanti, si ergono altre geometrie turrite e più numerose. Queste ultime sono ormai di un colore ruggine, striate a tratti di un bruno quasi nero. Dietro, un’altra messe di quelle strane torri, butterate, questa volta, di un verde pisello coloricamente intonato e appropriato. Però sono troppo alte queste strane colonne e benché retrostanti sembrano superare in altezza le antistanti. È come se dalle retrovie, quali invasori minacciosi, insorgessero in crescendo, ingombrassero tutto lo spazio, insensibili alla caduta di due goccioloni bianchi di sperma, o addirittura responsabili di quella caduta. Sono forse metafore polivalenti e sovradeterminanti e simbolizzano molto di più delle loro caratteristiche e somiglianze manifeste, suggerendo segnalazioni latenti che raggiungono lo spettatore a livello profondo con emozioni e messaggi difficili da circoscrivere.
Del 2007 è la scultura “Quello che ho fatto per tutta una vita…”, l’opera indubbiamente più minimalista di A. P. La scultura riproduce in scala 1:1 le fattezze dell’artista, languidamente seduto su una poltrona. La testa di A.P. è fin troppo stereotipata – la stilizzazione ha in questo caso connotazioni pop – mentre il busto, nudo, semplice e mascolino, somiglia per la sua squadratura a un parallelepipedo, e si connette e appoggia sull’altro parallelepipedo più aggettante in cui consiste l’insieme di gambe, grembo, veste bianca, pala da forno e – intuibile, possente, ovvio e sinceramente atteso – il pene. Quest’ultimo è impugnato dalla forte mano quasi fosse un matterello, uno scettro enorme e verticale e molto alto come il potere che questo personaggio zodiacale detiene. La mano sembra suggerire un movimento alterno di elastici restringimenti dell’impasto che si succedono geometricamente ad ingrossamenti: il tutto liscio e gustoso, e via di questo passo…. Il minimalismo masturbatorio si salda in quest’opera con pulsioni totemiche più simbolizzanti, realizzando un costrutto di bellezza e conoscenza intuitiva, di genitalità e comunicabilità consensuale, esorcizzando al tempo stesso il pericolo che una modernità routinaria e quotidiana perda del tutto l’edificazione del numinoso e del mitico, o espunga – per consolarsi – la libido dalla radice dell’essere.
Nel 2006 A.P. ha portato il minimalismo alle sue estreme conseguenze: in omaggio al principio di designazione, derivato da Duchamp, cominciò ad inserirsi in culo materiali ed oggetti d’uso comune che acquisivano ipso-facto uno statuto di artisticità. E tuttavia l’opera più interessante di questo anno ha caratteristiche indubbiamente diverse: “L’impasto di Fibonacci” (2006) consta di una tela screziata di semola di mais su cui l’artista ha inserito questa serie numerica: 1,1,2,3,5….. L’opera è interpretabile come un omaggio al teorema del matematico Fibonacci: in ossequio a questo teorema e memore delle grandi impastate di farina della sua giovinezza, A.P. aveva iniziato ad inserirsi nel sedere tutta una serie di oggetti, stando bene attento a che ogni oggetto fosse costituito dal volume dei due che lo precedevano. Per quanto queste osservazioni vadano prese cum grano salis, credo che mai come in quest’opera il caso disputi con la necessità, mentre l’imminente guarda in cagnesco il trascendente ma viene severamente impegnato da tergo dall’entropico, che fa il doppio gioco con l’inconscio contendendo il passo al metafisico.
In questo excursus non si può tralasciare quel saggio stupendo di comicità che è “Scherzo da prete (schizzo d’artista)”, installazione del 2008. L’opera è intrigante perché coinvolge attivamente lo spettatore. L’installazione consta di un blocco marmoreo su cui troneggia un fallo di granito. Quando lo spettatore si avvicina all’opera per la fruizione della stessa interrompe il contatto tra due fotorecettori, attivando un complesso meccanismo elettronico che apre un sipario alle terga dello spettatore. Dal sipario esce l’artista (vestito in abito da pizzaiolo) che senza proferire verbo e senza usare vaselina sodomizza inevitabilmente lo spettatore. La performance lascia solitamente lo spettatore impressionato e, al tempo stesso, sconcertato e sorpreso. In quanto spettatori ci rendiamo conto di trovarci di fronte a qualcosa di abbastanza formidabile che smuove dentro di noi risonanze profonde e remote, una specie forse di riverenza e timore arcaici verso la coppia totemico-regale costituita dall’opera e dall’artista, coppia che non vorremmo nemica e che speriamo, anzi contiamo, che sia benevola nei nostri confronti e ci protegga, così potente com’è, in quella dimensione magica e sacrale verso la quale ci sospinge e sulla quale evidentemente regna, imparentata com’è con le forze del cielo e della terra da chissà quali complicità e vincoli arcani e fatali. Per calmare l’inquietudine e un pochino di sgomento, accresciuto dalla sensazione che dà l’ibrido e l’ambiguo, ci conviene essere un po’ meno contenutistici e rilasciare la pressione dei reni (tanto ormai l’abbiamo in culo), prendere un po’ di distanza da certi sentimenti e stati d’animo che attengono al registro del cupo e del terribile, mettendoci a carezzare e quasi a ricostruire anche punto per punto la piacevolezza della forma la quale guizza e ritma geometrizzante, sintetica ed essenziale. Ci pare anche che in questo scherzo d’artista ci sia qualcosa di buffo oltre che provocatorio e canzonatorio, una particolare foggia di ironia o parodia che non sappiamo bene né quantificare né appurare. Siamo in fondo contenti che ci sia e gli diamo il benvenuto: invece di essere disdicevole, questo qualcosa, era proprio quello che ci voleva, assieme anche ai valori formali, per superare il cupo ed il terribile anche con qualche nota di attualità, oltre al sorriso. Alla fine dei conti abbiamo dunque un consenso pieno tra opera, artista e spettatore. Nonostante il dolore anale non c’è nulla che vorremmo diverso, nulla da aggiungere e nulla da togliere, nemmeno ciò che ci pareva a tutta prima al limite della sopportazione e della sensatezza. Superato il peso dei luoghi comuni, ed una volta che ci abbiamo fatto l’occhio (e il culo), l’installazione sembra addirittura prevedibile, e a cose fatte, possiede un’aria curiosa di déjà vu, quasi rimandasse davvero a miti ed archetipi esistenti nel nostro intimo.
L’ultima opera di A.P. è quella che mette drammaticamente fine al suo percorso estetico. Mi riferisco a quella che – posteriormente – è stata chiamata “Questa carcassa di artista…” (2011). Negli ultimi anni A.P. aveva spostato il proprio interesse estetico nei territori della body art e della self-laceration. Tuttavia la sua personalità, così straboccante di passioni e mai doma, lo tentava colla sfida di portare il suo culo oltre i propri limiti fisici. Per questo progettò una performance alla New Tate Gallery di Londra nel corso della quale avrebbe tentato di infilarsi in culo una lavatrice. Si trattava ovviamente di un’impresa titanica, ma il titanismo e la hybris si erano ormai impadroniti delle sue trippe. Nelle ore precedenti la performance io gli ero vicino, e ricordo che somigliava a un eroe leggendario che non solo destava ammirazione e commozione, ma alimentava anche il sospetto che qualcosa di eccessivo e negativo si fosse impadronito di lui. Durante la penetrazione della lavatrice il volto di A.P. si trasfigurava passando da una gioia evangelica a una collera tanatica, attraverso la tracotanza, la superbia, il desiderio di espiazione e di martirio, senza dimenticare il senso di gratitudine e riparazione, il grande coraggio, la giusta ambizione, persino la sollecitazione amorosa e altruistica, il desiderio di purificazione e, ultima ma non meno importante, la disubbidienza rivoluzionaria. Tuttavia A.P. aveva chiesto troppo alla capacità di modellazione plastica del suo culo d’artista: per quanto talentuosamente dotato la penetrazione produsse un’emorragia mortale. La sua morte è stata la sua opera più importante. Lo ricordo ancora fatalmente incollato alla lavatrice, l’occhio corrucciato secondo il suo solito, mentre l’elettrodomestico lo avvolge quasi con le sue grandi ali di metallo che assecondano quel corpo di marionetta dai fili spezzati in un abbraccio assiduo, micidiale, ma anche compassionevole. È in questa posa che voglio ricordarlo.