andersen6.jpgdi Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da L.A., ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia. Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]

Cap. XIII
“Stavo per compiere i quattordici anni e la mamma pensò bene di cresimarmi. Era un passo necessario perché potessi presentarmi come apprendista dal sarto e iniziassi a combinare qualcosa di utile. Mi amava di tutto cuore, ma non capiva le mie aspirazioni, né, d’altra parte, le capivo io. La gente che le stava intorno continuava a biasimare la mia condotta, mettendomi in ridicolo, e lei ne soffriva. La nostra parrocchia era quella di San Canuto. I cresimandi potevano iscriversi o dal prevosto o dal cappellano. Dal primo, in genere, andavano i figli delle famiglie per bene, insieme con gli alunni del ginnasio, dal secondo i piú poveri, che rimanevano nel fondo della chiesa. Io mi presentai al prevosto, che fu costretto ad accettarmi, non senza attribuire a pura vanità il mio desiderio di essere inserito tra i suoi cresimandi. Ma io sono certo che non era solo la vanità, la mia: in realtà avevo paura dei ragazzi poveri che mi avevano deriso, e sentivo sempre il desiderio di avvicinarmi agli studenti di ginnasio, che ritenevo molto migliori degli altri. Quando giocavano nel giardino del cimitero li spiavo attraverso l’inferriata e desideravo essere tra quei fortunati, non tanto per il gioco, quanto per i molti libri che possedevano e per ciò che sarebbero potuti diventare nel mondo. Iscrivendomi dal prevosto avrei potuto trovarmi in mezzo a loro, essere come loro.”

“E come ti accolsero?”
“Dovettero occuparsi ben poco di me, se non ho serbato alcun ricordo di essi. Avevo, anzi, ogni giorno di piú la sensazione di essermi introdotto in un luogo che non mi compteva, e lo stesso prevosto non mancava di farmelo sentire. Quando, una volta, recitai alcune scene di una commedia presso gente di sua conoscenza, mi chiamò da parte e mi fece osservare l’inopportunità di una cosa simile nei giorni in cui mi stavo preparando per la cresima. Aggiunse che se gli fosse venuto ancora all’orecchio qualcosa del genere, mi avrebbe cacciato. Ne rimasi fortemente impaurito e umiliato. Eppure almeno una persona mi dimostrò bontà e amicizia: una certa Teonder-Lund, una cresimanda trattata con piú riguardo di tutti gli altri. Lei soltanto mi dimostrava maniere amichevoli e mi salutava. Una volta arrivò persino a regalarmi una rosa e quel giorno andai a casa felice, perché esisteva una persona che non mi guardava dall’alto al basso e non mi respingeva.”
“E la cresima come andò?”
“Una vecchia sarta mi adattò per l’occasione il soprabito del mio defunto papà. Mi pareva di non aver mai indossato un abito cosí elegante, e per la prima volta nella mia vita calzai anche degli stivaletti, che mi riempirono di una gioia straordinaria. Temevo solo che non tutti potessero vederli, per cui decisi di abbottonarli sopra i calzoni e, cosí combinato, avanzai in mezzo alla chiesa. Gli stivaletti scricchiolavano e io ero felice che la congregazione sentisse che erano nuovi, ma la mia devozione ne era turbata. La coscienza mi rimordeva aspramente, perché il mio pensiero andava alle mie calzature nuove nella stessa misura che al buon Dio. Lo pregai di tutto cuore di perdonarmi.”

Cap. XIV

“Nel corso dell’ultimo anno avevo messo da parte tutti gli scellini ricevuti in diverse occasioni, e al conto trovai che assommavano a tredici talleri d’argento. Il possesso di una simile ricchezza mi inebriò, e poiché la mamma affermava piú che mai la necessità di farmi entrare come apprendista dal sarto, cominciai a insistere affinché mi lasciasse tentare la fortuna con un viaggio nella capitale. Copenaghen mi appariva, allora, la piú grande città del mondo. Volevo diventare famoso. Avevo letto di uomini celebri nati in povertà e mi ero convinto che occorreva passare per tutta una serie di aspre tribolazioni prima di poter diventare famosi. Mi spingeva un istinto inspiegabile. Sognavo un indistinto futuro di drammaturgo, di attore, di cantante, di ballerino. Piansi e pregai e, alla fine, la mamma cedette. Ma prima di lasciarmi partire mandò a chiamare una cosiddetta ‘vecchia sapiente’ dell’ospizio, perché mi predicesse il futuro con le carte e i fondi di caffè. ‘Suo figlio diventerà un grand’uomo!’, sentenziò la vecchia, ‘e in suo onore un giorno la città di Odense verrà illuminata a festa.’ All’udire questo la mamma scoppiò in singhiozzi e non fece piú obiezione al viaggio. Invano i vicini tentarono di scoraggiarla, osservando che era una follia permettere a un quattordicenne di andare tutto solo nella grande capitale, pur essendo ancora cosí infantile sotto tutti i punti di vista. Copenaghen era distante molte miglia, e là non conoscevo nessuno. Mia madre rispose che era stata costretta ad accontentarmi pur sapendo che non mi sarebbe servito a nulla. ‘Sono sicura che non arriverà piú in là di Nyborg’, aggiungeva. ‘Quando vedrà il mare in tempesta si impaurirà e tornerà indietro e allora, finalmente, si deciderà a fare il sarto!’. La nonna sospirava: ‘Ah, se potessimo almeno impiegarlo in un ufficio qui in città! Sarebbe un lavoro distinto, proprio quello che ci vuole per Hans Christian!’. Ma la mamma ribatteva: ‘Lascia solo che arrivi fino a Nyborg!’.”

Cap. XV

“L’estate precedente la mia cresima, una parte degli attori e cantanti del teatro reale era stata a Odense per una serie di opere e tragedie di cui tutta la città ancora parlava. Io, che ero in buoni rapporti con l’incaricato dei manifesti, non solo avevo seguito da dietro le quinte tutte le rappresentazioni, ma vi avevo anche figurato come paggio e come pastore. Una volta avevo addirittura pronunciato un paio di battute in ‘Cenerentola’, un’opera di Etienne musicata da Isouard. Il mio entusiasmo era cosí forte che gli attori, al loro arrivo, mi trovavano già vestito di tutto punto negli spogliatoi. Questo attirò su di me la loro attenzione. Il mio carattere infantile e il mio entusiasmo li divertivano, tanto che mi parlavano amichevolmente, specialmente Haack ed Enholm. Per me erano come degli dei in terra. Tutto ciò che avevo sentito dire fino a quel giorno sulla mia voce e sulla mia disposizione a recitare versi e monologhi mi apparve chiaro: ero nato per fare l’attore, e la meta delle mie aspirazioni divenne, appunto, il teatro di Copenaghen. Per molti, e specialmente per me, il soggiorno degli attori a Odense era stato un vero avvenimento. Se ne parlava con entusiasmo, e tutti i discorsi terminavano con la frase: ‘Beato chi va a teatro a Copenaghen!’. Alcuni vi erano stati e parlavano di un certo ‘balletto’, che, secondo loro, superava di gran lunga l’opera e le commedie. La figura piú influente era la prima ballerina, Madame Schall, che di conseguenza iniziai a considerare come la regina di tutto il complesso. Se solo fossi riuscito a ottenere la sua protezione e la sua amicizia, non avrebbe esistato ad aiutarmi a conquistare fama e fortuna.Tutto compreso in quel sogno mi recai dal vecchio editore Iversen, uno dei cittadini piú rispettabili di Odense, il quale, come sapevo, aveva intrattenuto rapporti quasi giornalieri con gli attori, durante il loro soggiorno a Odense. Poiché li conosceva tutti, doveva certamente conoscere anche la danzatrice. Decisi di chiedergli una lettera di presentazione per lei e, se mi avesse accontentato, Dio avrebbe fatto il resto.”
“E come andò?”
“Il vecchio editore, che mi vedeva per la prima volta, ascoltò bonariamente la mia richiesta, poi mi sconsigliò nel modo piú assoluto di intraprendere un simile viaggio. Secondo lui avrei fatto meglio a imparare un mestiere. Gli risposi che questo sarebbe stato un vero peccato ed egli se ne stupí. La famiglia mi riferí, in seguito, che furono proprio quelle parole ad accattivarmelo. Non conosceva personalmente la danzatrice, ma accettò comunque di scrivere una lettera per lei. La presi convinto di avere la porta della fortuna già aperta. La mamma mi preparò un fagotto con un po’ di vestiti e chiese al postiglione di una carrozza della posta di farmi viaggiare come clandestino: la cosa venne combinata e pagai solo tre talleri per l’intero viaggio. Arrivò, finalmente, il pomeriggio della partenza. La mamma mi accompagnò alla porta della città, dove trovai ad aspettarmi la nonna, i cui bei capelli, di recente, erano diventati grigi. Ella mi abbracciò piangendo, incapace di pronunciare una sola parola, e anch’io mi sentii profondamente commosso. Ci separammo e non la vidi mai piú. Morí l’anno dopo, e fu sepolta nel cimitero dei poveri.”
“Raccontami del viaggio a Copenaghen.”
“Il postiglione diede il segnale. Era un bel pomeriggio luminoso e ben presto il sole rallegrò la mia anima fiduciosa e infantile. Ero diretto verso la meta delle mie aspirazioni e gioivo di tutte le novità che incontravo, ma quando, presso Nyborg, arrivai al grande Belt, il braccio di mare che separa la Fionia dalla Selandia, e la nave si staccò dalla mia isola nativa, sentii fino a che punto fossi rimasto abbandonato a me stesso, senza nessuno che potesse piú vegliare su di me, all’infuori di Dio. Appena toccata terra, in Selandia, mi inginocchiai sulla spiaggia dietro una capanna e implorai il Signore che mi concedesse guida e protezione. Subito mi sentii sollevato e pieno di fiducia in Lui e nella mia buona stella. Per tutto il giorno e la notte traversai paesi e villaggi. Durante le operazioni di caricamento me ne stavo in disparte accanto alla diligenza, sbocconcellando un tozzo di pane. Ogni cosa mi era nuova, e mi pareva di essermi spinto assai lontano nel vasto mondo.”

Cap. XVI

“Vidi per la prima volta Copenaghen la mattina di lunedí 6 settembre 1819, dalla collina di Frederiksberg. Là scesi col mio fardello. Traversai il parco, il grande viale e la periferia, e finalmente entrai in città. La sera precedente era scoppiato un pogrom antiebraico, che si era esteso a diversi paesi europei. Tutta la città era in agitazione e le strade piene di folla. Il frastuono e la confusione eccedevano di gran lunga l’idea che mi ero fatto di quella che, a quel tempo, mi appariva la capitale del mondo intero. Presi alloggio, con meno di dieci talleri in tasca, in una delle locande minori, la ‘Locanda dei guardiani’, vicino al porto settentrionale, per il quale ero passato al mio arrivo. La mia prima meta in città, naturalmente, fu il teatro. Girai piú volte attorno alle sue mura, considerando l’intero edificio come un rifugio che mi era ancora precluso. Un venditore di biglietti all’angolo mi fermò chiedendomi se ne volessi uno. Io ero cosí ignaro del mondo e di Copenaghen che pensai intendesse regalarmelo, per cui lo ringraziai con parole calorose, ma quello pensò che volessi prendermi gioco di lui e si arrabbiò, tanto che dovetti scappare via spaventato dal luogo a me piú caro. Non immaginavo certo che, di lí a dieci anni, vi sarebbe stato rappresentato il mio primo lavoro drammatico, e che in quel teatro sarei comparso dinanzi al pubblico di Danimarca. Il giorno dopo indossai gli abiti della cresima, senza dimenticare gli stivaletti, che questa volta, logori com’erano, nascosi sotto i calzoni, e cosí agghindato e con il cappello calato sopra gli occhi mi recai a presentare la mia lettera di raccomandazione a Madame Schall, la danzatrice. Prima di suonare il campanello della sua casa, caddi in ginocchio davanti alla porta, pregando il Signore di aiutarmi a trovare l’aiuto e la protezione di cui avevo bisogno. Proprio in quel momento scendeva, con la borsa della spesa al braccio, una cameriera che mi sorrise amichevolmente e che, postimi in mano sei scellini, proseguí. Rimasi a fissare incredulo lei e la moneta. Avevo gli abiti della cresima, dovevo essere elegantissimo, come aveva potuto credere che chiedessi la carità? La richiamai, ma la donna mi gridò di tenermelo pure, e scomparve.”
“E dunque Madame Schall non ti ricevette?”
“Sí, invece. Quando, finalmente, fui ammesso alla sua presenza, mi guardò e mi ascoltò con grande meraviglia. Non conosceva affatto il vecchio Iversen, l’autore della lettera, e tutta la mia figura le appariva singolarissima. Le espressi alla mia maniera il mio ardente desiderio di fare del teatro, e alla sua domanda sulle parti che ritenevo di poter interpretare, risposi ‘Cenerentola! Mi piace tanto!’. Gli attori della compagnia reale avevano dato quel lavoro a Odense, e la parte principale mi aveva commosso al punto che ero in grado di recitarla tutta a memoria. Volli dimostrarglielo e poiché era ballerina pensai che l’avrebbe probabilmente interessata la scena in cui Cenerentola danza: chiesi, perciò, il permesso di togliermi le scarpe per l’agilità necessaria alla parte e, brandendo il cappello e battendolo a mo’ di tamburino, mi misi a danzare cantando: ‘Cos’è mai la ricchezza? Che cosa son mai gloria e splendore?’ ”
“E Madame Schall?”
“Le mie strane mosse, tutta la mia stupefacente vivacità fecero sí che la danzatrice, come ella stessa ebbe a dirmi parecchio tempo dopo, mi prendesse per pazzo e si affrettasse a congedarmi.”
“Accidenti! E che cosa facesti, allora?”
“Mi recai dal consigliere Holstein, il direttore del teatro, per chiedergli una parte: egli mi guardò e osservò che ero troppo magro per recitare. ‘Oh,’ risposi, ‘con uno stipendio di cento talleri ingrasserò facilmente!’. Ma il consigliere mi indicò bruscamente la porta, aggiungendo che si accettavano solo uomini provvisti di istruzione.”
“Posso immaginare la tua delusione.”
“Rimasi profondamente abbattuto, senza nessuno che potesse consigliarmi o confortarmi, e pensai alla morte come all’unica possibile soluzione. Il mio pensiero volò a Dio, e in Lui mi rifugiai con la fiducia di un bimbo verso il padre. Mi dicevo tra le lacrime: ‘Egli attende che tutto vada male per inviare il Suo aiuto, l’ho letto nei libri! Occorre prima soffrire duramente, se si vuole riuscire in qualcosa!’. Il giorno dopo pagai il conto alla locanda e constatai che tutto il mio patrimonio si era ridotto a un solo tallero. Non mi restava che decidere se tornare subito a casa su un battello o diventare apprendista presso qualche artigiano di Copenaghen. Quell’ultima soluzione mi parve la migliore. Se fossi tornato a Odense, avrei dovuto fare egualmente l’apprendista, e prevedevo che, dopo un simile insuccesso, la gente a casa avrebbe riso di me. Meglio, dunque, farlo a Copenaghen. Il tipo di mestiere mi appariva del tutto indifferente, dato che l’avrei scelto al solo scopo di sbarcare il lunario in città.”
“E a chi ti rivolgesti?”
“A una signora di Copenaghen, che aveva viaggiato insieme a me da clandestina. Lei mi ospitò a casa sua e mi diede da mangiare, anzi venne con me a comprare un foglio di annunci economici, sul quale leggemmo che uno stipettaio abitante nella Borgergade era disposto ad assumere un apprendista. Mi presentai e l’uomo mi accolse con gentilezza, ma disse che, prima di accettarmi stabilmente, avrebbe dovuto ricevere da Odense un attestato della mia onestà e qualche altra notizia su di me e sui miei genitori. Avrei dovuto, inoltre, consegnargli il mio certificato di battesimo. Nel frattempo, se non avevo altro luogo, potevo sistemarmi da lui e verificare subito se ero fatto per il mestiere.”
“E come andò?”
“Già alle sei del mattino seguente ero al laboratorio, dove trovai diversi ragazzi e garzoni che chiacchieravano allegramente. Il padrone non si era ancora alzato e i loro discorsi erano piuttosto sboccati. Io, invece, ero timido come una fanciulla e non appena se ne accorsero mi presero di mira con i loro scherzi. Le beffe che si fecero di me per tutta la giornata passarono i limiti della mia sopportazione, tanto che, ricordando la scena della fabbrica, mi spaventai e scoppiai a piangere, deciso ad abbandonare il laboratorio e il mestiere. Corsi dal padrone e gli dissi che non potevo sopportare quei discorsi e quegli scherni, che non avevo disposizione per il mestiere e che intendevo ringraziarlo e salutarlo. Mi ascoltò stupito e cercò invano di consolarmi. Ero troppo scosso e abbattuto e me ne andai senza indugio.”
“E dunque?”
“Mi ritrovai di nuovo sul lastrico, abbandonato, senza un conoscente. Ma ricordai di aver letto nei giornali di Odense che un italiano, un certo Siboni, era stato nominato direttore del Conservatorio reale di Copenaghen. Tutti avevano lodato la mia voce e forse lui si sarebbe interessato a me, altrimenti non mi sarebbe rimasto che cercare quella sera stessa una nave in partenza per la Fionia. Al pensiero di ritornare a casa mi sentii di nuovo terribilmente turbato, e in quello stato d’animo andai a trovare Siboni. Quando giunsi a casa sua, scoprii che aveva a cena degli invitati di riguardo, tra i quali il famoso musicista Weyse e il poeta Baggesen. Alla cameriera venuta ad aprirmi espressi non solo il mio desiderio di trovare lavoro come cantante, ma narrai anche tutta la storia della mia vita. Lei mi ascoltò con grande comprensione e probabilmente riferí al padrone parte di ciò che aveva udito, perché attesi a lungo il suo ritorno. Quando riapparve era seguita da tutti gli invitati, che mi osservarono in gruppo. Siboni mi accompagnò in una stanza con il pianoforte e mi invitò a cantare. Declamai, poi, scene di Holberg e qualche poesia, e la commozione per il mio infelice stato mi sopraffece al punto che piansi lacrime vere. Tutta la compagnia mi applaudí. Baggesen previde che un giorno sarei diventato qualcuno e mi ammoní a non insuperbirmi per gli applausi del pubblico. Aggiunse varie osservazioni sulla sana e semplice naturalezza che va perduta con l’età e i rapporti con gli uomini. Da parte mia non comprendevo del tutto quanto mi diceva, ma certo dovevo essergli parso un singolare figlio della natura, una peculiarissima figura, per non dire ‘personalità’. Prestavo incondizionata fede alle parole di tutti e credevo che ognuno volesse il mio bene, perciò presi ad esprimere ogni pensiero che mi passava per la mente. Siboni promise di educarmi la voce e sostenne che avrei potuto presentarmi al teatro reale come cantante. Ero molto felice, piangevo e ridevo, e la cameriera, che nell’accompagnarmi fuori vide la mia commozione, mi accarezzò una guancia e mi consigliò di recarmi l’indomani dal professor Weyse, che, disse, mi aveva preso a benvolere. Anche Weyse, infatti, era giunto al successo iniziando da ragazzo bisognoso, per cui doveva avere compreso profondamente la mia infelice condizione. Quando andai da lui, appresi che, sfruttando la circostanza, aveva promosso per me una colletta di ben settanta talleri, una vera ricchezza! Per il momento, mi disse, avrei potuto ricevere da lui dieci talleri al mese. Scrissi subito la mia prima lettera a casa, annunciando la meravigliosa fortuna che mi era capitata. La mamma la mostrò giubilante a tutti quanti. Alcuni la stettero ad ascoltare meravigliati, altri si limitarono a sorridere. Che mai sarebbe potuto venire da tutto ciò?”
“E diventasti o no un cantante?”
“Purtroppo no. Frequentai per nove mesi la casa di Siboni, da cui presi lezioni di canto, poi, sul piú bello, persi la voce.”
“E come mai?”
“Perché proprio quando essa stava mutando, per tutto l’inverno e la primavera ero stato costretto a camminare con le scarpe in cattivo stato, tanto da avere i piedi continuamente bagnati. La voce mi scomparve, e con essa la prospettiva di diventare un bravo cantante. Siboni mi chiamò da parte e me lo disse apertamente, consigliandomi, adesso che cominciava l’estate, di tornare a casa e di imparare un mestiere. Allora scrissi al poeta Guldberg, il fratello del colonnello Guldberg di Odense, che era stato cosí buono con me, e mi presentai a casa sua. Lo trovai in un mare di libri e di pipe. Promise di impartirmi lezioni di ortografia danese e di tedesco e mi donò i proventi di una sua pubblicazione composta per il genetliaco di Federico VI. Il fine benefico si riseppe e furono raccolti piú di cento talleri. Anche Weyse continuò a interessarsi a me. Guldberg persuase l’attore Lindgreen a istruirmi nella recitazione e l’abate Bentzien, suo amico, a impartirmi due lezioni settimanali di latino. Il bibliotecario Rasmus Nyrup, infine, mi concesse dei libri in prestito.”