di Kàrol Kerényi
[da Nel labirinto, Bollati Boringhieri, 1983]

kerenyi.jpgDa quando si è accertato che a Cnosso, fulcro della cultura cretese
del palazzo, tra il 1500 e il 1400 a. C. si parlava già greco
e che oltretutto si scriveva già in questa lingua, l’ellenista
si chiede ormai un po’ imbarazzato con quale testo debba avviare l’iniziazione
del suo pubblico di ascoltatori o di suoi lettori al mondo spirituale
greco.
Se si decide di prender le mosse dal testo più antico, non si
può più utilizzare il verso epico, il primo dell’Iliade:
"Cantami, o dea, l’ira del Pelide Achille." Le iscrizioni
di Cnosso, di Micene e del piccolo palazzo di Pilo, infatti, sono più
antiche di molti secoli rispetto a quel verso, e ad ogni altro dell’Iliade
o dell‘Odissea. Quelle iscrizioni, che cronologicamente precedono
tutta la produzione omerica, non contengono nulla di spirituale.

A tutt’oggi
risultano vere le parole che Spengler pronunciò già vent’anni
or sono: "Manca, in tutti i ritrovamenti fatti a Creta, quell’indicazione
di una coscienza storica, politica o anche biografica che invece ha
completamente dominato l’uomo della cultura egizia fin dall’epoca più
remota dell’Antico Regno. Le iscrizioni già lette o comunque
in qualche misura interpretate sono elenchi di proprietà o di
tributi dovuti a persone o anche a divinità, oppure liste di
. uomini tenuti a prestare dei servizi. L’osservazione di Spengler,
che del resto feci mia in altri tempi, viene confermata dalle pietre
sepolcrali delle necropoli micenee, che non ci hanno tramandato nomi:
non v’è traccia alcuna del bisogno di perpetuarsi in uno scritto.
Neppure il modo di immortalare omerico, per sua stessa natura, dipendeva
dalla scrittura: si basava infatti su una lingua poetica stereotipata,
che nella coscienza del poeta nasceva nei modi di un canto ispirato
da fonte divina, per venire poi recitata con una modulazione melodica
dalla voce; e ciò ancora nel tempo in cui la scrittura poteva
già porsi al servizio della memoria, che era la vera depositaria
dell’ opera orale. Anche dopo la decifrazione della scrittura micenea
non siamo ancora riusciti a recuperare alcuna di queste opere orali.
Nei più antichi monumenti della lingua greca possiamo tutt’al
più cercare costrutti di parole, oppure dati oggettivi, nei quali
con ogni probabilità risuona appena un accento della più
tarda poesia orale omerica o postomerica, e si annuncia un elemento
di quei prodotti dello spirito che, giunti fino a noi attraverso opere
artistiche e letterarie più tardive, sono ormai parte integrante
della nostra cultura. Oggi possediamo almeno un’iscrizione dietro la
quale si avverte pulsare lo spirito greco, nel senso che si è
detto: vi riecheggia il primo accento [Ton] di un mitologema,
di un racconto mitologico, rappresentato in tutte le sue molteplici
varianti in un gran numero di opere d’arte. Le opere d’arte alle quali
dava il"tono-base", schietto e obiettivo, non erano sempre
musica nel senso in cui lo è l’ultima versione per noi così
commovente: occasione per la danza, esse contenevano sempre una “figura
di danza". L’ultima versione prese la forma di un’opera lirica;
si chiamò Arianna a Nasso e fu composta da Richard Strauss
su versi di Hugo von Hofmannsthal. A titolo provvisorio e per nostra
comodità, con il tema che è alla base di questo poema
e di questa composizione musicale facciamo incominciare la storia delle
idee [Geistesgeschichte] della cultura greca: storia caratterizzata
dalla presenza costante e fondamentale dell’elemento poetico (e nel
poetico di quello mitologico), e solo più tardi dalla storia
e dai primi segni di vitalità di tutte le altre scienze. Quella
storia, a voler esser precisi, non si inizia ovviamente proprio con
l’Arianna a Nasso, bensì con un’iscrizione su Arianna
a Creta
: nel greco preomerico di una tavoletta di Cnosso uno scrupoloso
e attento glottologo per primo lesse delle parole che non solo riuscì
a interpretare dal punto di vista linguistico, ma che segnalò
anche come uno dei risultati più importanti delle decifrazioni.
Noi vogliamo qui riflettere solo su un punto specifico, ossia in quale
contesto di vita e di pensiero si debba inserire questa frase: "Miele
alla Signora del Labirinto." Così dice il testo, che è
solo la prescrizione di un’ offerta, e che non può quindi entrare
nella storia della letteratura; certamente però esso merita spazio
nella storia delle religioni. Un’altra iscrizione sulla stessa tavoletta
dice: "Miele a tutti gli dèi." Così incomincia
la nostra storia delle religioni europee: ed è un aspetto sul
quale non intendo insistere troppo in questa sede solo perché
ora il verso cretese (che ci offre la prima specifica menzione mitologica
di Arianna come" Signora del Labirinto") deve essere per così
dire ridedicato (riconsacrato) all’Arianna di tutti i successivi poeti.
Spenderò ancora qualche parola solo sull’ offerta del miele,
giacché essa coinvolge anche quelle aree della nostra storia
delle idee, in cui Arianna divenne un simbolo misterioso e profondo
non solo per i poeti, ma anche per il filosofo. "Chi, all’infuori
di me, sa che cos’è Arianna!…" si vantava Nietzsche nel
suo Ecce Homo: ed era quel Nietzsche il cui Zarathustra diceva
ai suoi animali scalando un’alta montagna: "Ma fate che là
io abbia del miele; miele dorato, miele di favo, giallo, bianco, fresco
come il ghiaccio, buon miele. Giacché, sappiate, lassù
voglio fare il sacrificio col miele." L’offerta che qui lo Zarathustra
di Nietzsche finge soltanto di compiere, per lasciarsi dietro alle spalle
anche la più pura forma di paganesimo, è una forma arcaica
del sacrificio. Fin dalla primissima età della pietra il miele
era un nutrimento anche per gli uomini, e a partire da tempi immemorabili
nelle religioni del bacino mediterraneo (e non solo in esse) fu considerato
un’offerta degna degli dèi. Il più dolce cibo degli dèi
corrispondeva esattamente alla loro natura felice e dispensatrice di
beatitudine. Il primissimo nutrimento degli dèi, che precedette
anche l’ambrosia, era il miele. L’omerico Inno ad Hermes lo
chiama "il dolce cibo degli dèi" e tale esso rimase
fino alla tarda antichità, dal momento che anche allora si continuava
a dire: "Il miele infatti è il cibo degli dèi."
Nella mitologia delle divinità più antiche, uno degli
dèi, Crono, giungeva all’ebbrezza con il miele: allora infatti,
prima della nascita di Dioniso, il vino non c’era ancora. La parola
greca che significa" placare gli dèi" [µε&ιλισσω]
viene dalla parola miele [µελι], in una forma
che ne tradisce l’uso anche in campo non greco. "Mielose",
"dolci come il miele" erano in particolare le divinità
infere: da esse, secondo l’ideologia dell’antica religione preomerica
e di quella che in varia forma sopravvisse anche ad Omero, ci si aspettava
una grande beatitudine. La prescrizione dell’offerta "Miele alla
Signora del Labirinto" evoca anche tutto questo, oltre che la figura
di Arianna, l’eroina che nel mito greco è legata al labirinto.
A titolo provvisorio e per nostra comodità, facciamo pure cominciare
la storia delle idee della cultura greca con un testo come questo, o
come l’altro che compare sulla stessa tavoletta: "Miele a tutti
gli dèi." Per la prima volta nell’ambito del mondo di lingua
greca possiamo spingerci, fondandoci su un testo, nello spazio preomerico;
e una cosa del genere non era mai accaduta finora nella storia dell’archeologia
classica. Soprattutto non era mai accaduta in questi termini, giacché
qui non appaiono solo nomi e oggetti come su altre tavole, ma riecheggia
anche un famoso tema, i cui elementi si offrono al confronto nella loro
forma più antica e in quella più recente: proprio quella
forma "nuova" si inizia già con Omero e si conserva
giungendo fino a Nietzsche e a Hofmannsthal.
Due sono quindi gli elementi fondamentali: il Labirinto per un verso,
per l’altro la sua Signora, una dea che riceveva in offerta del miele.
Un ragionamento paradossale e allo stesso tempo assolutamente indiscutibile
ci impone di pensare a una dea: un vaso pieno di miele, come quello
chiaramente indicato sulla tavoletta, non sarebbe stato sufficiente
per una regina terrena; invece poteva senza dubbio bastare per una regina
degli inferi. Essa è una dea: è la Signora del Labirinto.
Ma che sfera di dominio potrebbe mai rappresentare per una dea il labirinto,
se questo termine stesse a indicare soltanto una costruzione prodotta
da mano umana (sia pure la mano di un artista del livello di Dedalo)?
Il regno di quella dea non era un edificio. Quella che l’artista Dedalo
costruì poteva essere solo la copia dell’universo su cui la dea
dominava. Secondo Omero, era un luogo per la danza costruito a Cnosso
per Arianna; nel mito postomerico divenne un edificio la cui pianta
era costituita da un intrico di corridoi [Irrgang] entro cui,
secondo questa tarda tradizione, era tenuto nascosto lo scandalo della
famiglia di Minosse, il Minotauro, un essere per metà uomo e
per metà toro, fratellastro di Arianna. Il labirinto appariva
così solo nella sua forma postomerica. E però mantenne
anche in seguito, come pianta, nelle raffigurazioni greche e sulle monete
di Cnosso, la forma di un meandro a molte volute, di una più
semplice linea a chiocciola e a meandro (ossia una spirale angolata),
o anche di un intrico di vie che da essa si sviluppavano. La figura
poteva anche essere danzata, in origine: e venne infatti danzata, a
Delo, dai giovani e dalle fanciulle che Teseo aveva strappato al labirinto,
rendendo loro la libertà. Se ci si immaginava il labirinto come
edificio, allora si poteva anche rappresentarlo come una danza circolare
che si riavvolgeva per così dire ritornando indietro da un punto
centrale.
Nell’Iliade la costruzione che Dedalo innalzò per Arianna
era, s’è detto, un luogo per la danza; ed era anche una copia
della vera sfera su cui si estendeva il dominio della Signora del Labirinto
(addirittura prima del più tetro edificio infero del mito postomerico):
era il mondo degli inferi illuminato da un particolare angolo di visuale,
che consentiva di raffigurarlo mediante la linea spiraliforme che si
riavvolgeva ritornando su sé stessa, all’indietro. Prima di Omero
il mondo degli inferi era pensato come un labirinto a spirale; la possibilità
di ritornare da quel mondo veniva chiesta come una grazia alla regina
degli inferi. Laggiù la Signora del Labirinto regnava nelle vesti
di Arianna, Ariadne, ovvero la "purissima": questo
appunto significa il suo nome, che nella concezione greca dovette sembrare
particolarmente adatto alla regina degli inferi, detta anche con nome
pregreco Persefone. Non solo ella poteva liberare qualcuno dagli Inferi,
se lo voleva, ma poteva lei stessa ritornare indietro da quel luogo,
ed era allora la "chiarissima", quell’ Aridela che
sta nel cielo, come veniva chiamata anche a Creta con un altro nome
greco. Come figura preomerica era la fanciulla divina dei cretesi, una
dea lunare: non però semplicemente la luna, bensì anche
una signora del Regno dei morti, una dea piena di grazia, che aveva
il potere di ricondurre alla vita.
A partire da Omero, ella divenne quindi una principessa mortale, la
figlia del re cretese Minosse; e il suo destino subiva un’identica svolta.
Piena di grazia essa era solo come poteva esserlo una fanciulla mortale
innamorata. Con il suo consiglio e il suo filo, o anche (secondo un’antica
versione del mito) con la sua corona che risplendeva negli oscuri intrichi
di vie del labirinto, ella aiutò il bel giovanetto ateniese Teseo
a ritornare sano e salvo da un viaggio che prometteva sicura morte.
La fanciulla fu poi uccisa da Artemide per desiderio di Dioniso (anche
questa è un’antica versione del mito, alla quale accenna già
l’Odissea). La vicenda si svolse sull’isola di Dia: non è
chiaro se si trattasse dell’isoletta che si trova di fronte al porto
di Cnosso, oppure invece di Nasso, che un tempo veniva anch’essa chiamata
Dia. Soltanto fino a lì Teseo riuscì a tenerla prigioniera.
Però, secondo una variante più tarda, che tutti conosciamo
bene e che è stata ripresa anche da Hofmannsthal, la fanciulla
non morì; fu solo abbandonata sull’isola immersa in un sonno
profondo: e così Dioniso trovò la sua Arianna, sulla quale
egli vantava un antico diritto. Insieme a lei Dioniso salì al
cielo sul suo carro; e lassù ancor oggi brilla luminosa la "corona"
di Arianna.
Per i poeti successivi non era più così evidente il fatto
che Dioniso ri-trovasse Arianna, riportandola indietro. Se egli non
avesse avuto quell’antico diritto su di lei, non avrebbe potuto pretendere
da Artemide la sua punizione. Un vaso tarantino non ancora pubblicato
mostra Teseo che indietreggia davanti al dio, e Dioniso che si impadronisce
della dormiente. Il presupposto di tutti i racconti relativi ad Arianna
è il suo antico, segreto legame con il dio, la cui presenza nella
sfera in cui è immersa la Signora del Labirinto ormai non è
testimoniata unicamente da un nome (presto potremo sentirne
altri). L’amore di Dioniso per Arianna fa parte del quadro dell’antica
cultura cretese, che viene lentamente dispiegandosi davanti ai nostri
occhi.