di Serge Quadruppani

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Si è spesso, e a ragione, fatto osservare che le distruzioni (di veicoli e di immobili) conseguenti ai disordini di novembre, non hanno avuto altro effetto immediato che rendere ancora più diifficile la vita nei quartieri popolari. Si è meno spesso fatto notare che, se il governo Villepin-Sarkozy è oggi deciso a restituire, almeno in parte, i finanziamenti a sostegno delle banlieues che aveva soppresso, è proprio grazie al campanello d’allarme che questa rivolta è stata. Anche una parlamentare della maggioranza (UMP) lo dice oggi: “Quello che è successo nelle banliues non è che l’espressione della disperazione. Quelli che sono stati definiti “émeutiers” ne erano i porta-parola”.

La disperazione ha un’origine ben precisa: disoccupazione, razzismo, discriminazione. “Non stupisce quindi”, scrivono due sociologi in un eccellente articolo (1) rifiutato da Le Monde e Liberation “se i giovanissimi delle famiglie immigrate, che vedono ogni giorno la situazione nella quale si trovano i loro fratelli maggiori – a 25-30 anni, abitano ancora in famiglia e vagano da un precariato all’altro senza speranza di lavoro stabile – sono tentati di radicalizzarsi sempre più presto. Questo gruppo di minori che abitano nella Cité, che è descritta come sempre più dura, non è nato per generazione spontanea ma costituisce, al contrario, una generazione sociale che è cresciuta nella crisi e nella precarietà, che ha spesso e volentieri assistito al “disastro” nelle loro famiglie…
Cosa fa il prigioniero quando non sopporta più la prigione? La rende ancora più insopportabile, e comincia spesso con il bruciare il proprio giaciglio. La difficoltà essenziale, per stabilire alcune linee di comunicazione con i giovani ribelli delle Cités, è che la prigione in cui sono rinchiusi è anche in gran parte mentale. Adorazione della mercanzia più una dose variabile di identità religiosa in kit, machismo (notevole l’assenza di donne in questa rivolta), clanismo, chiusura nella “Cité” – immaginaria (sfida permanente con la cité dirimpetto) quanto reale (i trasporti sono cari): le barre della prigione non mancano. La difficoltà essenziale è che i ribelli non hanno l’aria di esser pronti a uscire da questa prigione, unico spazio di solidarietà conosciuto. A tutti coloro che condividono il fondo della loro rivolta, spetta dunque il compito di sviluppare altri spazi di solidarietà.

Assente dall’Europa tutto il mese di novembre, sono stato abbastanza stupito, al mio ritorno, di scoprire la debolezza delle reazioni alla riattivazione di una legge coloniale che aggrava la segregazione e la marchiatura di popolazioni intere, con un coprifuoco che punisce la totalità degli abitanti di quartieri-ghetto, con centinaia di condanne in prigione, senza condizionale, in condizioni arbitrarie raramente uguagliate. Se si crede ai sondaggi (sapendo certamente che i sondaggi valgono più per quello che vanno fabbricando che per quello che rivelano), sembra che il “popolo di sinistra” acconsenta sordamente alla messa a distanza di sicurezza della parte più povera delle classi popolari. Ragione di più per andare controcorrente. L’oceano sociale è agitato da tante di quelle correnti e controcorrenti, che si può supporre che la situazione, a quel livello, non abbia niente di eterno.
Noi abbiamo, in pochi, lanciato una petizione (2) per l’amnistia dei ribelli di novembre, che ha conosciuto un successo inatteso, con più di 1300 firme, tra cui parecchie persone note, molte persone legate al territorio (professori, assistenti sociali, abitanti delle banlieues, rappresentanti locali…) e una notevole assenza, tranne qualche eccezione, degli autori di polars. La solidarietà internazionale, già presente con qualche firma, sarà la benvenuta.

(1) La “racaille” e les “vrais jeunes”, critica d’una visione binaria del mondo delle cités, di Stéphane Beaud et Michel Pialoux, leggibile qui.
(2) Si può firmare direttamente sul sito di Samizdat.

(Tradotto da Maruzza Loria)