di Daniela Bandini

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[Di questo romanzo di eravamo già occupati, con una recensione di Chiara Cretella. Ora proponiamo una seconda recensione, di Daniela Bandini. Inutile dire che riteniamo il libro importante.] (V.E.)

Una precisazione, subito. Questo libro è, come ben precisa lo stesso autore, basato su documenti d’epoca e fatti realmente accaduti per l’80%, confutabili per il 7% e per il 13% pura invenzione.
Questo prezioso e coinvolgente lavoro di Romitelli ci porta, attraverso il tono suadente dell’autobiografia, a ripercorrere e forse scoprire i fatti che accaddero nella Bologna del fine Settecento, quando giunse l’armata di Bonaparte. Il nostro eroe, erede di una delle famiglie più in vista di Bologna, Gioseffo Gioannetti, comincia le sue pagine da “questa tetra stanza, senza finestre, pervasa da un’umidità invincibile”, teatro della durissima prigionia del carcere di San Leo, dall’aprile 1800.

Gioannetti, nipote di uno zio Arcivescovo che condizionerà nel bene e nel male la sua intera esistenza, attore teatrale di successo, deve a uno scandalo ciò che lo segnerà per tutta la vita. Si innamora di una donna, attrice anch’essa, ma più anziana, e soprattutto poverissima ed ebrea. Risoluto nei suoi sentimenti, ostinato e ribelle alla famiglia che cerca in ogni modo di allontanarlo da lei, preferirà addirittura il manicomio piuttosto che rinnegare il suo amore.
Il tutto in una Bologna che conta 70 mila anime, una Bologna dove “le campagne gemevano sotto lo strapotere di pochi ricchi che vessavano la moltitudine dei contadini. Le maestranze della città erano tenute sotto l’oligarchia di alcune famiglie artigiane che avevano rapporti privilegiati con il Senato. Speculatori, truffatori, maestri di aggiotaggio facevano a gara con banchieri, tesorieri, finanzieri per trar vantaggi dall’anarchia monetaria oramai vigente nello Stato della Chiesa. L’inevitabile crisi degli opifici della canapa e delle sete, un tempo fonte prima della ricchezza cittadina, aumentava la moltitudine di poveri che sopravvivevano in lugubri branchi in ogni angolo di strada o nei pressi di lussuosi palazzi patrizi. Tra di essi pullulavano malati, storpi, ciechi e bimbi senza famiglia, ma anche ladri e gente pronta ad ogni sorta di nefandezze…”
L’omicidio in carcere di Zamboni, la scintilla rivoluzionaria che prende il gergo e le fattezze di quella giacobina, l’insurrezione agognata…. Colpevole di aderire a queste idee sovversive, e nel tentativo di allontanarlo dalla sua amante, Gioannetti finirà appunto, su volere della sua potente famiglia, in manicomio. Qui conoscerà, in un crescendo struggente, ingenuo e romantico, un personaggio, un ricoverato anch’egli per chissà quale colpa, che lo incamminerà alle letture dei trattati di Locke, allo Spirito delle leggi di Montesquieu, al Contratto Sociale di Rousseau, e poi l’Elvezio, il Condillac, il Voltaire, il Mirabeau, Vico, Filangeri e Vittorio Malvezzi. Quei nove mesi di manicomio furono una vera scuola politica per Gioannetti, il quale ricorderà con gratitudine perenne quel maestro affannoso e coltissimo che gli cambiò la vita. Un paziente come lui, che tornerà nel suo mutismo autistico una volta che Gioannetti uscirà dal manicomio, considerando concluso il suo ruolo.
“Libertà, verità e giustizia sarebbero restate estranee al nostro paese, finchè non si fosse apprestato un disegno patriottico, volto a edificare un unico Stato. Un unico Stato dove tutte le religioni fossero parificate e sottratte a ogni ingerenza temporale, dove ogni potente fosse tenuto a freno dal rigore delle leggi”, questo il progetto del maestro, e sottoscritto dall’allievo.
Nel frattempo Bologna si prepara alla ventata rivoluzionaria delle truppe francese e “così in Piazza Grande si vedeva il povero della città fraternizzare con il povero di fuori, mentre il popolo tutto si univa attorno al soldato straniero sì, ma liberatore…Di sbirri nemmeno l’ombra, e tutto intorno brulicava un eccitato e libero fermento di gente senza distinzioni di rango. Mentre nella notte più profonda, quando di solito il silenzio poteva essere rotto solo dai canti, ladri,i ubriachi, risuonavano alte le note della Marsigliese al cui coro subito partecipai tentando di correggerne le disparate intonazioni…”
Gioannetti sarà lo spirito di quegli anni, sarà l’utopia e la disperazione, sarà l’ostinazione e il fervore quasi infantile di un’Italia tanto lontana. Idealista e vorace come un’adolescenza che ha coinvolto un’intera città, alla quale tutti, per ideale o per convenienza, aderirono. E’ la Bologna delle osterie, dei portici con i suoi poveri, con il suo proletariato, è la stessa Bologna di certe serate d’inverno in centro di oggi, all’uscita di qualche “taverna”con alcuni bicchieri di troppo. La stessa, per tanti versi, di Gioannetti.
E’ talmente bello lasciarsi andare sulle pagine di questo libro, leggere la storia e diventarne protagonisti, ritrovare nelle ideologie passate le nostre convinzioni di oggi. E’ come ritrovarsi tra le mani un vecchio sussidiario dove riemergono le emozioni delle prime scritture, le vocali e gli svolazzi, mentre oggi affidiamo alla tastiera la genesi e il prologo dei nostri pensieri.
Ma in queste pagine di storia non si celebra “il funerale di Utopia”: ci sono le basi che hanno cambiato la storia, nell’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, nell’emancipazione femminile. Della libertà, della fraternità, dell’eguaglianza. Purtroppo non sono gli emblemi della Comunità Europea, né sono stampigliati sulla bandiera che la rappresenta. Invece delle stelline potrebbero tranquillamente metterci il simbolo dell’euro, dodici, ventidue, venticinque. Finalmente un simbolo riconoscibile e condivisibile da tutti i nostri governanti.
Viva Gioannetti, Zamboni, De Rolandis… Fate un brindisi anche a loro, quando vi capiterà di pensarci.