di Valerio Evangelisti

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George S. Schuyler, Mai più nero, postfazione di M.G. Fabi, ed. Voland, 2005, pp. 194.

Agli inizi degli anni Sessanta, il giornalista texano John Howard Griffin acquistò fama internazionale con un libro intitolato Nero come me. Vi si narrava di un esperimento a cui lo stesso Griffin si era sottoposto. Con una serie di iniezioni dall’esito irreversibile aveva scurito la propria pelle; poi, ormai divenuto un nero, aveva percorso il Sud degli Stati Uniti registrando quanto poteva capitare da quelle parti a un uomo di colore.


In seguito, quel metodo di inchiesta è stato più volte ripreso, generando reportages eccezionali. Due fra tutti: Faccia da turco del tedesco Günter Wallraff, travestitosi da lavoratore immigrato, e Io, il mio nemico dell’israeliano Yoram Binur, fintosi palestinese per saggiare sulla propria pelle il trattamento riservato nel suo paese a quella minoranza. Nessuno ha però spinto il proprio coraggio ai livelli di Griffin.
Mai più nero di George S. Schuyler (1895-1977) non è un’inchiesta giornalistica, bensì un’opera di fantasia. Se menziono Griffin è solo perché l’idea di questi vi viene capovolta. Protagonista del romanzo è un nero, Max Disher, che diventa bianco (“color porco”, scrive l’autore) e come tale si reca nella natia Atlanta ad assaporare i propri nuovi privilegi. Pretesto del viaggio: l’appellativo “sporco negro” con cui una donna bianca, anch’essa di Atlanta, aveva respinto le sue lusinghe di dongiovanni impenitente.
Occorre un inciso: il romanzo è del 1931, e l’America che vi si descrive è quella del tempo. Inoltre va notato che il suo autore, afroamericano, tutto fu salvo che un progressista. Conservatore convinto, anticomunista feroce, combatté sì il razzismo, ma anche le ali radicali (incluse le più moderate) del movimento per i diritti civili. Nel 1966 dovette lasciare il Pittsburgh Courier, a cui collaborava dal 1924 e di cui era un po’ l’anima, per avere criticato in termini violenti l’assegnazione del premio Nobel a Martin Luther King. Inutile dire che, durante il maccartismo, fece la sua parte.
Uno “zio Tom”, insomma? Per Carmichael e Malcom X senza dubbio. Invece, simpatie maggiori (seppure parzialmente postume) Schuyler trovò tra i nazionalisti neri, e in particolare presso la Nazione dell’Islam. Se il nostro aderiva totalmente al sistema americano sotto il profilo politico, filosofico e sociale, tuttavia avversava il razzismo con tutte le proprie forze. In Mai più nero ambedue le cose emergono con chiarezza.
Il cambiamento di colore del donnaiolo Max Disher (il personaggio più riuscito del romanzo, assieme al suo compare Bunny Brown) è dovuto a un’invenzione di sapore fantascientifico. Uno scienziato afroamericano, Junius Crookman, studiando la vitiligine ha scoperto come estenderla al corpo intero, con l’ausilio di una non meglio precisata “macchina”. Ha aperto una clinica in piena Brooklyn, sovrastata dalla scritta Mai più nero, e si prepara alla sperimentazione. Disher, premuto dall’esigenza di conquistare la bella razzista che lo ha maltrattato, forza i tempi, ed è il primo a sedersi su una poltrona, terminale della “macchina”, che ricorda quella del barbiere fusa con quella del dentista — mentre migliaia di neri, tenuti a bada dalla polizia, assediano lo studio per godere dello stesso beneficio.
Divenuto bianco, Disher si accorge che la trasformazione è stata integrale. Tesi centrale di Schuyler è che un nero americano sia anzitutto un americano, e che i suoi limiti culturali siano gli stessi delle regioni in cui vive. Malgrado ciò, sia a New York che soprattutto ad Atlanta Disher attraverserà guai, situazioni paradossali, vicende grottesche, fino a trovarsi a militare nell’organizzazione razzista dei Cavalieri di Nordica. In quell’ambito farà una scoperta sconvolgente, tale da confortare una seconda tesi cara a Schuyler: senza l’America nera, nemmeno l’America bianca sarebbe quello che è.
Mi astengo però dal gesto criminale di anticipare le peripezie di Max Disher, ora comiche, ora drammatiche, sempre ironiche. Motivo di annotazioni divertite dell’autore sulle contraddizioni razziali della società statunitense degli anni Trenta, condite con velenosissime e ingiuste punzecchiature nei confronti di W.E.B. DuBois, Marcus Garvey e altri leader afroamericani sgraditi a Schuyler.
Il quale Schuyler, con tutte le riserve (tante!) che si possono nutrire sulla sua visione del mondo, ci ha comunque offerto un romanzo da cui, una volta iniziatolo, non ci si riesce a staccare. Con qualche pecca stilistica (spesso si passa dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro troppo bruscamente, ciò che ingenera confusione) e tuttavia avvincente e ricco di stimoli.
A chi già conosceva, quali colonne della letteratura afroamericana, i classici Richard Wright, Ralph Ellison, James Baldwin, le edizioni Voland (dal catalogo ricco di cose belle) permettono ora di aggiungere all’elenco l’ambiguo e geniale George Schuyler: una sorta di Bulgakov nero intento a interrogarsi, in chiave apparentemente fantastica, sulla vera identità della sua gente: