LA FACCIA NELLO SPECCHIO

di Danilo Arona

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Bassavilla, la sera del 26 novembre 2004. Le mamme di Sara e Miriam- undici anni, compagne di scuola — decidono di uscire per un film: spettacolo delle venti, come si conviene se non si vuol rincasare a ora tarda. I mariti, amiconi per la pelle sin dall’adolescenza, si trovano in montagna per un week-end tutto sport e salute: almeno così hanno dichiarato. Sara e Miriam resteranno da sole a casa per un paio d’ore o qualcosa di più, giusto per una pizza dopo il film. La mamma di Sara si chiama Susanna, l’altra Patrizia.

La casa di Susanna è un elegantissimo appartamento posto in uno stabile di recente costruzione nel centro città. Un’ardita residenza-alveare, modernissima e per molti che ci capiscono anche di pessimo gusto. Sul tetto a solarium svetta la sagoma di un gigantesco vaso canopo che ti offende la retina come una macula in espansione. Il palazzo è stato eretto sulle rovine della Cararola, un labirintico dedalo di vecchi cortili collegati fra loro che, dalle spalle di un ex convento delle Orsoline adibito a edificio scolastico, sboccava dopo un percorso accidentato e suggestivo tra vecchie case in una larga strada che si chiama Corso 100 Cannoni.
Per i ragazzini degli anni Cinquanta e Sessanta la Cararola consisteva in un vero e proprio rito d’iniziazione alla Stand By Me, cui non tutti intendevano sottostare. “Ci sono i fantasmi”, si raccontava. E tutti quelli che ci hanno abitato, sino a poco tempo fa, ne concordavano. La chiamavano, il fantasma, (perché si trattava di una donna) “la Suclen”, dal misterioso rumore degli zoccoli sul selciato che di notte percorrevano avanti e indietro il lungo dedalo. Qualcuno che aveva fatto ricerche sosteneva che si trattava dello spirito inquieto di una suora che, chissà quando, venne murata viva in una segreta del Convento. La imprigionarono perché fece come la monaca di Monza e qualche migliaio di altre sue colleghe. Tradì i voti di castità, forse con un cuoco o uno stalliere infoiato. Una volta mica si scherzava. Da allora, si diceva, vagava per i vicoli senza pace, ma senza odio. Perché lì probabilmente aveva conosciuto l’amore terreno che l’aveva condotta alla rovina. O magari perché la Cararola era una delle zone più antiche di Bassavilla e rappresentava per lei tutto quanto la legava ad un passato da cui non intendeva staccarsi. Qualcuno la vide anche, la Suclen: figura biancastra ed evanescente, abiti lunghi e bianchi, una lampada in mano, i ben conosciuti passi sul ciottolato. Le solite descrizioni del folklore. Ma una grande agenzia immobiliare, poco prima del Duemila, comprò tutte le vecchie case i cui cortili formavano il dedalo e tutto venne abbattuto.
La Cararola è scomparsa. Adesso puoi vedere, appunto, ardite case-alveare, ammassi modernissimi di condominium alla Ballard. Nei primi mesi del 2004 l’ambulanza ha portato via una donna urlante da uno di questi alloggi al pianterreno. Gridava che in casa sua c’era una monaca la cui fronte grondava sangue. Giorno e notte. Voleva qualcosa indietro. Ovvio che sul giornale locale di Bassavilla abbiano scritto che la tipa è esaurita. Dalla psichiatria non si scappa.
Susanna non ne parla con nessuno, neppure con Patrizia o con il marito, ma da qualche settimana si sente preoccupata. Sara fa strani giochi con l’acqua; di nascosto, e così bizzarramente concepiti che spesso non riesce a darsi ragione di come sua figlia ci riesca. L’acqua può soltanto, infatti, sgorgare dal rubinetto della cucina o dei bagni. Come può Sara formare vere e proprie pozzanghere davanti al televisore in sala? Non esistono secchielli in casa.
E poi sua figlia la conosce bene: è sincera, non hai mai mentito in undici anni. Sì che il passaggio tra l’infanzia propriamente detta e l’adolescenza non è lontano, ma non si vede senso nello schermo della TV inzuppato d’acqua così come per i tanti specchi appesi qua e là.
Per questa ragione non si sente tranquillissima questa sera ad uscire, sia pure per poco. Ma Patrizia ha insistito con argomenti in grado di smuoverla: “Dai, come ai vecchi tempi, cinema e pizza io e te da sole, senza uomini e bambine!”. E le ragazzine sono giudiziose, per quanto undicenni: soprattutto Miriam. Chissà perché, ma i figli degli altri ci sembrano sempre più adulti.
Adesso paiono proprio due angeli lì sulla porta che salutano con la mano con un impaziente sorriso sulle labbra. Sembra proprio che Sara stia pensando: “Allora, mamma, ti decidi ad andartene?”
Ma non può essere vero, ovvio. Colpa solo della sua malizia di mamma apprensiva per principio.
La porta si richiude (“Guarderanno un cartone in TV tanto per cambiare, la tecnologica baby sitter…”), quindi l’ascensore ultimo modello iperveloce e le due donne, ex ragazze degli anni Ottanta, si ritrovano in strada con il dilemma del film da scegliere. Non c’è da stare allegri, dal loro punto di vista: si va da un Alien vs. Predator a un Esorcista: la genesi, passando per Un uomo senza sonno. E una strana, inclassificabile pellicola che s’intitola Donnie Darko. Ma non è quel vecchio film di mafiosi con Al Pacino e Johnny Depp per caso rieditato? Ah, no quello s’intitolava Donnie Brasco. Okay, vada per Donnie.
E in casa Sara guarda Miriam con soddisfazione prorompendo in un “Sìiiii, abbiamo tutto il tempo!”
Si trovano in corridoio. Percorrono pochi passi dalla porta da poco richiusa e si fermano davanti a uno specchio.
“Allora, dobbiamo proprio farlo?”
“Sì, tante nostre compagne lo hanno già fatto.”
“E se succede qualcosa di brutto?”
“Lo sai che basta dire: Basta, Melissa, non mi piace.”
“Ma ti fidi così tanto di lei, Sara?”
“Obbedisce ai miei ordini, sempre.”
“D’accordo, ma facciamo presto, così poi ceniamo.”
“Sì, vai a spegnere la luce.”
Miriam si sposta a premere l’interruttore. Il corridoio piomba in una penombra color cenere dove tutto è ancora ben visibile, grazie alle luci accese nelle altre stanze della casa. Per quanto audace possa sembrare Sara, le precauzioni essenziali alla fine non se le dimentica. Deve sempre restare una via di fuga verso la luce, come dicevano in quel film che s’intitolava Poltergeist.
Poi le bimbe si piazzano. Due facce bianche in chiaroscuro riflesse nello specchio. E Sara che scandisce con voce incerta, tremolante:
“O Melissa che sanguini, vieni da noi.”
Pausa.
“O Melissa che sanguini, vieni da noi.”
Pausa. E Sara inspira.
“O Melissa che sanguini, vieni da noi.”
Silenzio. Il rituale di Melissa la sanguinante, versione italiana di Bloody Mary e Mary Worth, prevede che l’invocazione venga pronunciata tre volte. Come in Candyman, ma a differenza di Poltergeist, il film Candyman non hanno mai potuto vederlo, Miriam e Sara, in televisione. C’era una farfalla rossa, in basso a sinistra, e mamma disse: “Questo non si guarda.” Ma loro due sapevano di che parlava.
Per qualche secondo non capita nulla. Rumori urbani, di Bassavilla d’autunno, che paiono provenire da molto lontano nell’appartamento insonorizzato.
Poi lo specchio si accende, come lo schermo di un televisore. Immagini prima confuse e deformate, notturne. Immagini che già conoscono: strane, paurose.
Una strada di notte, luci che sfrecciano. E una voce fuori giri che gracchia:
“Non so dove mi trovo, aiutatemi!”
L’altra volta, più o meno un mese prima, quando avevano visto la sessa scena sullo schermo della TV in sala al posto delle immagini dei trailers che precedevano l’inizio de Il Re Leone 2, Sara aveva gridato:
“Basta, Melissa! Non mi piace!”
E la riproduzione del nastro VHS era diventata di colpo normale. Ma adesso Sara non grida. Non può o forse non vuole. Già tante sue compagne hanno visto apparire la faccia di Melissa la sanguinante (quella grande, quella della leggenda, la ragazza morta nell’incidente stradale) e perché lei, soltanto lei, dovrebbe rinunciarvi?
Tanto è solo per pochi secondi. Lei non può uscire dallo specchio.