di Alberto Prunetti

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[Alberto Prunetti (nella foto), che con questo racconto inizia la sua collaborazione a Carmilla è una curiosa figura di letterato (secondo la falsa immagine che circonda questa definizione), dato che fa di mestiere il pizzaiolo. Ne esistono altri in pari condizione, ma quelli che conosco io non sono altrettanto dotati. Prunetti ha scritto nel 2004, per la mai abbastanza lodata Stampa Alternativa, Potassa: una raccolta di biografie di antifascisti maremmani rimaste sepolte negli archivi. Quest’anno ha invece curato, sempre per Stampa Alternativa, la splendida antologia L’arte della fuga, con testi di e su fuggiaschi celebri, firmati da autori come Defoe, London, Vaneigem, Traven e Cesare Battisti. Ma su questo libro tornerò tra pochi giorni. Terminato il presente racconto, che abbiamo dovuto suddividere in tre parti per via della lunghezza, pubblicheremo altri testi di Prunetti su pizza e pizzaioli.] (V.E.)

A chi sputa nel piatto in cui si mangia.

Lievitate al calore del forno al legna, ecco le mie sudate carte, scritte per distruggere la mia reputazione di pizzaiolo e l’ambiente che riproduce tanta farinosa alienazione. In queste pagine scoprirete come il sottoscritto, costretto dalla necessità di trovarsi un lavoro, sia finito a marcire in una pizzeria dove stava per bruciare la propria voglia di vivere.

Margherita, la pizza in onore di Margaret Tatcher, si fa con una macchia di sangue intellettuale e un po’ di mozzarella : con queste approssimative conoscenze gastronomiche varcai la soglia di una pizzeria. Cercavo un lavoro e il posto c’era perché Mike, il vecchio pizzaiolo, si era appena suicidato in uno stanzino del locale. Con rapida cerimonia mi rivestirono di bianco, e la proprietaria della pizzeria sigillò la mia assunzione stringendomi con mani esperte un fazzoletto scorsoio intorno al collo. La compagnia era delle più intriganti: il proprietario parlava solo dei tempi del servizio militare, quando lo trattarono da signore (“mi hanno fatto il dentifricio solo tre volte”), mentre la titolare pativa un conflitto schizofrenico per colpa di non so quale dieta. I quattro muri in cui avrei dovuto trascorrere le mie giornate erano divisi in vari ambienti: c’era il magazzino, dove il boss nascondeva i giornaletti pornografici; la cucina, sede di escoriazioni masochiste che avrebbero ridimensionato le tinte fosche del Purgatorio; la sala, dove le cameriere slittavano e si rompevano i capillari delle gambe; infine la pizzeria, luogo della mia reclusione, di appena 2×4 metri, con annesso forno a 400 gradi. I miei compiti erano: preparare tutta la linea con le vaschette dei condimenti, fare la pasta, tenere in funzione il forno, fare le pizze per tutti i 100 e più stronzi che venivano a rimpinzarsi, ripulire il tutto e andare a dormire in tempi brevi evitando di disperdere il seme. Cool, anzi culo.

capricciosa…pomodoro funghi olive cotto carciofi mozzarella uovo… dentro.. legno che facce di merda… sì è quasi pronta signora.. arrivo… legno… girare… piatto… pala…Gina! porta via ‘sta pizza… che palle… why tell me why why don’t you die si arrivo.. buonaseeeera… cazzo ti guardi… fai prima a spararti che a sperare in un mio saluto.. ci vuole l’origano? e scrivilo in quel cazzo di foglio… da asporto quante?… io gli asporterei il cervello… legno… cartone…. girare… pronte… Gina!… acciughe.. capperi… mozzarella… in forno… troppa farina per terra boss?… quanta ce ne hai nel cervello? un asporto?…mamma che tardona orrenda… mi dica signora un calzone ben farcito…. per il suo marito? sì, torni domani tanto non scappo… orrenda… liarlalala liarlalala See my face not a trace no reality.. and I don’t work… I just speed that’s all i need I’m a fucking cook …che palle… non passa più…Gina! Porta via ‘sta pizza è fredda…

questo è un estratto del pizza-cook’s stream of consciousness. Ripetetelo per dieci ore al giorno per sette volte alla settimana per quattro volte al mese e avrete il quadro della mia situazione lavorativa e una gran voglia di fare come Mike. Per rompere la noia cominciai a farmi insegnare dal cuoco — quello vero, che stava in cucina — a fare i nodi. Lo chef era un avanzo di mare, vale a dire che aveva fatto il marinaio ma poi qualche corrente l’aveva spinto a riva e ora toccava i pesci solo con il rosmarino. Coi nodi era un maestro e mi rincuorò subito dicendo che anche Mike agli inizi era un po’ imbranato ma col tempo aveva fatto pratica. Si trattava di tenere uno dei capi della corda più lungo, mettere un dito a ponte, far passare la corda intorno al dito, poi tra il dito e l’altro capo e stringere. Ecco fatto. Eccome se scorreva! Ma scorrevano anche gli sguardi della padrona lungo la mia schiena, mi vedeva disoccupato mentre mi allenavo coi nodi e la disoccupazione è un problema della società e dei giovani, per cui mi recludeva accanto al mio simpatico altoforno dove le temperature erano quelle della fissione nucleare. Ogni tanto il boss veniva a farmi visita, mi raccontava con toni arcadici delle sue masturbazioni adolescenziali, mi faceva sempre l’elogio del servizio militare (ed io zitto, mica potevo dirgli che la cartolina l’avevo respinta al mittente!). Ma soprattutto il boss era un fanatico della tecnica, voleva che io diventassi un professionista del forno. Era un feticista delle macchine, godeva al solo pensiero dell’attrito lieve dei cuscinetti a sfera, e mi accorsi ben presto che la temperatura del forno era più alta di quella usualmente tenuta nelle altre pizzerie solo perché così aveva l’impressione di stare in un’acciaieria. Che fortuna, tanto ci stavo io a fare i bagni di calore! Quanto alla padrona, la sua passione più perversa era quella di annotare in un’agendina il numero degli avventori giornalieri, controllare quanti ce ne erano stati l’anno prima, felicitarsi del fatto che ne erano entrati alcuni di più, fare le previsioni per l’indomani e avvertire i dipendenti che il giorno successivo non sarebbe stato migliore di quello che stava per finire. Diceva: domani ne aspettiamo 300, e io mi toccavo le palle. Ma di solito era più aperta, faceva previsioni con un intervallo, come un’iperbole coi punti di massimo e di minimo. Con la stessa serietà di una professoressa di matematica diceva: domani da 7 a 300. Effettivamente era difficile sbagliarsi. A me ricordava un kapò delle SS: domani ne facciamo fuori da tre a tremila, si vedrà. Va detto che questa cosa dei numeri per lei era miracolosa, dimostrava che aveva fatto bene a iscrivere il figlio a ingegneria perché i conti tornano, la matematica non è un’opinione, due più due fa quattro, tanto va la gatta al lardo…

Adesso vi parlo dell’aiuto pizzaiolo che un giorno il boss mi affiancò al lavoro. Eravamo una coppia splendida, io, massiccio esecratore di tutto, e Paco, una specie di furetto della pizzeria, diciottenne, fulgido esemplare adrenalinico di una razza di velocisti che poteva fare di tutto, ma solo di corsa. Era veloce d’attitudine, e questo lo faceva sembrare tremendamente diligente e dedito al lavoro. In realtà godeva a tenersi sopra i record, ma in tutti i gesti che proponeva agli sguardi allucinati della padrona solo uno su settecento era un gesto lavorativo: gli altri erano occhiate alle clienti, una grattata d’uccello, sputacchiate nella farina, una spinta a me, un’occhiata dolce a qualche tardona, un paio di giocate a morra, due o tre esercizi di ginnastica e qualche passo di danza. Ma sembrava che stesse lavorando, e anch’io i primi cinque minuti pensai di avere a che fare con uno stakanovista. Ma lui barava, barava splendidamente. Nella partita a poker coi proprietari io speravo che mi entrasse un full di critica radicale, e mi rendevo in fondo ridicolo. Paco sembrava dirmi: ehi, ragazzo, così non va, cominciamo a bluffare. E lui bluffava di brutto. A volte si divertiva anche a mostrare le sue carte, spingendo la derisione dei proprietari a momenti sublimi: godeva a far capire che stava fingendo, che non aveva niente in mano, che erano stati degli stupidi ad illudersi che lui tenesse qualcosa. Ad esempio, una volta che eravamo tremendamente indietro con la preparazione dei condimenti, mezz’ora prima dell’ingresso dei clienti nel locale, Paco si presentò tutto impettito e orgoglioso come Stakanov il giorno della conclusione del piano quinquennale e annunciò alla proprietaria che i pizzaioli non avevano il tempo di mangiare perché c’era troppo da fare. La proprietaria — e qui dal remoto passo ad un presente storico – si bagna sotto per il nostro eroismo lavorativo. Tutti mangiano e noi giù allo sgobbo. Passano cinque minuti e ci mettiamo a sedere, ma solo per un boccone, sono tutti informati. Passano altri cinque minuti e tutti si alzano, tranne i pizzaioli, cioè io e Paco. Passano 500 bocconi e 50 minuti e io e Paco siamo ancora seduti a mangiare, colla pizzeria nella merda, la padrona esterrefatta e i nostri piatti strapieni di avanzi di scampi. Dice la padrona: “meno male che non mangiavano oggi in pizzeria”, pensava che eravamo più pazzi che vagabondi… che delusione per lei, fu come versare sabbia nella sua topa dalle mucose già inaridite. Era un modo per prendere il boss e la signora per il culo, creare in loro delle aspettative e poi deluderli di colpo, oppure mostrarsi tremendamente al di sopra delle parti, come due pistoleros che non avevano bisogno di mirare per stendere il loro nemico. E come due pistoleros noi ci guardavamo le spalle, pronti a imitare un mastino ringhiante ogni volta che la tenutaria del locale ci dedicava uno sguardo minatorio. Paco era capace di lanciarsi dentro al forno per girare una pizza, riuscirne, sdraiarne tre in un baleno e intanto fare qualche starnuto per fingere un’improbabile allergia alla farina, ma ecco che tira un pezzo di tonno su una focaccia che — cazzo! – già si stava ustionando sul piano di cottura… ora mi ha già doppiato da quest’altro lato… è un forsennato… sbava, bestemmia…sistema tre piatti…testate contro il marmo del tavolo di lavoro… e poi etchiùù, ancora starnuti… ora fa un cenno ai suoi amici…lo aspettavano fuori dal locale… pulisce la pizzeria nei tempi di un pit-stop… è un compressore… soffia via la farina… dalla finestra salta sul sedile del motorino… a tutta biada verso il luogo di una imprescindibile briaca notturna.

Questo era Paco: si lanciava dentro il forno per rimbalzare nei cassetti spuntava dal sacco della farina bianco come il culo di una dama vittoriana e si faceva la doccia con la spina della birra mentre la legna crepitava e la cameriera gemeva e tutte le focaccine diventavano dure ma dure che anche la lubrificazione vulvaria delle nostre amiche raggiungeva attimi di parossismo lui sognava di fottere collo strutto — lo “sdrutto”, diceva da maremmione qual era — e si immaginava un mondo di fiche calde ma calde che il nostro forno si sarebbe spento da solo – vergognandosi di quel poco calore d’avanzi d’albatro e di leccio che sapeva produrre – e le fiche delle nostre amiche calde come mai un forno si sarebbe potuto scaldare avrebbero incendiato i nostri cuori di pizzaioli stanchi. Allora io e Paco avremmo fatto l’amore con tutto quelle ragazze disegnate sul piano di marmo sognate viste inventate e non ci sarebbe stato più posto per il rumore delle comande strappate dal blocco delle cameriere e loro stesse le cameriere avrebbero usato le mani per toccare ben altri organi e sui sacchi di farina 0 del premiato Mulino “Garganti e figli” avremmo fatto scintille coi nostri corpi, la carriola sui sacchi da 50 Kg e la pecorina su quelli da 25, il missionario sulla farina 00 e nell’apoteosi orgonica avremmo organizzato su 10 sacchi di farine speciali con grani americani una delle più lussuriose “seggiole del papa”, qualcosa che neanche un libertino del Settecento avrebbe potuto immaginare, ma noi sì, noi potevamo immaginare tutto perché eravamo i figli diseredati del mugnaio, i bastardi del lievito, i disertori delle schiacciate e tra le cosce calde delle nostre amiche sognavamo di cuocere la focaccia con gli scriccioli di maiale. Questo eravamo, per darvi un’idea.

Vengo ora a illuminarvi su una delle piccole vendette che ci prendevamo con Paco: quella di far rotolare la proprietaria dentro al sacchetto della spazzatura. Ora vi immaginerete una situazione titanica, con il vostro pizzaiolo preferito che fischiettando l’Internazionale rovescia l’avida capitalista nel cestello dei rifiuti, ma siete fuori strada. La situazione era molto più fine e ingegnosa. Dovete sapere che quella brava donna se ne stava sempre nei pressi del forno, fingeva di impegnarsi nella consultazione di chissà quali carte ma si faceva venire degli attacchi di strabismo per tenerci sotto controllo con la punta degli occhi. Inoltre aguzzava le orecchie, cercava di sentire se la mandavamo in culo, etc etc. Allora noi apposta, quando vedevamo arrivare una cameriera trafelata con una pila di piatti pieni di avanzi dicevamo, non forte — come se stessimo confabulando – ma abbastanza per farci sentire dalla proprietaria : “Hi guarda, è tornata una pizza indietro!”. Ora, una pizza che torna indietro è perlopiù perché non piace: è bruciata, mal condita, o sciocca di sale. Comunque dire “è tornata una pizza indietro” era una frase magica. Bastava pronunciarla perché la padrona, che prima fingeva disinteresse, si proiettasse in cucina: (cambio tempo come si cambia marcia, non fate i difficili e rimuovete le vostre inibizioni ortografiche e sintattiche) abbandona tutto il cartamen — entra con la testa dentro il secchio nero della spazzatura — naviga tra i rifiuti si sporca con l’insalata russa mentre avanzi di pollo gli entrano nei risvolti della manica il riso si infila nelle unghie le mani puzzano di tonno uno scaracchio di un cliente le incorona la fede nuziale — ma la pizza non c’è lei arranca in quella torba putrida, non c’è questa volta. Capita che ci sia ma in quel caso col cazzo che lo facciamo notare, e poi le cameriere fanno sempre in modo di seppellire le pizze ritornate sotto una valanga di gusci di cozze — ma quando la pizza c’è e lei la trova non c’è niente da fare – la padrona si mette lì, come quel buttafuori di Pietro davanti alle porte del Paradiso — è un locale trend e piuttosto acido che non ho ancora avuto modo di frequentare – e lei se ne sta lì impassibile allora ci presenta il conto delle nostre prese di culo — vuole che rimettiamo i nostri peccati — si aspetta una confessione completa — un pentimento sotto tutti i profili: ci chiama di fronte al secchio nero dei rifiuti, chiede le ragioni, ci fa vedere che è troppo cotta, o troppo poco — se poi le facciamo notare che è ben cotta non si rassegna, ne strappa un pezzo che ingurgita assieme ad un mozzicone di sigaretta incrostato di rossetto e ci dice, vedete è cattiva (ci credo, sa di nicotina e di chanel n° 3 e puzza d’avanzo putrido). Infine ci fa sapere che dobbiamo per penitenza sdraiare e condire 50 pizze sine aliqua retributione. La iena sapeva benissimo che la pizza era mangiabile, si sottoponeva a queste porcate massacranti e all’ingerimento dei mozziconi per poterci decurtare la serate di un ventino di mila lire!

(1-CONTINUA)