[dal dossier di Legambiente, consultabile integralmente in formato pdf qui]

PortoMarghera.jpgL’amianto dei poli industriali che producevano l’eternit a Casal Monferrato,
Bagnoli, Broni o Bari, e quello delle cave da cui veniva estratto a Balangero ed
Emarese. I policlorobifenili a Brescia, gli Ipa nelle acque sotterranee di Falconara
Marittima, Bagnoli e Gela, i solventi organoalogenati della bassa valle del Chienti
nelle Marche e poi la diossina a Pitelli e Marghera [nell’immagine a destra] e le ferriti di zinco a Crotone. E
ancora il mercurio scaricato in mare a Priolo e nella laguna di Grado e Marano, il
cromo esavalente della Stoppani nelle falde acquifere di Cogoleto, il cadmio nel
suolo e nel sottosuolo di Livorno e il Ddt nel lago Maggiore.
E’ lungo e impressionante l’elenco dei veleni che inquinano le 50 aree censite
finora nel Programma nazionale di bonifica: 154mila ettari di territorio
contaminato, di cui poco meno della metà – 74mila – solo a Casal Monferrato,
circa 14 mila nel litorale domitio-flegreo e nell’agro aversano, 5.800 a Brindisi e
3.500 a Porto Marghera.

I rifiuti, non solo industriali, che sono all’origine di queste contaminazioni (scorie
di fonderia, sali da rifusione di alluminio, fanghi, morchie oleose, oli esausti,
melme acide, ceneri leggere da incenerimento, polveri di abbattimento fumi della
siderurgia, pesticidi, solo per citarne alcuni) richiedono interventi complessi.
Anche per le quantità in gioco: si va dai 7 milioni di metri cubi di sedimenti
contaminati da dragare in laguna di Venezia al milione e mezzo di m3 di rifiuti da
rimuovere nelle 110 discariche non controllate della provincia di Frosinone, dai
300mila metri cubi dell’area abruzzese relativa ai fiumi Saline e Alento ai
600mila m3 di terreni contaminati da Ddt, arsenico e mercurio di Pieve Vergonte
in Piemonte, passando per i 140mila m3 di sali sodici ancora da rimuovere dai
lagoons dell’Acna di Cengio.
Oppure le incredibili emissioni in atmosfera dell’Ilva di Taranto che da sola
produce il 70% delle emissioni nazionali e il 10% di quelle europee di monossido
di carbonio da attività industriali, o i rischi sanitari, con i sarcomi dei tessuti molli
di Mantova nei pressi dell’inceneritore ex Enichem, le malformazioni congenite
nel triangolo Augusta-Priolo-Melilli e il mesotelioma pleurico degli abitanti a
Biancavilla.
Sono questi, in sintesi, alcuni dei dati più significativi che emergono da questo
dossier di Legambiente dedicato alle aree da bonificare nel nostro Paese
. E fa una
certa impressione confrontare i risultati di questa ricerca con quelli presentati
sempre dalla nostra associazione ben 14 anni fa.
Era il giugno 1991 quando l’allora Lega per l’ambiente presentava il dossier
intitolato “Enichem – Ambiente, sicurezza, salute dei cittadini. La faccia
dimenticata dell’industria chimica italiana”. Era un atto d’accusa approfondito
sugli impatti ambientali delle lavorazioni chimiche che, partendo dall’analisi dello
scenario industriale del momento, passava in rassegna alcune delle principali
vertenze ambientali che ci vedevano in prima linea: Acna di Cengio, Porto
Marghera, Mantova, Ravenna, Ferrara, Manfredonia e Priolo.

Il dossier si inseriva in un contesto storico particolare. In quegli anni la chimica
italiana cominciava a manifestare i primi pesanti segnali di declino. Si era
consumato da qualche mese il divorzio tra il colosso pubblico, Eni, e quello
privato, Montedison, confluiti a partire dal 1 gennaio 1989 in Enimont e da lì a
poco sarebbe scoppiato anche lo scandalo di tangentopoli fortemente centrato su
questa vicenda). Si sgretolava in pochi mesi lo scenario virtuoso, ipotizzato prima
della fusione, della “nuova” multinazionale pubblico-privata italiana in grado di
competere sul mercato internazionale, di sviluppare una moderna e innovativa
politica industriale basata sulla ricerca, di cambiare il proprio approccio sulla
compatibilità ambientale e sanitaria delle lavorazioni petrolchimiche, partendo
dalla bonifica delle aree industriali inquinate dal “vecchio” modo di fare chimica.
Nel rapporto si denunciava come la chimica italiana, a quel punto rappresentata
soprattutto da Enichem, si presentasse «all’appuntamento con l’innovazione,
avendo accumulato pesantissimi ritardi nel campo della ricerca ed essendo quindi
oggettivamente tagliata fuori dalle prospettive della chimica fine, delle specialità e
dei nuovi materiali». La nostra associazione chiedeva «una vera e propria svolta
strategica in direzione della riconversione ecologica e del rispetto della salute dei
cittadini e dell’integrità dei territori», a partire dall’approvazione di una norma
nazionale che allora mancava, la chiusura degli «impianti più obsoleti e non
ristrutturabili: è il caso di alcuni impianti di cloro-soda con celle a mercurio»,
l’avviamento di «un piano di bonifica e decontaminazione dei suoli, interessati
dalla presenza, accumulata negli anni, di rifiuti tossici», ricordando tra l’altro
come il settore delle bonifiche poteva «rappresentare anche un’importante
occasione occupazionale». La storia degli ultimi anni ci insegna come le cose
siano andate purtroppo in maniera diversa.
Si è persa la possibilità di rilanciare la chimica su basi più moderne, innovative,
sostenibili. Il nostro Paese che era uno dei leader mondiali del settore e vantava
una tradizione industriale di cui essere orgogliosi (si pensi al lavoro del Nobel
Natta tanto per fare un esempio) si è ritrovato ai margini. Siamo ancora in tempo a
rilanciare il settore? A creare sviluppo e lavoro? A questa domanda è impossibile
rispondere se non si parte finalmente dalla bonifica delle aree contaminate. Ed è lo
stato dell’arte di questa fondamentale sfida per il futuro industriale del nostro
Paese che questo nuovo dossier vuole affrontare
Oggi, a 14 anni da quella pubblicazione di Legambiente, alcuni obiettivi sono stati
raggiunti, altre richieste sono purtroppo ancora drammaticamente attuali. Tra le
vittorie delle battaglie iniziate allora possiamo annoverare sicuramente:
– l’entrata in vigore nel 1999 di una legge nazionale sui siti contaminati da
bonificare;
– la chiusura di alcuni impianti inquinanti: basti pensare al destino, per certi
versi preannunciato, di siti produttivi come l’Acna di Cengio, la Stoppani di
Cogoleto o il petrolchimico di Manfredonia;
– l’avvio di diversi studi epidemiologici avviati in questi anni da autorevoli enti
istituzionali, in primis l’Istituto superiore di sanità e l’Oms, che hanno
dimostrato le conseguenze sanitarie sulle popolazioni residenti in aree
particolarmente degradate sotto il punto di vista ambientale per la presenza
industriale (come a Porto Marghera, Mantova, Brindisi o Priolo) o per
presenza di amianto (come nei casi di Casal Monferrato, Broni, Biancavilla o
Bari – Fibronit) e sui lavoratori di alcuni reparti particolarmente a rischio (è il
caso del CVM a Marghera, Ferrara, Ravenna e Rosignano);
– l’approvazione, sulla base delle evidenze ambientali e sanitarie, di un
Programma nazionale di bonifica da parte del Ministero dell’ambiente nel
2001 che, partendo dai primi 15 siti di interesse nazionale della legge 426/98,
oggi conta 50 aree prioritarie su cui intervenire.
Sono molte, purtroppo, le questioni ancora irrisolte. A cominciare da quelle di
carattere squisitamente tecnologico. Un esempio lampante è quello dell’esercizio
di tanti impianti di produzione di cloro da cloruro di sodio mediante cella a catodo
di mercurio, nonostante l’alternativa praticabile della tecnologia a membrana, di
gran lunga più efficace anche dal punto di vista ambientale. Ma i ritardi
nell’adozione di tecnologie migliori riguardano anche altri casi eclatanti raccontati
in questo dossier, come gli stabilimenti Syndial di Priolo (Sr), al centro dello
scandalo del mercurio in mare che portò all’arresto dei vertici del petrolchimico
siciliano nel gennaio 2003, la Caffaro di Torviscosa (Ud) e la Tessenderlo di
Pieve Vergonte (Vco). O le acciaierie di Taranto e di Piombino ancora in
incomprensibile ritardo sulla riduzione delle ingenti emissioni in atmosfera.
Al problema di come migliorare lo svolgimento delle attività industriali più a
rischio di contaminazione, garantendo l’occupazione, si somma quello dello
stentato avvio del risanamento delle aree già inquinate. Lo slancio al settore delle
bonifiche che auspicavamo dopo l’avvio del Programma nazionale, a oltre sei anni
dal suo varo, purtroppo non si è ancora concretizzato. Lo aveva denunciato la
Corte dei conti all’inizio del 2003, non possiamo che confermarlo con questo
nostro lavoro di ricerca.
Era il gennaio 2003, lo ricordiamo, quando arrivò la bocciatura istituzionale da
parte della Corte dei Conti sullo svolgimento del programma e sui «risultati del
tutto modesti» ottenuti fino ad allora. La magistratura contabile evidenziava infatti
che «lo svolgimento del programma si trova ancora nella fase delle attività
preliminari agli interventi di bonifica e non è dato prevedere i tempi della
conclusione delle opere». A testimoniare il ritardo del Programma venivano
elencate le 29 perimetrazioni approvate fino allora, i pochi piani di
caratterizzazione e progetti di messa in sicurezza d’emergenza approvati, i soli 3
progetti definitivi approvati con tanto di decreto interministeriale (tutti riguardanti
l’area industriale di Porto Marghera), di cui uno solo effettivamente concretizzato.
Sono trascorsi due anni da quella relazione e lo scenario, purtroppo, non cambia.
Qualche piccolo avanzamento c’è stato, visto il tempo trascorso, ma il ministero
dell’Ambiente, non è riuscito ad accompagnare la crescita del numero di siti
contaminati (15 nel 1998, 18 nel 2000, 41 nel 2001, 50 nel 2002), dimostrando
un’inefficace gestione delle istruttorie aperte con le conferenze dei servizi
nazionali. In alcuni casi addirittura l’iter istruttorio già avviato in sede locale, con
l’inserimento nel Programma nazionale di bonifica, ha subito paradossalmente un
forte rallentamento dei lavori.

Una conferma di queste difficoltà è emersa anche durante la preparazione di
questo Rapporto: reperire i documenti istituzionali, le informazioni e i dati
necessari a ricostruire l’avanzamento delle istruttorie di ogni singolo sito e
aggiornare la valutazione è stata davvero un’impresa, a parte due rare eccezioni,
molto sintetiche, realizzate dal Ministero dell’ambiente.
L’impegno profuso in quasi due anni di lavoro consente, comunque, a
Legambiente di presentare oggi un quadro esaustivo, aggiornato – quando
possibile – al mese di aprile 2005, su tutti gli interventi in atto o in via di
discussione nei 50 siti di interesse nazionale, con una descrizione di dettaglio
della storia di ciascun area per 35 di questi. Qualche dato può aiutare a riflettere:
– solo il 7 aprile 2005, poco più di un mese fa e dopo quasi tre anni
dall’inserimento del sito del Programma nazionale, è stato pubblicato in
Gazzetta Ufficiale l’ultimo decreto di perimetrazione dei 50 previsti,
riguardante le aree del litorale vesuviano;
– sono davvero sporadici i casi in cui si è conclusa la caratterizzazione delle
aree pubbliche e private inquinate;
– erano previsti, al novembre 2004, 144 interventi di messa in sicurezza
d’emergenza;
– alla stessa data solo 40 progetti definitivi erano stati approvati, di cui 21 con
firma del decreto interministeriale.
Il programma nazionale, insomma, procede lentamente. Ma un’attenta lettura
degli interventi previsti o in atto nelle 50 aree d’interesse nazionale evidenzia
un’altra faccia della realtà, che riguarda la mancata applicazione, a tutt’oggi, delle
tecnologie di bonifica ambientale. Chi come Legambiente sperava che con il varo
del Programma nazionale potesse una volta per tutte svilupparsi nel nostro paese il
settore produttivo delle tecnologie di bonifica è rimasto finora deluso.
Sono numerose le azioni di messa in sicurezza d’emergenza e permanenti, tra
quelle previste o in atto. Per quanto riguarda le prime, va segnalato come in
alcune realtà, una volta messe in pratica, abbiano scatenato un meccanismo
vizioso che ha portato paradossalmente a un rallentamento dell’istruttoria
successiva, come se contenere l’inquinamento diventasse in realtà un pretesto per
realizzare la bonifica con molta più calma.
Gli interventi di messa in sicurezza permanente poi sembrano diventare sempre di
più una “via d’uscita” che viene purtroppo preferita, soprattutto nei siti occupati
da rifiuti smaltiti spesso illegalmente, alla bonifica vera e propria, visti la
differenza di costi.
Anche quello del trattamento dei rifiuti è un capitolo sostanzialmente irrisolto.
Vale la pena ricordare come il Dm 471/99 privilegi il trattamento in situ oppure
on site proprio per ridurre i rischi derivanti dal trasporto e dal conferimento in
discarica dei rifiuti e delle terre contaminate (anche alla luce delle sempre minori
volumetrie disponibili nelle discariche per rifiuti pericolosi e non o della difficoltà
di reperire nuove aree per localizzare impianti ex novo).
Quando non si trattano nel sito, i rifiuti in questione prendono sempre più spesso
la via dell’estero, soprattutto con destinazione la Germania: è il caso delle oltre
70mila tonnellate di sali sodici essiccati dell’Acna di Cengio, delle 19mila
tonnellate di terre contaminate da cromo esavalente dalla Stoppani o di 300mila
m3 di terre contaminate da DDT, arsenico e mercurio di Pieve Vergonte. Ma
questo continuo riproporsi della soluzione d’esportazione deve cominciare a far
riflettere un po’ tutti.
Ancora più inquietante, invece, è quanto sta emergendo da diverse indagini
giudiziarie circa le rotte di smaltimento illecito dei rifiuti e delle terre contaminate
che provengono da interventi di bonifica, soprattutto quelli di piccole e medie
dimensioni.
Legambiente ha già denunciato questa nuova filiera dei traffici illeciti nelle ultime
due edizioni del Rapporto Ecomafia. E i risultati delle indagini compiute dal 2002
ad oggi dalle forze dell’ordine, in particolare il Comando Tutela Ambiente
dell’Arma dei Carabinieri (operazioni Murgia Violata, Houdini e Pinocchio), non
lasciano dubbi: nel nostro Paese si è già cominciato a trafficare e a smaltire
illecitamente le terre e i rifiuti derivanti dalle operazioni di bonifica.
L’effetto diretto dei trattamenti in situ consisterebbe proprio nell’evitare quella
movimentazione che sta scatenando il business dei traffici illeciti di rifiuti
derivanti da attività di bonifica. Un circolo vizioso che si autoalimenta, per cui si
fa la “bonifica” portando via tutti i rifiuti e dichiarando che verranno destinati a
interramento controllato. Poi però nel tragitto che dal sito inquinato li dovrebbe
portare alla discarica autorizzata, i rifiuti si perdono nel nulla, andando ad
inquinare un altro sito che a sua volta rischia di essere “bonificato” allo stesso
modo. Un caso riportato nel dossier è quello dei 52mila m3 di terre scavate dal sito
chimico di Mantova per realizzare la centrale a turbogas di Enipower, mischiate
ad altri materiali e smaltite illegalmente in provincia di Rovigo.
Alla lentezza delle istituzioni, insomma, fa da contraltare, come sempre, la
rapidità e in un certo senso l’efficacia, anche se perversa, degli interessi criminali.
Ed è proprio alla luce dei problemi emersi durante l’elaborazione di questo
rapporto sul programma nazionale di bonifica che Legambiente avanza una serie
di proposte.
La prima riguarda il nodo cruciale della trasparenza e dell’accesso alle
informazioni: crediamo che sia davvero utile la realizzazione, da parte del
ministero dell’Ambiente, di un unico portale on line sui siti d’interesse nazionale,
da aggiornare almeno ogni 3 mesi, che riporti lo stato di avanzamento
dell’istruttoria per ciascun sito da bonificare, sulla base dei Sistemi informativi
territoriali già realizzato per alcuni siti nazionali o locali. Questo faciliterebbe non
poco la diffusione delle informazioni per gli esperti del settore e per i cittadini
delle aree inquinate.

Altrettanto urgente è l’adozione di alcune modifiche normative che faciliterebbero
l’iter istruttorio del risanamento ambientale. E allora si potrebbe:
– specificare ancora meglio che l’inserimento della legislazione sulle bonifiche
all’interno del Decreto Ronchi non significa necessariamente che il
risanamento ambientale deve passare attraverso il conferimento in discarica
dei suoli contaminati;
– ribadire con più forza che le azioni di messa in sicurezza d’emergenza sono
solo il primo passo per arrivare alla bonifica o, quando non questa non sia
possibile, alla messa in sicurezza permanente dell’area inquinata;
– ribadire l’importanza dell’approccio tabellare come riferimento per avviare
l’iter di bonifica, senza farlo diventare però un vincolo rigido nel definire gli
obiettivi del risanamento;
– prevedere un ritorno ai privati della responsabilità delle dichiarazione di
avvenuta bonifica, conferendo alle amministrazioni provinciali il compito di
controllarne la veridicità con le stesse modalità con cui si effettua la
validazione dei dati da parte di Arpa in fase di caratterizzazione;
– prevedere una premialità, eventualmente di tipo fiscale, per le imprese che
applicano le tecnologie di bonifica innovative, privilegiandole agli interventi
di messa in sicurezza permanente;
– alla luce delle difficoltà nell’organizzare e seguire le istruttorie nazionali,
prevedere un ritorno della gestione del procedimento in ambito locale di tutte
le Conferenze dei servizi, mantenendo una funzione di supporto, verifica e
indirizzo da parte del Ministero dell’Ambiente e degli enti tecnici nazionali
preposti;
– chi inquina deve pagare! E allora occorre fare in modo che l’uso del
cofinanziamento statale previsto dal Programma nazionale per gli interventi
con cui si deve risanare un’area pubblica (come le aree a mare, i bacini
lacustri, le aste fluviali, etc.) venga seguito automaticamente dalla richiesta di
risarcimento da parte dello Stato nei confronti di chi ha inquinato. Sarebbe un
modo efficace per recuperare risorse economiche da destinare anche alle
Agenzie regionali protezione ambiente per innalzare il livello dei controlli
ambientali, ancora oggi molto carente in tante regioni italiane.
Per far fronte alla mancanza delle risorse economiche adeguate alla bonifica dei
cosiddetti “siti orfani” (e cioè le aree industriali dismesse per il fallimento della
società o le discariche abusive su terreni demaniali), andrebbero modificate le
modalità di finanziamento degli interventi, con la costituzione di un Superfund
nazionale, analogamente a quando istituito negli Usa nel 1980, come proposto tra
l’altro in diverse occasioni anche dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul
ciclo dei rifiuti.
Il nuovo modello di finanziamento dovrebbe distinguere gli interventi nei siti
industriali di aziende in attività da quelli nei siti “orfani”: per i siti in attività o
quelli dismessi da aziende ancora operative l’intervento sarebbe interamente a
carico del privato responsabile della contaminazione, senza finanziamenti da parte
dello Stato; per i siti “orfani” si dovrebbe fare ricorso al fondo nazionale,
finanziato dal mondo dell’impresa, in proporzione alla pericolosità e all’impatto
ambientale causato dallo specifico settore produttivo.
In attesa della sua definizione, il fondo per i siti orfani potrebbe essere attivato da
subito, vincolando una parte delle entrate dell’ecotassa regionale che viene pagata
dal 1995 per lo smaltimento dei rifiuti in discarica, il cui gettito oggi viene speso
in maniera molto disomogenea dalle amministrazioni regionali su tutto il territorio
nazionale.
Alla luce dei dati epidemiologici ottenuti con le indagini compiute fino ad oggi è
importante a nostro avviso garantire da parte del Governo una continuità di risorse
economiche per un ulteriore monitoraggio del territorio nazionale, soprattutto
nelle aree dove è maggiore il degrado ambientale, come i siti di interesse
nazionale finora censiti. Vale la pena ricordare a tal proposito che sarebbe
importante integrare le indagini epidemiologiche con i risultati delle
caratterizzazioni, anche per attivare le eventuali richieste di risarcimento in danno.
Chiediamo infine al mondo imprenditoriale italiano di inaugurare una nuova
“responsabilità sociale d’impresa”, quella che dovrà portare in tempi più brevi di
quelli finora visti alla bonifica delle aree inquinate del nostro Paese. Un new deal
che si possa misurare anche sulla volontà di mettere in campo adeguate risorse
economiche e umane necessarie per affrontare la sfida del risanamento ambientale
nel nostro Paese, opzioni non sempre praticate fino ad oggi anche dalle aziende a
prevalente capitale pubblico.
Una maggiore trasparenza, l’adozione di modifiche normative, un approccio
diverso da parte delle imprese sono, a nostro avviso, gli ingredienti indispensabili
per imboccare, finalmente la strada giusta. Si creerebbero nuove professionalità e,
perché no, posti di lavoro, cominciando magari dall’aggiornamento dei lavoratori
che hanno perso o rischiano di perdere il posto di lavoro per la chiusura degli
impianti produttivi; si costruirebbero nuovi impianti di trattamento per le
bonifiche; si potenzierebbe il sistema dei controlli ambientali e si risanerebbero
decine di migliaia di ettari di suoli da riutilizzare a seconda dei casi, riducendo in
tal modo la pressione sui terreni vergini (i cosiddetti greenfields) delle nuove
realizzazioni residenziali, commerciali o industriali. Esattamente il contrario di
quanto fatto negli anni scorsi a Manfredonia nell’area D46 e l’adiacente zona Pip,
che ricade addirittura in un Sito di importanza comunitaria.
In questo modo sarebbe sfatata la tesi che le bonifiche dei siti inquinati italiani
sono una chimera, un sogno irraggiungibile. Anche perché sono una realtà
consolidata in altri paesi occidentali attraverso la quale si muove una vera e
propria economia, quella del risanamento ambientale. Che è mancata
completamente finora e che vorremmo approdasse anche in Italia.