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Joseph Ratzinger è un uomo che ha sempre riservato sorprese. In questi ultimi anni lo conosciamo quale custode inflessibile dell’ortodossia non solo della dottrina, ma anche della morale cattolica. Sempre censore, sempre disposto a intervenire contro i movimenti del divenire che interpreta quali storture eretiche. Ma non è sempre stato così. Senza Ratzinger non disporremmo né di Kung né di Boff. I cattolici, di fatto, non dispongono più di Boff: ed è colpa di Ratzinger. Maestro e interlocutore di questi due fondamentali teologi contemporanei, Ratzinger si è progressivamente trasformato nel loro più acerrimo avversario e nel loro fustigatore curiale. Eppure fu l’autore del documento che ribaltò le sorti del Concilio Vaticano II, letto dal cardinale Frings.
Luci e ombre (più le seconde che le prime) contrastano il profilo del nuovo pontefice, Benedetto XVI.

Una dottrina sociale reazionaria entra in antagonismo con un’illuminata propensione all’interiorità dell’esperienza cristica, di elevata intensità non unicamente teologica, ma addirittura mistica. La scelta onomastica, poi, appare quasi sconcertante per chi riconosce in Ratzinger le durezze dei tratti conservatori: Benedetto XV è passato alla storia come il pontefice che si oppose strenuamente e clamorosamente alla Grande Guerra.
Non avremo un papa socialista, poco ma sicuro. Però forse i cattolici avranno un papa dell’interiorità, il che – a nostro modestissimo giudizio – male non dovrebbe fargli. Che papa avrà Bush, poi, sarà da vedere. Certo, il nome promette bene – ma non a Bush.
Da un lato, la scelta del nome ha riflessi politici. Se il riferimento è a Benedetto XV, la prima cosa che salta in mente è l’anatema antibellico di quel pontefice, il celeberrimo “guerra inutile strage”. Ratzinger non può non avere riflettuto sulla scelta di un nome del genere in un momento tanto delicato della storia planetaria. Fu lo stesso Ratzinger a sconfessare chi vedeva in lui un possibile appoggio ai neoconservatori in Vaticano: dopo il primo bombardamento in Iraq, definì senza mezzi termini “guerra ingiusta” quella scatenata dagli Usa contro Baghdad. E tuttavia non è possibile annoverare questo apparentemente mite pastore tedesco tra i fauturi del pacifismo che ci piace. Un pacifismo che ci piace è radicale, ma la radicalità che ci piace non è quella che gusta a Ratzinger. Discettando con Marcello Pera (operazione che va annoverata tra i miracoli per una futura santificazione), nel libro Senza radici, l’allora porporato tedesco accusava il pacifismo contemporaneo di essere frutto del relativismo, che egli ha eletto a sua bestia nera (a Bestia del tutto, sia chiaro). Il relativismo porterebbe ad anarchia e a sconfitta della libertà. Non una parola sul fatto che il relativismo è di per sé un degno assolutismo alternativo (con parecchi benefici) all’assolutismo cattolico. Il relativismo, vissuto nei fondamenti, esprime una morale limpida e cristallina che ha tutto il diritto di coesistere con le posizioni ecclesiastiche. Non così per Ratzinger. Egli non vede nel relativismo il perno vivificante di una comunità: per lui si tratta del Leviatano.
Del resto, la posizione teologica del nuovo papa Benedetto XVI è di un estremismo che risulta irritante alle altre confessioni religiose, oltre che agli atei. Nessuna verità è data fuori dalla Chiesa cattolica. Questa è la più interna lotta antirelativistica che Ratzinger combatte da decenni. Si tratta della radicalità del messaggio cristico, interpretato in quel di San Pietro. Per Ratzinger è fondamentale ribadire che la verità è il Cristo papale papale, pena ridurre la Chiesa a un fatto storico tra fatti storici, il Cristo ad avatar qualunque, a profeta o santo o maestro ma non a quel figlio unico e prediletto che Iddio ha mandato sul pianeta. Questo discrimine è pericoloso non soltanto politicamente, ma anche metafisicamente. E’ la tentazione diabolica (cioè: portatrice di divisione) che i monoteismi subiscono periodicamente e che fa dell’ecumenismo un miraggio o, se realizzato, un Sant’Uffizio.
E’ però impossibile ignorare che il richiamo implicito nell’assunzione del nome di Benedetto risiede in una prospettiva non semplicemente storica. In questo caso va richiamato San Benedetto, orante e lavorante. Sono moltissimi gli interventi che Ratzinger, nel corso della sua movimentata vita ecclesiastica, ha dedicato al lavoro: sempre interpretandolo come lavoro interiore. Il nuovo pontefice si laureò su Sant’Agostino, il cui neoplatonismo non è sempre risultato vincente nell’interpretazione via via data circa il valore delle Confessioni. Agostino è il santo che enunciò la pratica meditativa cristiana: “Noli foras ire. Redi in te ipsum. In interiore homine habitat veritas”. Un richiamo alla trasformazione interiore che trova precisi riferimenti in qualunque metafisica contemplativa.
A fonte di questi fronti aperti (quello esterno, che è politico e morale; quello interno, che è contemplativo) non si conosce ancora la strategia di scelta o di equilibrio che adotterà Benedetto XVI. Non è detto che un pontificato dedicato alla riscoperta delle pratiche contemplative risulti necessariamente retrogrado. Se circa le riforme, ci si attende una rivoluzione sessuale propalata dal Vaticano, il problema non è Ratzinger, ma la Chiesa tutta, ed è quindi inutile costringere il pontefice tedesco nell’immaginetta del reazionario contro cui lanciare strali. Per chi è interessato alle cose cattoliche, sarà più opportuno scrutare l’eventualità che emerga un lato nemmeno mistico, ma proprio metafisico nei messaggi e nelle pratiche che Ratzinger dimostrerà di agire.
Del resto, i mangiapreti non si occupano di fede interiore, ma di manifestazione politica della stessa. Quanto a questa militanza, sapete sempre dove trovarci.
Ed è proprio a tale proposito che pubblichiamo un articolo del vaticanista dell’Espresso, Sandro Magister, sulla richiesta di Ratzinger di non concedere al candidato democratico americano John Kerry la comunione: sta tutto in questo atteggiamento il rischio di assistere a un pontificato oscurantista, dominato da colui di cui il teologo Hans Kung ha detto: “Il cardinale Ratzinger ha paura. Proprio come il Grande Inquisitore di Dostoevskij, non teme nient’altro che la libertà”.

Caso Kerry. Ciò che Ratzinger voleva dai vescovi americani
di SANDRO MAGISTER

ROMA – Il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della congregazione vaticana per la dottrina della fede, l’aveva detto chiaro al cardinale Theodore E. McCarrick, arcivescovo di Washington e capo della commissione per la “domestic policy” della conferenza episcopale degli Stati Uniti. Anzi, gliel’aveva messo per iscritto: niente comunione eucaristica ai politici cattolici che fanno campagna sistematica per l’aborto.
Leggi: niente comunione al candidato democratico alla Casa Bianca, il cattolico John F. Kerry.
Il memorandum di Ratzinger è riportato integralmente più sotto. Esso è stato trasmesso per lettera riservata, nella prima metà di giugno, al cardinale McCarrick e al presidente della conferenza episcopale, Wilton Gregory.
Ma i vescovi degli Stati Uniti hanno deciso diversamente . Dopo mesi di discussione e dopo giorni di confronto all’assemblea generale della loro conferenza, tenuta a Denver dal 14 al 19 giugno, hanno emesso una nota, intitolata “Catholics in Political Life”, che rimanda a ogni singolo vescovo la decisione se dare la comunione o no ai politici cattolici abortisti.
La nota è stata adottata con 183 voti a favore e 6 contro. Nelle settimane precedenti, su 70 vescovi che avevano espresso la loro opinione alla “task force” incaricata della questione, i contrari all’idea di negare la comunione avevano battuto i favorevoli per 3 a 1.
La questione era scoppiata con la designazione di Kerry a candidato alle elezioni presidenziali per il partito democratico. Kerry si dichiara cattolico e va a messa. Ma è pubblicamente schierato a favore dell’aborto e di altre scelte in contrasto con la dottrina della Chiesa. Per questo, alcuni vescovi dichiararono che gli doveva essere negata la comunione. Fecero scalpore, in particolare, i pronunciamenti anti-Kerry dei vescovi di Saint Louis, Raymond L. Burke, e di Colorado Springs, Michael J. Sheridan.
Ne divampò una discussione accesissima, dentro e fuori la Chiesa cattolica. I vescovi degli Stati Uniti, che a gruppi si stavano recando a Roma dal papa per la periodica visita “ad limina”, ricevevano dal Vaticano pressioni a essere severi. Ma erano forti su di loro anche le pressioni – e i ragionamenti – di segno opposto.
Su Kerry i giudizi dei vescovi erano e sono concordi. Non è un mistero che egli sia un laicista spinto, su questioni come aborto, eutanasia, clonazione, omosessualità, scuola, famiglia. Louis Bolce e Gerald De Maio, professori di scienza politica alla City University di New York, hanno pubblicato sul numero di maggio 2004 di “First Things” una classifica da loro elaborata sul grado di “secularism” dei senatori USA, con punteggio da zero a un massimo di 10. La media dei repubblicani è 0.95. La media dei democratici è 8.90. Il punteggio del senatore Kerry è un 10 tondo.
Ma ciò che divide i vescovi è la risposta da dare a chi è in stato di “pubblica indegnità a ricevere la santa comunione”, come Ratzinger scrive. Il prefetto della congregazione per la dottrina della fede è tassativamente per il rifiuto dell’eucaristia a Kerry e ai politici cattolici come lui. La gran parte dei vescovi americani no.
Anche tra i vescovi e i cardinali di tendenza “neoconservative” molti sono riluttanti a censurare pubblicamente i politici cattolici che sono in contrasto con la Chiesa.
Uno è il cardinale e teologo Avery Dulles. In un’intervista a “Zenit” del 29 giugno, ha sostenuto che negando loro la comunione la Chiesa si espone all’accusa di voler interferire nella vita politica.
Un altro è il cardinale Francis E. George, arcivescovo di Chicago. In un’intervista a John L. Allen del “National Catholic Reporter”, ha detto che i limiti da porre all’aborto, nel campo politico, sono “questioni di giudizio prudenziale su cui vi possono essere molte discussioni” anche interne alla Chiesa.
Il cardinale McCarrick, parlando ai vescovi riuniti a Denver, s’è fatto portavoce della preoccupazione “che la sacra natura dell’eucaristia sia trasformata in campo di battaglia politica partigiana”. Le vere battaglie, ha detto, “devono essere combattute non alla balaustra della comunione, ma sulla pubblica piazza, nei cuori e nelle menti, sui pulpiti e le tribune, nelle coscienze e nelle comunità”.
McCarrick ha anche detto in assemblea d’aver avuto dalla Santa Sede attestazioni di fiducia nella responsabilità dei vescovi americani: perché giudichino loro se il rifiuto della comunione sia una scelta “pastoralmente saggia e prudente”. Nel memorandum di Ratzinger, tuttavia, non c’è traccia di queste attestazioni.
A leggere in parallelo le due note – quella del prefetto della congregazione per la dottrina della fede e quella dei vescovi – l’impressione è di una divergenza netta.
Va però notato che il rigorismo di Ratzinger e della Santa Sede convivono da anni, in Italia e in Europa, con una prassi più flessibile, anche ai massimi livelli della Chiesa.
Il 6 gennaio 2001, alla messa conclusiva del Giubileo, Giovanni Paolo II diede personalmente la comunione a Francesco Rutelli, cattolico praticante e candidato premier del centrosinistra per le elezioni in programma quell’anno.
Rutelli era stato, nel Partito Radicale, uno dei più attivi fautori della legge sull’aborto in Italia, che è una delle più permissive del mondo. E come cattolico, continuava a sostenere pubbliche posizioni “pro choice”.
Nell’Italia degli anni Settanta avevano dato un forte sostegno al varo della legge sull’aborto politici di sinistra ancor più interni di Rutelli al mondo cattolico: come Piero Pratesi e Raniero La Valle. Eppure mai fu negata loro la comunione. Né mai se ne discusse.
Di casi analoghi l’Europa è piena. Nel Vecchio Continente, negli ultimi decenni, la Chiesa cattolica non ha mai affrontato né tanto meno creato un caso Kerry, che è tipicamente americano. Piuttosto in Europa ha fatto notizia, per la sua singolarità non conforme, un caso opposto: il gesto del cattolicissimo Baldovino del Belgio, che si dimise temporaneamente da re per non firmare la legge sull’aborto. Quel suo gesto fu del tutto spontaneo: nessuno della gerarchia della Chiesa gliel’aveva chiesto.
Ecco dunque, qui di seguito, il memorandum riservato scritto da Ratzinger (lingua originale l’inglese) per la conferenza episcopale degli Stati Uniti:

Dignità a ricevere la santa comunione. Principi generali
di JOSEPH RATZINGER

1. Presentarsi a ricevere la santa comunione dovrebbe essere una decisione consapevole, fondata su un giudizio ragionato riguardante la propria dignità a farlo, secondo i criteri oggettivi della Chiesa, ponendo domande del tipo: “Sono in piena comunione con la Chiesa cattolica? Sono colpevole di peccato grave? Sono incorso in pene (ad esempio scomunica, interdetto) che mi proibiscono di ricevere la santa comunione? Mi sono preparato digiunando almeno da un ora?”. La pratica di presentarsi indiscriminatamente a ricevere la santa comunione, semplicemente come conseguenza dell’essere presente alla messa, è un abuso che deve essere corretto (cf. l’istruzione “Redemptionis Sacramentum”, nn. 81, 83).

2. La Chiesa insegna che l’aborto o l’eutanasia è un peccato grave. La lettera enciclica “Evangelium Vitae”, con riferimento a decisioni giudiziarie o a leggi civili che autorizzano o promuovono l’aborto o l’eutanasia, stabilisce che c’è un “grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. […] Nel caso di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, ‘né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto'” (n. 73). I cristiani “sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. […] Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede” (n. 74).

3. Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull’applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la santa comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell’applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia.

4. A parte il giudizio di ciascuno sulla propria dignità a presentarsi a ricevere la santa eucaristia, il ministro della santa comunione può trovarsi nella situazione in cui deve rifiutare di distribuire la santa comunione a qualcuno, come nei casi di scomunica dichiarata, di interdetto dichiarato, o di persistenza ostinata in un peccato grave manifesto (cf. can. 915).

5. Riguardo al peccato grave dell’aborto o dell’eutanasia, quando la formale cooperazione di una persona diventa manifesta (da intendersi, nel caso di un politico cattolico, il suo far sistematica campagna e il votare per leggi permissive sull’aborto e l’eutanasia), il suo pastore dovrebbe incontrarlo, istruirlo sull’insegnamento della Chiesa, informarlo che non si deve presentare per la santa comunione fino a che non avrà posto termine all’oggettiva situazione di peccato, e avvertirlo che altrimenti gli sarà negata l’eucaristia.

6. Qualora “queste misure preventive non avessero avuto il loro effetto o non fossero state possibili”, e la persona in questione, con persistenza ostinata, si presentasse comunque a ricevere la santa eucaristia, “il ministro della santa comunione deve rifiutare di distribuirla” (cf. la dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, “Santa comunione e cattolici divorziati e risposati civilmente”, 2002, nn. 3-4). Questa decisione, propriamente parlando, non è una sanzione o una pena. Né il ministro della santa comunione formula un giudizio sulla colpa soggettiva della persona; piuttosto egli reagisce alla pubblica indegnità di quella persona a ricevere la santa comunione, dovuta a un’oggettiva situazione di peccato.

[N.B. Un cattolico sarebbe colpevole di formale cooperazione al male, e quindi indegno di presentarsi per la santa comunione, se egli deliberatamente votasse per un candidato precisamente a motivo delle posizioni permissive del candidato sull’aborto e/o sull’eutanasia. Quando un cattolico non condivide la posizione di un candidato a favore dell’aborto e/o dell’eutanasia, ma vota per quel candidato per altre ragioni, questa è considerata una cooperazione materiale remota, che può essere permessa in presenza di ragioni proporzionate.]