pinochet.jpgdi François Houtart
[da “Le Monde Diplomatique”, 27 marzo 2005]

Ripercorrere alcune delle linee di fondo del pontificato di Giovanni Paolo II non è impresa di poco conto, dati i numerosi anni da lui trascorsi al governo della Chiesa cattolica (poco meno di un quarto di secolo), i quasi cento viaggi internazionali, una dozzina di encicliche, innumerevoli discorsi, gli incontri con tante personalità e centinaia di beatificazioni e canonizzazioni.
E tutto questo, in un periodo storico che ha visto il consenso di Washington (1) orientare l’economia mondiale verso il neoliberismo, con le conseguenti catastrofi sociali. Il periodo del crollo del muro di Berlino, dell’avvento del pensiero unico e del fiorire dei movimenti di protesta su scala mondiale, per non parlare dell’attacco terroristico contro gli Stati uniti, o delle guerre che rafforzano il dominio del sistema mondiale oggi in atto.

La missione che Giovanni Paolo II si è assegnato alla testa della Chiesa cattolica era duplice: restaurare una Chiesa scossa dal concilio Vaticano II, e rafforzarne la presenza nella società, onde consentirle di attuare il suo compito di evangelizzazione. Il cardinale Karol Wojtyla aveva partecipato attivamente al concilio Vaticano II (2). Aveva sostenuto la modernizzazione dell’immagine della Chiesa cattolica, appoggiando molte delle riforme adottate dall’Assemblea del vescovi. E tuttavia osservava con preoccupazione, dalla natia Polonia, le conseguenze del concilio su una Chiesa che si stava riformando in profondità, non senza traumi e conflitti interni.
Vicino all’Opus Dei (3), che lo aveva accolto in occasione di alcuni suoi viaggi all’estero, guardava con riprovazione non soltanto a taluni sviluppi eccessivi in campo liturgico (introduzione di testi o di musiche profane), ma anche a numerose applicazioni concrete delle decisioni conciliari. Lo rafforzava nei suoi convincimenti la sua appartenenza al cattolicesimo polacco, culturalmente egemonico in quella società: solido, ma spesso semplicistico nei contenuti, vigoroso nella sua spiritualità caratterizzata dal culto per la Vergine Maria, rigido nella sua morale, cemento della nazione e anima della resistenza al comunismo. Tutto questo doveva condurre l’eletto del Conclave a intraprendere una restaurazione dottrinale, morale e istituzionale della Chiesa cattolica (4). Sul piano dottrinale, non c’è quasi un tema che non sia stato affrontato, se non da lui personalmente, dagli organi della Santa Sede.
La fede, il magistero, l’autorità dottrinale della gerarchia ecclesiastica, la collegialità tra i vescovi per il funzionamento della Chiesa universale, la liturgia, il sacerdozio, il ruolo delle donne nella Chiesa, l’ecumenismo o i rapporti tra le Chiese cristiane, le religioni non cristiane, la dottrina sociale … Accanto a precisazioni interessanti figurano ammonimenti, richiami dottrinali o anche esplicite condanne che rappresentano altrettanti colpi di freno, con misure disciplinari sempre più restrittive, in luogo dell’accompagnamento pastorale di un difficile processo di riforme che doveva consentire alla Chiesa, in un mondo sempre più complesso, di trasmettere meglio il messaggio evangelico. Sono stati sospesi, ad esempio, gli adattamenti liturgici iniziati da alcune Chiese locali asiatiche, in particolare in India, volti a dare alla fede un’espressione più adeguata a quel contesto culturale.
Il documento Dominus Jesus, attinente alla funzione salvifica universale di Gesù, ha posto termine al tentativo di ripensare i rapporti con le grandi religioni d’Oriente: il testo in questione è stato interpretato da alcuni responsabili religiosi e politici asiatici come una giustificazione del proselitismo nelle società che stanno faticosamente recuperando la propria identità culturale, segnatamente attraverso la religione. Diversi teologi hanno subìto condanne, quali il divieto di insegnare o di pubblicare; al cingalese Tissa Balasuriya è stata inflitta la scomunica per aver pubblicato un libro considerato troppo ambiguo sulla verginità di Maria e sul concetto di peccato originale.

Certo, nel campo dei rapporti con le varie confessioni cristiane e con le altre religioni vi sono state alcune manifestazioni suggestive, come gli incontri di Assisi nel 1986 e nel 2002, il digiuno dell’ultimo giorno del Ramadan nel 2001, e così via. Ma l’intransigenza dottrinale e gli ostacoli creati verso forme di collaborazione più istituzionali, in particolare con il Consiglio ecumenico delle Chiese, hanno opposto un limite invalicabile a taluni progressi. Se il papa ha chiesto perdono per le colpe di molti membri della Chiesa cattolica – ai tempi delle crociate e dell’Inquisizione, o ancora per comportamenti razzisti e antisemiti – non ha mai sollevato la questione delle responsabilità dell’istituzione in quanto tale (5).
Quanto alla collegialità episcopale – uno dei punti forti del concilio Vaticano II – Giovanni Paolo II l’ha chiaramente subordinata all’autorità romana. I sinodi generali o continentali si sono spesso trasformati in organi di registrazione della linea pontificia, se non in semplici occasioni di sfogo senza grandi conseguenze. Per la pubblicazione dei loro documenti si richiedeva l’approvazione preventiva del papa; e a volte sono state persino imposte alcune modifiche (6).
La Teologia della liberazione è stata oggetto di una repressione specifica.
Nata in America latina, ha trovato espressione anche in Africa, soprattutto tra i teologi protestanti, così come in Asia, in India, nelle Filippine e nella Corea del Sud. È una riflessione su Dio – come tutte le teologie – che assume come punto di partenza la condizione dei poveri e degli oppressi, rendendo esplicito il suo carattere contestuale – cosa che altre correnti rifiutano generalmente di fare, velando così la relatività del discorso. Per stabilire con chiarezza il suo punto di partenza nella complessità delle situazioni sociali contemporanee, la Teologia della liberazione, che attinge la sua ispirazione al Vangelo, esige la mediazione di un’analisi sociale. Ma questo pensiero travalica largamente il campo dell’etica sociale e ritrova, attraverso lo sguardo degli sfruttati, il senso della persona di Gesù, reinserito nel contesto storico della Palestina del suo tempo. Si sviluppano così una spiritualità e una gamma di espressioni liturgiche in cui ci si rende conto della vita dei poveri, e si guarda con severità a una Chiesa troppo spesso compromessa con i poteri oppressivi.
Questa teologia parla di liberazione, al presente, come espressione dell’amore di Dio per il suo popolo. E dunque appariva pericolosa per l’ordine, sia sociale che ecclesiastico. La reazione di Roma è stata durissima. Era facile accusare questa corrente teologica di marxismo, dato che è fondata sull’esistenza delle strutture di classe. Una prospettiva del genere, come ha detto il cardinale Joseph Ratzinger, responsabile della Congregazione per la dottrina della fede, doveva condurre direttamente all’ateismo. Numerosi teologi hanno quindi subito il divieto di insegnamento e di pubblicazione. I Centri didattici hanno ricevuto l’ordine di proibire qualsiasi insegnamento in cui si parlasse di questa dottrina.
La teologia della liberazione ha dovuto cercare rifugio presso qualche centro di studio o di formazione ecumenico, o nelle università laiche. Nel 1996, lo stesso Giovanni Paolo II, in occasione del suo viaggio in Nicaragua, dichiarò che una volta morto il marxismo, la teologia della liberazione non aveva più motivo di esistere. Quanto alle questioni morali, è nota l’insistenza del papa sul rispetto per la vita fin dal suo concepimento, così come la sua radicale opposizione all’aborto, alla contraccezione, al divorzio, all’eutanasia, ma anche alla pena di morte. Certo, il positivismo scientifico, gli effetti genocidi delle scelte dei poteri economici o il relativismo di un certo pensiero post-moderno rappresentano una minaccia per la vita.
Ma l’attaccamento del pontefice a una filosofia della natura superata dalle conoscenze contemporanee, la sua riluttanza a prendere in considerazione le condizioni sociali e psicologiche concrete degli esseri umani, così come le drammatiche conseguenze – come nel caso dell’Aids in Africa – di talune posizioni dogmatiche, hanno finito per far perdere alla Chiesa cattolica buona parte della sua credibilità. La dottrina sociale rimane un campo privilegiato dell’attenzione di Giovanni Paolo II. I documenti su questo tema sono innumerevoli. In nome del Vangelo, il papa ha condannato con estrema durezza gli abusi e gli eccessi del capitalismo, e ha persino denunciato – a Cuba – il neoliberismo e i suoi effetti perversi.
Ma se nell’enciclica Centesimus Annus ha condannato il socialismo nella sua essenza, in quanto veicolo di ateismo, quando ha stigmatizzato il capitalismo selvaggio lo ha fatto denunciando le sue pratiche, non la sua logica. E laddove si fa riferimento, in questo stesso documento, a un’«economia sociale di mercato», non si menzionano le pratiche «selvagge» attuate nei paesi del Sud e nell’Est europeo da quegli stessi agenti economici che si richiamano a questo modello. Allo stesso modo, i frequenti e insistenti appelli alla «globalizzazione della solidarietà» non sfociano mai in una denuncia delle cause profonde della povertà e delle disuguaglianze.
Peraltro, uno degli strumenti dell’elaborazione e della diffusione della sua dottrina sociale è la Commissione Giustizia e pace, istituita dal concilio Vaticano II: ma la presenza di Michel Camdessus, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), nominato nel 2000 suo consigliere, basta da sola a far dubitare del ruolo di questa Commissione come portavoce dei poveri e degli oppressi… Per l’attuazione del suo fondamentale progetto di restaurazione dottrinale e morale, Giovanni Paolo II aveva bisogno di un’istituzione in grado di portarlo avanti. La sua politica di nomine episcopali si è quindi orientata in questo senso.
In numerose diocesi, i nuovi vescovi, su ispirazione della Santa Sede, hanno iniziato a esercitare un controllo sui centri di formazione, smantellando l’opera pastorale dei loro predecessori e introducendo congregazioni religiose o organizzazioni cattoliche conservatrici. In America latina, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), che aveva svolto un ruolo di punta nel rinnovamento, organizzando, nel 1968, la Conferenza di Medellín per l’applicazione del concilio Vaticano II nel subcontinente, fu trasformato a poco a poco in un organismo di restaurazione. Le conferenze episcopali furono riorientate attraverso nuove nomine.(7)
In tutto il mondo, centinaia di diocesi attraversarono penosi processi di transizione pastorale, non senza drammi personali per coloro che avevano creduto in una Chiesa profetica e in un’istituzione più umana. Solo alcune diocesi di più antica cristianità furono in grado di preservare la propria autonomia, frenando il dilagare delle nomine di segno conservatore. Nel 1982, quattro anni dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, l’Opus Dei acquisì uno status di prelatura personale, al di sopra della giurisdizione dei vescovi. Il suo fondatore fu canonizzato nel 2002, a soli 27 anni dalla sua morte; molti dei suoi membri vennero nominati vescovi, spesso in diocesi importanti, e alcuni furono fatti cardinali.
Ma la sua influenza si fece sentire soprattutto nell’amministrazione centrale della Chiesa cattolica (la curia), dove i suoi membri occupano cariche importanti in numerosi settori e beneficiano di «promozioni» interne. L’«Opera di Dio» potrebbe giocare un ruolo di rilievo anche nella designazione del successore dell’attuale papa. Giovanni Paolo II ha inoltre rafforzato la Curia romana, un apparato il cui mantenimento richiede mezzi considerevoli, che i contributi del fedeli non bastano ad assicurare.
Ma la Santa Sede dispone di un ingente patrimonio, in particolare grazie ai Patti lateranensi (1929), mediante i quali l’Italia fascista risarcì il Vaticano della perdita dell’antico stato pontificio. Questo capitale fondiario e finanziario produce elevati redditi. Ma sotto l’attuale pontificato, le istituzioni bancarie del pontificato hanno dato luogo a clamorosi scandali, tra cui quello del Banco Ambrosiano (8). Scandali che sono costati centinaia di milioni di dollari alla Chiesa cattolica. Ma il pubblico è stato scarsamente informato di queste vicende, che si pongono in plateale contrasto con lo spirito del Vangelo.
Tutti i poteri – giudiziari, politici, economici e mediatici – hanno congiurato per tacitarle, nel timore di mettere a repentaglio un’istanza morale che ai loro occhi costituisce una garanzia dell’ordine sociale. Giovanni Paolo II, vescovo di Roma, avrebbe dovuto ritirarsi a 75 anni, come sono invitati a fare tutti i vescovi a partire dal concilio Vaticano II. Il suo rifiuto ha rafforzato il potere di un’amministrazione sempre più conservatrice. Nuovo «prigioniero del Vaticano», il papa è divenuto così vittima di una curia i cui maggiori esponenti, da lui stesso nominati, hanno portato la restaurazione a un punto tale da provocare reazioni crescenti persino negli ambienti moderati della Chiesa.
La «nuova evangelizzazione» promossa da Giovanni Paolo II è caratterizzata da due principali orientamenti: da un lato quello dell’Opus Dei, volto a evangelizzare attraverso il potere, facendo della spiritualità un segno di eccellenza sociale; dall’altro, quello dei vari movimenti carismatici, esigenti in materia di comportamenti personali, con una tendenza a valorizzare aspetti di tipo affettivo, ma generalmente poco inclini a integrare una dimensione sociale. D’altro canto, le comunità ecclesiali di base nate in America latina, caratterizzate dall’autogestione, in cui a prendere la parola erano i poveri, sono state emarginate e talvolta distrutte: ai sacerdoti che vi esercitavano la funzione di consulenti si imponeva il trasferimento, o si vietava addirittura l’accesso ai locali parrocchiali. E intanto si creavano sotto l’egida clericale altri gruppi con lo stesso nome.
Quanto al ruolo dei laici nella Chiesa, benché valorizzato nei testi, è stato il larga misura relegato a un livello subalterno, a meno che si trattasse di organizzazioni incondizionate quali l’Opus Dei. D’altra parte – e questo è un esempio che colpisce – la Gioventù Operaia Internazionale (Gcoi), nonostante il sostegno di varie conferenze episcopali, è stata emarginata, con l’abrogazione del suo status di organizzazione internazionale cattolica, mentre una Federazione concorrente è stata creata di sana pianta. Queste tendenze si collocano in un contesto tipico di dissociazione culturale, che si manifesta nelle correnti filosofiche così come in parte delle scienze umane, nella produzione artistica e nella ricerca religiosa, ove l’accento è posto sull’individuo.
Paradossalmente, la nostra epoca è contrassegnata a un tempo dal predominio del mercato e da un irrigidimento autoritario ai vertici delle istituzioni. Sradicare il comunismo ateo I numerosi viaggi di Giovanni Paolo II da un capo all’altro del mondo hanno indubbiamente rivelato la sua eccezionale energia, e sono stati molto apprezzati in numerosi ambienti popolari, soprattutto nel Sud, oltre che – logicamente – in Polonia, e in generale da parte dei nuclei cattolici più ferventi. Ma più che di una vera presa di contatto con le realtà dei luoghi visitati, si è trattato innanzitutto di diffondere il pensiero di Roma. L’evento ha prevalso sul messaggio. Se le visite pontificie hanno suscitato emozione, il più delle volte sono servite a rafforzare l’ala conservatrice del cattolicesimo.
La restaurazione della Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II si è dunque tradotta, per Giovanni Paolo II, in una ridefinita solidità dottrinale, in un codice morale tutto d’un pezzo e in un’autorità fuori discussione, al servizio di un progetto modernizzato nella forma, ma fondamentalmente conservatore. Un orientamento del genere era necessario, secondo il papa, per affrontare le forze ostili della società. Perciò Giovanni Paolo II ha adottato come riferimento la figura di Pio XII, e ha aperto il suo processo di beatificazione accanto a quello di Giovanni XXIII, che la vox populi aveva già da tempo elevato agli altari. Nella Gaudium et Spes (9), il concilio Vaticano II descrive il ruolo della Chiesa non già come esercizio di un potere, ma come ispirazione morale. La volontà di condividere le gioie e le speranze dell’umanità, che sembrava nascere da un ottimismo al limite del realismo, era il frutto di un’ispirazione programmatica.
Il nuovo papa non ha tardato a tradurre questo spirito in una duplice battaglia contro le forze ostili al messaggio cristiano: il comunismo ateo e il secolarismo occidentale. La lotta tradizionale contro il comunismo era stata rafforzata dalla proclamazione dell’ateismo quale «religione di stato» nei paesi dell’Est europeo, ma anche, più concretamente, dalla repressione delle libertà e dalle persecuzioni religiose. Giovanni Paolo II, guidato dall’esperienza della Polonia, riteneva che per sradicare il comunismo occorresse mobilitare i cattolici, sia all’interno della Chiesa – e da qui la condanna alla teologia della liberazione – sia all’esterno, attraverso un’azione diretta. Laddove il comunismo era al governo, il papa incoraggiava la creazione di un contro-potere. Con le sue visite in Polonia ha promosso una mobilitazione religiosa, e assicurato – anche sul piano finanziario, tramite il Banco Ambrosiano – l’appoggio a Solidarnosc.
Nei paesi in cui era sul punto di prendere il potere, i cattolici dovevano essere arruolati in un fronte d’opposizione. Fu così che in Nicaragua si arrivò nel 1983 allo scontro con il Fronte sandinista. Nell’omelia tenuta a Managua, il papa condannò la Chiesa popolare e il «falso ecumenismo» dei cristiani impegnati nel processo rivoluzionario. E fece appello all’unità, sotto l’egida di un episcopato particolare reazionario (l’arcivescovo di Managua, Mons. Miguel Obando y Bravo, sarà nominato cardinale dopo la visita pontificia).
Tutto questo portò a una forte repressione ecclesiastica, e sconcertò profondamente i cristiani dei ceti popolari, venuti a celebrare a un tempo la loro rivoluzione e la visita del loro papa. Il viaggio a Cuba segue la stessa linea. Nell’idea di Giovanni Paolo II, quest’isola era l’ultimo bastione del comunismo in Occidente, ormai a fine corsa. L’aggressività – in parte anche a causa del suo stato di salute – non era più all’ordine del giorno. E dato che a suo modo di vedere, la rivoluzione cubana rappresentava una parentesi nella storia, non la menzionò in quanto tale, ma si limitò a sottolinearne gli effetti, tutti in negativo. E al suo ritorno a Roma, dichiarò che la sua visita avrebbe avuto lo stesso effetto del viaggio compiuto dieci anni prima in Polonia. Per la lotta anticomunista c’era bisogno non solo di una Chiesa forte e disciplinata, ma anche di alleanze con altre forze, in campo economico e politico.
Da qui i numerosi compromessi con il potere americano, per cui molte delle sue organizzazioni cattoliche, in Europa e a Roma, hanno canalizzati fondi, sia ufficiali che segreti, in favore di Solidarnosc. E da qui anche la tolleranza nei confronti di regimi dittatoriali di destra, come quelli del Cile, dell’Argentina (10) o delle Filippine.
Gli artefici di queste discutibili relazioni sono stati promossi da Giovanni Paolo II ai vertici di importanti organi della Santa Sede, prima tra tutte le Segreteria di Stato. Da qui infine l’intervento in favore del generale Augusto Pinochet. E sul piano simbolico, la beatificazione, proclamata nel 1998, del cardinale Stepinac, che era stato molto vicino al regime fascista della Croazia durante la seconda guerra mondiale. Il secolarismo occidentale, caratterizzato dal relativismo, dal consumismo e dall’edonismo, è stato il secondo avversario di Giovanni Paolo II. Il quale ha ricordato con forza i valori dell’amore per il prossimo, della solidarietà, della moderazione nell’uso dei beni materiali.
Ma ancora una volta, lo ha fatto in una quadro dottrinale e morale talmente rigido che il messaggio è rimasto purtroppo in larga misura incompreso, e in definitiva poco efficace. Purtroppo, perché l’umanità contemporanea aspira alla spiritualità, è alla ricerca di un senso; e le lotte sociali sono il segnale di un profondo desiderio di giustizia, a fronte di una globalizzazione economica e culturale distruttiva. Richiamo astratto ai valori sociali Un’altra preoccupazione di Giovanni Paolo II è stata quella di perseguire la pace. Si è opposto alla guerra del Golfo, ha messo in guardia contro quella del Kosovo, ha dichiarato le sue riserve sull’attacco all’Afghanistan, ha rivendicato il diritto dei palestinesi a uno stato. Un suo leitmotiv costante è la pace tra i popoli, fondata sulla giustizia nei loro rapporti. Si è dimostrato attento alle sofferenze delle vittime, condannando ad esempio l’embargo contro l’Iraq e contro Cuba, che sottopone la popolazione a restrizioni devastanti. Tutte posizioni ispirate alla fedeltà al Vangelo.
Purtroppo, questi richiami ai valori sono rimasti il più delle volte astratti, dato che il papa non ha mai esplicitato le cause reali delle guerre e le loro connessioni con l’imperialismo economico. Peraltro, l’alleanza di fatto tra la Santa Sede e i poteri economici e politici dell’Occidente continua ad esistere, sulla base di una logica istituzionale (la riproduzione sociale dell’istituzione ecclesiastica), e ha fatto perdere al discorso contro le guerre gran parte della sua credibilità. In questo campo, lo strumento privilegiato della Santa Sede è il servizio diplomatico. Contrariamente a quanto spesso si crede, questo servizio non è un organo del Vaticano in quanto stato, bensì della Santa Sede, cioè della Chiesa; e ha avuto un considerevole sviluppo grazie a Giovanni Paolo II.
Non solo è l’elemento più costoso, ma anche quello socialmente più compromettente, e simbolicamente più contraddittorio rispetto all’ispirazione evangelica, in quanto segno di potere (privilegio di uno stato) ed espressione di ricchezza (l’insediamento di nunziature a fianco delle ambasciate). Nessuno può dubitare che Giovanni Paolo II, il prelato sportivo, l’ex operaio dello stabilimento Solvay di Cracovia, dilettante di teatro e moralista dell’Università cattolica di Lublino, il sacerdote dalla personalità mistica, il pastore dei Carpazi sia destinato a rimanere nella storia come un gigante dell’era contemporanea: il papa di un quarto di secolo che ha trasformato profondamente l’umanità, il papa della globalizzazione (11).
Ma per aver voluto ricostruire una Chiesa più solida in un mondo più umano, questo papa ha finito per distruggere un gran numero di forze vive emergenti, che portavano l’impronta di una visione evangelica e profetica. La luce spirituale e morale di cui voleva essere portatore si è trasformata in istanza politica. Il governo centrale della Chiesa, che avrebbe dovuto essere al servizio del «popolo di Dio», è divenuto un apparato reazionario, alleato di fatto dei poteri oppressori. Il suo appello alla giustizia e alla pace non ha assunto una dimensione profetica commisurata all’immenso sfruttamento, oggi più che mai globalizzato, ma si è tramutato in una critica dai toni ragionevoli. Ha fatto leva non già sulla forza del simbolo, ma su quella dell’autorità. Certo, Giovanni Paolo II ha restaurato la Chiesa, ma quale Chiesa?
Certo, ha rafforzato il suo posto nella società, ma quale posto? La cristianità – aveva detto Harvey Cox, teologo battista, docente a Harvard – ha bisogno di un papa, ma non come potere, bensì in quanto espressione simbolica dell’unità. L’umanità ha bisogno di un richiamo alla speranza, sulla base di analisi della realtà e di progetti per il futuro. Non si può dire che il bilancio del pontificato abbia risposto a questa duplice attesa.
Dovrebbe essere questa la sfida del successore di Giovanni Paolo II (12), che potrà fondarsi a tal fine su una grandissima speranza e sulle forze vive, che fortunatamente sono tuttora presenti sull’intero pianeta.

François Houtart è direttore del Centro tricontinentale e della rivista Alternatives Sud, edita in Belgio

Note
(1) Si legga Moisés Naim, «Il consenso di Washington colto in fallo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2000.
(2) Convocato da Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II ha comportato un’importante riforma, in particolare attraverso la costituzione Lumen Gentium, che ridefiniva la Chiesa come «popolo di Dio», e la costituzione Gaudium et Spes, che qualificava la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo come una realtà di ispirazione e non di dominio. La riforma liturgica ha introdotto la lingua vernacolare e amplificato le funzioni dei laici, in particolare nel culto e nei sacramenti. È stata inoltre rivalutata la collegialità dei vescovi, come contrappeso all’amministrazione centrale di Roma.
(3) L’«Opera di Dio», fondata nel 1928 in Spagna da mons. Escrivà de Balaguer, definita da molti «massoneria bianca», conta più di 80.000 membri, in maggioranza laici, in un centinaio di paesi. Si legga François Normand, «L’inquietante ascesa dell’Opus Dei», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 1995.
(4) Nel 1984 il cardinale Joseph Ratzinger, nominato da Giovanni Paolo II alla testa della Congregazione di Propaganda Fide (già Sant’Uffizio) dichiarò in un’intervista: «Dopo le esagerazioni di un’apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico ed ateo, [la restaurazione] è auspicabile, e peraltro già in atto» (Jesus, Roma, 6 novembre 1984).
(5) Simbolicamente, Giovanni XXIII fu beatificato il 3 settembre 2000, contemporaneamente a Pio IX, il papa del Syllabus (un documento antimodernista, che condannava numerose libertà ormai accettate), non alieno da comportamenti antisemiti.
(6) Ad esempio in occasione del sinodo olandese del 1984, dove l’episcopato dovette firmare un documento preparato dalla Santa Sede.
(7) Come nei casi delle diocesi di Chur, in Svizzera, con la nomina di mons. Haas, di Recife con il successore di Dom Helder Camara, di San Salvador con la nomina di un vescovo dell’Opus Dei come successore di mons. Rivera y Damas e di mons. Oscar A. Romero.
(8) Il Banco Ambrosiano finanziava tra l’altro il regime del dittatore Anastasio Somoza in Nicaragua. Il suo presidente, il banchiere Roberto Calvi, fu trovato impiccato sotto il Ponte dei frati neri, a Londra. Il 16 aprile 1992, nella sua sentenza sul fallimento del Banco ambrosiano, il Tribunale di Milano spiegò i collegamenti esistenti tra quest’ultimo e l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la banca del Vaticano, diretta all’epoca da mons. Paul C. Marcinkus, di nazionalità americana, già invischiato in altre vicende scabrose. Si legga Fernando Scianna, «La mafia au coeur de l’Etat et contre l’Etat», Le Monde diplomatique, ottobre 1982.
(9) La Chiesa nel mondo del nostro tempo.
(10) In Argentina, il nunzio all’epoca della dittatura militare, l’attuale cardinale di curia Pio Laghi, aveva rivolto alla guarnigione di Tucuman le seguenti parole: «Voi che sapete cos’è la patria, ottemperate agli ordini con obbedienza e coraggio mantenendo la serenità dello spirito» (La Nación, Buenos Aires, ottobre 1976). Nel Cile di Pinochet, il nunzio era l’attuale cardinale Angelo Sodano, poi nominato Segretario di Stato, che a proposito del regime ebbe a dichiarare: «Anche i capolavori possono avere qualche macchia. Vi invito a non soffermarvi sulle macchie del quadro ma a guardare l’insieme, che è meraviglioso».
(11) George Weigel, docente all’università cattolica di Washington, ha tracciato un bilancio del pensiero di Giovanni Paolo II nel corso del suo lungo pontificato. Il suo libro rispecchia la visione del papa sulla Chiesa e sul mondo (Jean Paul II, Témoin de l’espérance, Attes, Parigi, 2001).
(12) Giancarlo Zizola ha affrontato questo tema nel suo libro Il Successore, Laterza, 1997. Si legga dello stesso autore, «Guerra di successione in Vaticano», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2001.