Un romanzo di Federica Vicino

Guerraalsistema1.jpg
Lettore, chiunque tu sia, sappi che questa storia è iniziata solo 30 secondi fa

(esistono metropoli nelle quali davvero si vive secondo la legge del più forte: il corpo umano è una di queste)

segmento A : l’elemento femminileI.

Se dovessi fermarmi ora e domandarmi a che punto sono arrivata, come ci sono arrivata e perché ci sono arrivata, le tre domande avrebbero tre risposte identiche:
– non avevo scelta
– non avevo scelta
– non avevo scelta.

Il che a dire: sono arrivata nel punto in cui mi hanno costretta ad andare; ci sono arrivata nel modo in cui mi hanno costretta a farlo (cioè con la forza) e ci sono arrivata solo perché mi ci hanno costretta. Ma non perché sono debole.
E’ una cosa ben diversa.
Non sono un essere debole, io. No. Tutto quel che è accaduto, non è accaduto perché sono debole, al contrario: tutto quel che è accaduto, è accaduto perché sono un essere forte, fortissimo. Ed è questo che loro vogliono…

II.
Inizio della storia.
“Teoria e tecnica dell’accattonaggio”.

Secondo me, l’accattonaggio non è un’attività adatta agli esseri di sesso femminile.
La prostituzione è un’attività adatta ad esseri di sesso femminile; l’accattonaggio no. L’accattonaggio è per i maschi. Per gli XY.
Ma il paradosso vuole che io, che sono una femmina, una XX, in questa che dovrebbe essere l’ultima e definitiva tranche della mia vita, abbia deciso di fare accattonaggio. Scelta “inadatta”, ma facile. Ho sempre trovato più facile spogliarmi della dignità, che dei vestiti. Così mi sono messa all’opera. Mi sono seduta all’angolo di un bel boulevard, sul bianco fintomarmo di un bianco marciapiedi; ho piantato i miei begli occhioni liquidi nel nulla edho teso la mano. L’ho tesa in modo che si vedano ben bene i segni dei buchi sul braccio. Piccoli, neri e tumefatti: uno spettacolo disgustoso, degni non d’un infermiere specializzato del Servizio Sanitario Nazionale ma del più scalcagnato e truculento macellaio. Sì, perché in realtà i miei buchi sono lividi: lividi di flebo … Ma sembrano buchi di ero e questo deve fare un certo effetto. Spiattellati sul bianco fintomarmo del boulevard, risaltano come tondi e vermigli fiorellini su di un lenzuolo candido; attraggono la perbene attenzione dei perbene signori & signore che passano e attraversano la strada, senza mai mettere nemmeno un dito sulla perbene borsetta del santo risparmio, senza mai pensare di fare l’elemosina a questa povera ragazzina third level!… Perché questo — signore & signori – è il più evidente dei fatti evidenti che riguardano la mia persona: io sono una third level (traduco: terzo livello).
Il “level” è il livello di assistenza sanitaria coatta cui quelli come me vengono assegnati; e il numero del level dipende dal grado di distacco dal Sistema. Dico subito che il 4° livello prevede l’eliminazione materiale del soggetto in cura (traduco: soppressione). Quando uno arriva al fourth level viene considerato “agente patogeno per il Sistema”, e quindi, “onde evitare la compromissione del corretto ed efficace funzionamento del Sistema stesso, eliminato”.
I third, come me, sono una specie di sorvegliati speciali. C’è ambulatorio ogni mattina, e non si può mancare nemmeno ad uno degli appuntamenti, pena l’automatico passaggio al fourth, con tutto ciò che ne consegue. La terapia, per i third come me, è lunga e dolorosa; ma — quel che è peggio — è seguita da estenuanti operazioni di controllo dello stato di salute mentale. Operazioni snervanti nella loro banalità e paradossalità: il medico chiede, tu rispondi – domanda secca, risposta secca. Nient’altro. Le domande però si ripetono sempre uguali in successione ossessiva, al solo scopo di generare confusione nella vittima-cavia-paziente terzo livello. Dopo dieci minuti di test, non sai più qual è il colore dei tuoi occhi, né qual è il colore del cielo; non sai più se è l’aria a respirarsi e l’acqua a bersi o viceversa; non sai se viene prima il giorno o la notte, né se è il sole a risplendere di giorno e la luna di notte o il contrario…
Non c’è via d’uscita. Si può solo soccombere al superiore autocontrollo del doctor in camice bianco.
Stando seduta all’angolo di una strada “elevata-eleganza” come questa, la storia si fa interessante. Non sono “intonata” col paesaggio, questo è chiaro: il mio aspetto evoca alla mente dei perbene passanti tutto lo schifo che mi porto addosso, e i perbene signore & signori impegnati nel sacrosanto postmeridiano passeggio non amano vedersi sfilare sotto il naso gli effetti devastanti del contemporaneo degrado. In parole povere, gli faccio schifo.
Poco male: questa è esattamente la reazione che intendevo destare. Ho fame, fa un caldo d’inferno e, a volerla dire tutta, da qualche minuto a questa parte, mi sento osservata. Troppo osservata. Mi insospettisco, poi mi vergogno ed infine mi spavento, perché le “perbene reazioni dei perbene signore & signori” sono spesso imprevedibili. In passato ho preso calci e insulti; ma il rischio vero è beccare una denuncia. La perbene Polizia Sanitaria. Un corpo speciale, creato apposta per noi, per i level. Arrivano in forze, piombando come falchi, vestiti di nero e armati fino ai denti; delle vere bestie. Perquisiscono, picchiano, arrestano… fanno una gran scena, che ai perbene eccetera piace un casino, se non altro perché dà il senso profondo e vero e autentico del repulisti. Poi ti scaricano in un ambulatorio territoriale e qui, per bene che ti va, i doctor ti assegnano un ricovero coatto. Anche il ricovero coatto è una elettrizzante esperienza che i third level sperimentano nel corso della loro breve, ma intensa carriera. Io stessa, se dovessi iniziare a raccontarvi la mia storia, dovrei partire dal mio primo ricovero coatto.
Sappiate, però, che per questo in realtà non c’è tempo.

III
Capitolo primo

Premesso che non c’è tempo per farlo, dovrei iniziare questo mio chapter one con una premessa: ho amato Eric e non ho amato Kerrer. E c’è un motivo preciso per l’una come per l’altra cosa.

Una volta capito che l’idea del mio bel braccino sanguinolento teso verso i perbene passanti del boulevard era tutt’altro che una buona idea, la prima cosa che mi si para davanti non è un bel giovane trendy-vestito, dallo sguardo intenso, gioia di mammà e papà nell’apparenza, cruda bestia metropolitana in fondo all’animo — no! La prima cosa che mi si para davanti è una superblindata della Polizia Sanitaria. Segno che i sospetti di poco fa mi avevano indicato giusto: il mio “non essere intonata col panorama” non è passato inosservato. Un perbene anonimo cittadino ha segnalato la scomoda presenza di un third level all’angolo del boulevard, e ha fatto il suo perbene dovere: ha chiamato la polizia. La superblindata si pianta proprio davanti a me, e io non trovo di meglio da fare che abbassare lo sguardo. Il sangue mi si è gelato nelle vene. E’ evidente che le bestie sono qui per me.
Nelle mie condizioni, fuggire non conviene: ho ancora tutti i farmaci della terapia di stamattina in circolo e la sensazione di non essere capace nemmeno di drizzarmi in piedi. Dalla superblindata scendono quattro bestioni in divisa nera. Cazzutissimi. Il panico mi invade e mi blocca anche il pensiero. I bestioni in divisa mi puntano dritti contro. Non c’è scampo, non c’è scampo! — è tutto quello che riesco a razionalizzare. La disperazione mi suggerisce di fingermi assopita. Tragico errore! Il finto assopimento risveglia l’animalesca ferocia dei quattro in divisa: uno mi assesta un bel calcio tra la coscia e il bacino. Crepo di dolore, che quasi guaisco. Quello che dicono, nemmeno lo sento. Sento una sola cosa, fortissima: il battito del mio cuore, che pompa adrenalina all’impazzata. Il calcio mi ha mandato in pezzi, come una marionetta. Crollo sul fianco dolorante, forse con le lacrime agli occhi, digrignando i denti; già pronta al solito, patetico miserere, pronta a parare colpi e schivare sguardi sprezzanti, pronta a tutto — quand’ecco che i miei sensi vengono attratti da un balenìo improvviso. Un lampo mi attraversa gli occhi.
Le capacità di raziocinio continuano a latitare, sicchè ci metto un po’ a fare chiarezza su quest’ultimo istantaneo accadimento. Alla fine giungo alla seguente parziale spiegazione: quel balenìo è il riflesso del manganello tirato a lucido di nero, che uno dei quattro bestioni già brandisce minacciosamente — ma non ne sono sicura. In effetti, il manganello c’è, è già teso in aria, ma non dà un riverbero così agghiacciante… Il balenìo vero, quello che mi ha distratto, proviene dall’altra parte della strada: nella confusione scorgo il giovane trendy-vestito di cui sopra. In qualche modo aveva attratto la mia attenzione qualche istante prima della discesa dei poliziotti dalla loro vettura. Dev’essere il suo sguardo a balenare: mi sta fissando e lo fa con un’aria che mi inquieta.
I poliziotti gridano di mettermi in piedi. Ero disattenta, e così mi ci mettono loro in piedi, di peso. Fa male anche questo, ma la mia politica è “non lamentarsi mai”. Il poliziotto che giocherella col manganello mi dice di voltarmi faccia al muro; e io, sempre con gli occhi del giovinotto “gioia di mammà e papà” puntati addosso, obbedisco. Ho fretta di concludere lo show, comunque vada a finire. Tutto il resto è prassi: i poliziotti mi perquisiscono, frugando in ogni dove, a colpo sicuro trovano il chip sottocutaneo, sulla mia spalla destra, infilano il deco-tester, compongono il codice e la macchinetta infernale rivela, con un sottilissimo bip, chi sono e qual è il mio level. Prassi. Poi uno degli agenti estrae un laccio di sicurezza: segno che è il momento di attaccare col solito meschino piagnisteo:
Non facevo niente di male! Facevo l’elemosina! Niente di male! L’elemosina, solo l’elemosina! Perché volete arrestarmi? Perché volete mettermi il laccio?
Una volta rinunciato alla dignità — l’ho detto — il resto viene facile. Il mio è un bel lamento di animale in trappola. Imploro, sì: senza il minimo imbarazzo, senza la minima esitazione. Imploro tutto quel che c’è da implorare: spero in un finale con quattro calci nel culo e la possibilità di squagliarmi, con le ossa un po’ rotte, ma squagliarmi!
Naturalmente mi illudo. I poliziotti mi abbrancano e io penso “è finita”. Mi stringono i polsi, e io continuo a pensare “è finita, è proprio finita”!
Non ho più molto chiaro quel che succede. La mia mente mi suggerisce una brevissima riflessione: il balenìo di prima era troppo artificiale per provenire dagli occhi del trendy-giovanotto. Troppo metallico.
E, a proposito, quasi mi dimenticavo di lui. Dov’è ora? Che fa? Continua a guardarmi? E io che faccio? Provo a girarmi per guardare lui? Non c’è tempo — non c’è proprio più tempo! I poliziotti mi sono addosso. Ho paura, l’anca mi fa ancora male, ma l’incredibile è che reagisco, continuo a reagire, mi divincolo, disperatamente — e questo fa inferocire ancora di più le bestie. Non c’è più tempo! Tempo nemmeno per accorgermi che il ragazzone vincente s’è avvicinato ancora. Ha un bell’aspetto deciso, sano; così bello e sano, che nessuno gli fa caso. E’ vicinissimo a me e ai poliziotti. Il balenìo che poco fa mi ha rapito i sensi è dato da un lampo, e il lampo è un riflesso prodotto dalla canna metallica di una pistola. Ed è lui, il trendy-boy, a brandirla. Proprio così: il giovane gioia di mammà e papà ha una pistola. Fermo, sicuro, il suo braccio punta contro il poliziotto numero 1, colpo in canna — fuoco — e via! Fuori uno! Eppoi, di seguito, punta contro il poliziotto numero 2, colpo in canna — fuoco — e via! Fuori due! Numero 3 e numero 4, che disperatamente — solo pochi attimi fa — tentavano di ripararsi o di rispondere al fuoco… niente da fare! Grilletto e via! Grilletto e via! Fuori tre. Fuori quattro.
E questo era — o meglio: questo è Kerrer.
Nel panico generale, ha perfino trovato il tempo di gridarmi:
Scappa!
Gli io ho obbedito. E adesso scappo, spinta da non so quale disperata forza interiore, nella direzione che lui mi ha indicato.
Scappa, e non fermarti finchè non trovi l’acqua!

Messaggio ricevuto: corro – corro e corro finchè non mi ritrovo con i piedi a mollo. Sono sulla riva del fiume che taglia la città da parte a parte – lo chiamo “fiume”, ma il termine più consono sarebbe “rigagnolo”, e dato il rancido olezzo che emanano le sue acque marroni, direi che sarebbe già un bel complimento chiamarlo “fogna”. Ma tant’è: mi infilo nel canneto, e lì provo a raccapezzare le idee. Ci ho messo un bel po’ a riprendere fiato, e molto di più a capire cos’è successo veramente. In ogni caso ho aspettato, perché uno che ti salva il culo in quel modo non si può non aspettarlo. Nemmeno i superblindati della Polizia mi hanno dissuaso dall’attenderlo: continuo a sentirli correre a sirene spiegate, su e giù per il boulevard, e tutt’attorno nel raggio più vasto dell’Urban 16. Eppure aspetto. Fiduciosa.
La bravata del perbene giovinotto benvestito mi ha catapultato automaticamente nel fourth level, ma questo non mi importa, adesso. Ora sono un ricercato terminale: se finisco nelle grinfie della Polizia Sanitaria vengo eliminata. Sono carne da macello per boia staminale. Non importa. Ho altro per la testa, altri crucci…
A Kerrer, per esempio, sulle prime davvero non so che dire. Lui ha quest’aria imbronciata, questo vizio di guardare dritto negli occhi… E’ spuntato all’improvviso dal fitto del canneto, col fiato grosso e tutta la furia della corsa ancora appiccicata addosso. Ha ancora la pistola in mano, e così la prima frase che riesco a mettere in fila (e la meno stupida che mi viene in mente) è:
– Dov’è che la tenevi quella là?
Nel verde del canneto, la pistola continua a riflettere lampi di luce; la indico con un cenno e riformulo la domanda.
– Suppongo che dovrei ringraziarti. – aggiungo.
– Dovresti tacere – taglia corto lui – Non siamo ancora fuori dai casini.
E questo è Kerrer.

(1-Continua)